Giovanni della Croce

 

FIAMMA VIVA D’AMOR - B

 

 

JHS MARIA JOSEPH

 

 

 

Spiegazione delle strofe che trattano della profonda e peculiare unione e trasformazione dell’anima in Dio, scritta dall’autore stesso che le compose, su richiesta della nobildonna Ana de Peñalosa.

 

 

PROLOGO

 

1. Ho provato non poca esitazione, nobile e devota Signora, a spiegare queste quattro strofe come Vostra Signoria mi ha richiesto, poiché trattando di cose tanto interiori e spirituali, per le quali in genere viene meno il linguaggio – ciò che è spirituale va ben oltre il senso –, con difficoltà si può dire qualcosa della loro sostanza; anche perché non si parla convenientemente delle profondità dello spirito se non con spirito profondo. E, per il poco che ce n’è in me, ho rimandato sino a questo momento in cui sembrerebbe che il Signore mi abbia aperto un poco l’intelletto e infuso un certo fervore; e grazie al santo desiderio di Vostra Signoria, forse sua Maestà vorrà che queste strofe, scritte per Voi, per Voi vengano commentate.

Ho preso coraggio, consapevole che da parte mia niente di consono dirò in nulla, ancor più a riguardo di cose così sublimi e sostanziali! Pertanto, non sarà mio se non ciò che di cattivo e di errato vi potrà essere. Per questo motivo lo sottopongo interamente alla migliore opinione e al giudizio della Chiesa cattolica romana, nostra Madre, grazie alle cui regole nessuno cade in errore. E con questi presupposti, appoggiandomi alla Sacra Scrittura, dando per scontato che tutto ciò che si dirà è tanto inferiore a quello che lì c’è, quanto l’immagine dipinta lo è al suo modello vivente, proverò a dire quanto so.

 

2. E non c’è da meravigliarsi che Dio faccia grazie così sublimi e insolite alle anime a cui vuole concedere i suoi doni; poiché, se consideriamo ciò che Dio è in sé, e che le concede in quanto Dio con infinito amore e bontà, non ci sembrerà irragionevole. Infatti, Egli disse che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sarebbero discesi in colui che lo avesse amato e vi avrebbero preso dimora (Gv 14,23)il che sarebbe avvenuto facendolo vivere e dimorare nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo nella vita di Dio, come l’anima lascia intendere in queste strofe.

 

3. Sebbene nelle strofe che sopra commentammo parlammo del più alto stato di perfezione al quale in questa vita si può giungere, che è la trasformazione in Dio, tuttavia queste trattano dell’amore più sublime e perfetto possibile in questo stesso stato di trasformazione. E anche se è vero che sia le une che le altre si riferiscono al medesimo stato di trasformazione, che in quanto tale non può essere superato, tuttavia tale stato può col tempo e con l’esercizio qualificarsi e sostanziarsi sempre più nell’amore; proprio come accade al legno in cui sia penetrato il fuoco: benché questo lo trasformi in sé e sia con lui unito, tuttavia, man mano che la fiamma cresce e il tempo passa, il legno diventa molto più rovente e infiammato fino a generare scintille e vampe.

 

4. Si deve comprendere che l’anima parla, in questo grado di fuoco incendiato, già trasformata e interiormente perfezionata nel fuoco d’amore, che non solo l’unisce a sé, ma produce in lei viva fiamma. Così essa lo sente e così lo esprime in queste strofe con intima e delicata dolcezza d’amore, ardendo nella sua fiamma, ed esaltando alcuni effetti che questa produce in lei. Di tali strofe darò spiegazione, secondo il procedimento che ho usato in altri casi: prima le presenterò di seguito, poi commenterò brevemente ogni strofa; e infine spiegherò ogni singolo verso.

 

 

Canzoni che l’anima canta nell’intima unione con Dio

 

O fiamma d’amor viva,

che amorosamente ferisci

della mia anima il più profondo centro!

poiché non sei più dolorosa,

se vuoi, ormai finisci;

squarcia il velo di questo dolce incontro.

 

O cauterio soave!

O deliziosa piaga!

O tenera mano! O tocco delicato,

che sa di vita eterna

e ogni debito paga!

Uccidendo, morte in vita hai mutato.

 

O lampade di fuoco,

nei cui splendori

le profonde caverne del senso,

che era oscuro e cieco,

con straordinarie perfezioni

calore e luce insieme danno all’Amato!

 

Come dolce e amoroso

ti risvegli nel mio seno,

dove segretamente solo tu dimori!

Nel tuo spirar gustoso,

di bene e gloria pieno,

come delicatamente m’innamori!

 

 

La struttura di queste strofe ricalca quella delle poesie di Boscan riferite al divino, come:

 

Solitudine seguendo,

piangendo mia fortuna,

me ne vado per i sentieri che [mi] si offrono, ecc.,

 

in cui si hanno sei versi, dei quali il quarto verso rima con il primo, il quinto con il secondo e il sesto con il terzo.

 

 

 

PRIMA STROFA

 

O fiamma d’amor viva,

che amorosamente ferisci

della mia anima il più profondo centro!

poiché non sei più dolorosa,

se vuoi, ormai finisci;

squarcia il velo di questo dolce incontro.

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. Sentendosi, ormai, l’anima tutta infiammata nella divina unione e avendo il palato tutto impregnato di gloria e amore, e riversando sin dall’intimo della sua sostanza fiumi di gloria, sovrabbondando di gioia, e vedendo sgorgare dal suo ventre fiumi di acqua viva, che il Figlio di Dio disse sarebbero sgorgati da tali anime (Gv 7,38), le sembra di essere trasformata in Dio con tanta forza, e così altamente da Lui posseduta e adorna di tali beatitudine da non esserne separata che da un velo sottile.

E siccome vede che quella fiamma delicata d’amore, che arde in lei, ogni volta che l’investe la esalta con soave ed eccelsa gloria, tanto che ogni volta che l’assorbe e la travolge crede che le doni la vita eterna, le sembra che, ormai, manchi molto poco perché il velo di questa vita mortale si rompa, ma che per questo poco non finisce di essere glorificata essenzialmente, e si rivolge con grande desiderio alla fiamma, che è lo Spirito Santo, perché squarci il velo della vita mortale per mezzo di quel dolce incontro, e termini di comunicarle veramente ciò che ogni volta sembra concederle, ossia la gloria assoluta e perfetta. Così dice:

 

O fiamma d’amor viva

 

2. L’anima, per sottolineare il sentimento e la riconoscenza con cui parla in queste quattro strofe, mette in ogni verso le parole O! quanto!,che esprimono affettuoso compiacimento e che, ogni volta che si pronunciano, fanno comprendere di ciò che è spirituale più di quello che si comunica con la lingua. La o! serve per descrivere un grande desiderio e un’ardente preghiera rivolta a persuadere; e per ottenere entrambi gli effetti l’anima l’usa in questa strofa, perché con essa esprime e confessa il suo grande desiderio, chiedendo all’amore che la liberi.

 

3. Questa fiamma d’amore è lo spirito del suo Sposo, cioè lo Spirito Santo, che l’anima sente già in sé, non solo come fuoco che la possiede consumandola e trasformandola in soave amore, bensì anche come fuoco che, oltre a questo, in essa arde e getta fiamme, come già dissi .

E questa fiamma ogni volta che fiammeggia bagna l’anima nella gloria e la rinfresca per forgiarla con vita divina.

Tale è l’azione dello Spirito Santo nell’anima trasformata in amore che gli atti compiuti interiormente da lei sono un fiammeggiare, sono vampe d’amore nelle quali la volontà dell’anima, fatta tutt’amore con quella fiamma, sublimemente ama.

E cosi, questi atti d’amore dell’anima sono preziosissimi e uno di essi merita e vale molto di più di quanto ha compiuto in tutta la sua vita senza tale trasformazione, per quanto grande possa essere stato.

E la differenza che esiste tra l’abitudine e l’atto è la stessa che vi è fra la trasformazione d’amore e la fiamma d’amore, che a sua volta è la medesima che vi è fra il legno acceso e la sua stessa fiamma; poiché la fiamma è effetto del fuoco lì presente.

 

4. Possiamo perciò affermare che il modo abituale dell’anima, che si trova in stato di trasformazione d’amore, sia come quello del legno investito sempre dal fuoco e che i suoi atti sono la fiamma che nasce dal fuoco d’amore, che promana tanto più veemente, quanto più intenso è il fuoco dell’unione. In questa fiamma si uniscono e si innalzano gli atti della volontà, estasiata e assorta nella fiamma dello Spirito Santo, come l’angelo che salì a Dio con la fiamma del sacrificio di Manoach (Gdc 13,20).

In tale stato l’anima non può compiere da sé alcun atto, in quanto è lo Spirito Santo che li compie e la muove in essi: di conseguenza tutti i suoi atti sono divini, essendo Dio stesso colui che la crea e la muove.

A motivo di ciò, l’anima crede che ogni volta che questa vampa fiammeggia, facendola amare con diletto e gusto divino, le stia concedendo la vita eterna, poiché la eleva all’azione di Dio in Dio.

 

5. Di questo genere sono le parole che Dio pronuncia nelle anime purificate e monde, parole tutte ardenti, poiché come disse Davide: La tua parola è accesa con veemenza (Sal 118,140)e il profeta: Le mie parole non sono forse come fuoco? (Ger 23,29)Tali parole, come Egli stesso dice per mezzo di san Giovanni (6,64), sono spirito e vita e vengono percepite dalle anime che hanno orecchie per ascoltarle, quelle che, come ho già detto, sono pure e innamorate. Infatti, coloro che hanno il palato corrotto e gustano altre cose non possono gustare lo spirito e la vita di queste parole che, anzi, appaiono loro senza sapore. Perciò, quanto più il Figlio di Dio pronunciava parole sublimi, tanto più alcuni provavano disgusto per la loro stessa impurità, come accadde quando predicò la sublime e amorosa dottrina della sacra Eucaristia, che molti di loro rifiutarono (Gv 6,60-61.67).

 

6. Se tali persone, però, non gustano questo linguaggio di Dio, che parla nell’intimo, non devono pensare che altri non lo gustino. Infatti, lo gustò san Pietro quando disse a Cristo: Dove andremo Signore, che hai parole di vita eterna? (Gv 6,69)E la Samaritana dimenticò l’acqua e l’anfora per la dolcezza delle parole di Dio (Gv 4,28)Essendo quest’anima così vicina a Dio da essere trasformata in fiamma d’amore, in cui le si comunica il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, sarà cosa tanto incredibile affermare che assapori un riflesso di vita eterna, anche se non perfettamente, perché non lo permette la condizione di questa vita? Infatti, è tanto sublime il diletto che quella fiamma dello Spirito Santo produce in essa, che le permette di pregustare il sapore della vita eterna. Per questo chiamala fiamma viva; non perché non sia sempre viva, bensì perché produce tal effetto, ossia in quanto permette all’anima di vivere in Dio spiritualmente e provare la vita di Dio nel modo in cui dice David: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivo (Sal 83,3)Non perché sia necessario dire che Dio sia vivo, perché sempre lo è, bensì per fare comprendere che lo spirito e il senso fatti vivi in Dio vivamente gustano Dio, e ciò è gustare Dio vivo, vita di Dio e vita eterna. Né disse David Dio vivo, se non perché vivamente lo gustava, anche se non in modo perfetto, ma solo come un riflesso di vita eterna. E così, in questa fiamma, l’anima sente tanto vivamente Dio e lo gusta con tanto sapore e soavità, che:

 

O fiamma d’amor viva che amorosamente ferisci.

 

7. Ossia, che con il tuo ardore amorosamente mi tocchi. Infatti, essendo questa fiamma fiamma di vita divina, essa ferisce l’anima con tenerezza di vita di Dio, e tanto e così profondamente e teneramente la ferisce che la scioglie in amore, affinché si compia in lei ciò che avvenne alla Sposa dei Cantici, che tanto si intenerì da sciogliersi e così disse: Appena il mio Sposo parlò, l’anima mia si sentì liquefare (Ct 5,6). Poiché questo è l’effetto che la parola di Dio produce nell’anima.

 

8. Ma come si può dire che la ferisca, se nell’anima non vi è nulla che possa essere ferito, in quanto essa è già tutta bruciata dal fuoco d’amore?

E’ cosa meravigliosa che l’amore non stia mai ozioso, bensì in continuo movimento e che, come la fiamma, getti di continuo vampate qui e là; e l’amore, il cui compito è ferire per innamorare e dilettare, siccome in quest’anima è presente quale viva fiamma, le procura le sue ferite, come fiammate tenerissime di delicato amore, esercitando in modo giocondo e festoso le arti e i giochi d’amore quasi fosse nel palazzo delle sue nozze, così come fece Assuero con la sua sposa Ester (2,17), mostrando le sue grazie, scoprendo le sue ricchezze e la gloria della sua grandezza, perché si compisse in quest’anima ciò che si dice nei Proverbi: Mi dilettavo tutto il giorno, giocando innanzi a lui tutto il tempo, scherzando sulla rotonda terra, e il mio diletto consiste nello stare con i figli degli uomini (8,30-31)vale a dire nel comunicarle a loro. Perciò, queste ferite, che sono i suoi giochi, sono vampate di tocchi delicati che toccano l’anima di quando in quando, provocate dal fuoco d’amore, che non rimane mai ozioso. Questi tocchi, dice, avvengono e feriscono

 

della mia anima il più profondo centro!

 

9. Questa festa dello Spirito Santo accade nella sostanza dell’anima, dove né la forza del senso né il demonio possono arrivare, e perciò è più sicura, sostanziale e dilettevole, quanto più è interiore; perché quanto più è interiore, più è pura, e quanta più purezza vi è, tanto più abbondantemente, frequentemente, abitualmente Dio si comunica. E maggiore è il diletto e la gioia dell’anima e dello spirito, perché è Dio 1’unico agente, non facendo essa niente da parte sua. E poiché costei non può fare nulla da sé, se non per mezzo e con l’aiuto del senso corporeo, dal quale in questo momento è completamente libera e lontana, il suo unico scopo, ormai, è quello di ricevere da Dio, il quale solamente può nel fondo dell’anima, senza l’aiuto dei sensi, operare e muoverla. E, così, tutti i movimenti di quest’anima sono divini, sebbene appartengano anche all’anima, perché nonostante li compia Dio, essa dà il suo assenso volontariamente.

E siccome dire che ferisce nel più profondo centro dell’anima sembra suggerire che essa possiede altri centri più profondi, è bene spiegare come ciò possa essere.

 

10. In primo luogo bisogna sapere che l’anima, in quanto spirito, non possiede né alto né basso, né maggior o minore profondità nel suo essere, come accade invece per i corpi quantitativi; e poiché in essa non vi sono parti, non vi è differenza fra dentro e fuori, essendo tutta allo stesso modo, e non ha centro più o meno profondo quantitativamente Quindi non può essere in una parte più illuminata che in un’altra, come i corpi fisici, ma tutta più o meno alla stessa maniera, come l’aria, che è illuminata più o meno ugualmente in ogni sua parte.

 

11. È chiamato centro più profondo delle cose il punto estremo a cui può giungere il loro essere, la virtù e la forza delle loro azioni e movimenti, e che non può essere oltrepassato, così come il fuoco o la pietra, che hanno virtù, movimento naturale e forza per giungere al centro della loro sfera, e non possono superarlo né non giungervi, né non rimanerci, se non a causa di qualche impedimento contrario e violento.

Secondo ciò, diremo che la pietra, quando si trova dentro la terra, sebbene non sia nel più profondo di essa, in qualche modo si trova nel suo centro, poiché è dentro la sfera della sua attività e del suo movimento, ma non diremo che si trova nel più profondo centro della terra; e così, sempre le resta virtù, forza e inclinazione per scendere e giungere sino a quest’ultimo e profondo centro se le verrà tolto dinanzi l’ostacolo; e quando vi sarà giunta, e non avrà in sé più virtù e inclinazione a muoversi, diremo che si trova nel suo più profondo centro.

 

12. Il centro dell’anima è Dio. Quando sarà giunta a Lui secondo tutta la capacità del suo essere e secondo tutta la forza della sua azione e inclinazione, essa sarà giunta all’ultimo e più profondo suo centro in Dio, e ciò accadrà quando con tutte le sue forze comprenderà e amerà e gioirà in Dio. Ma finché non è giunta a tanto, il che non può accadere in questa vita mortale, nella quale l’anima non può giungere a Dio secondo tutte le sue forze, nonostante sia per grazia e dono divino in questo suo centro che è Dio, avendo ancora movimento e forza per procedere oltre, sebbene sia nel centro, ma non nel più profondo, non può essere soddisfatta, poiché può ancora procedere oltre nelle profondità divine.

 

13. Bisogna poi notare che l’amore è l’inclinazione, la forza e la virtù che l’anima possiede per andare a Dio, poiché è mediante l’amore che l’anima si unisce con Dio; e così, quanti più gradi di amore possiede, tanto più profondamente penetra in Dio e si concentra in Lui. Da ciò possiamo dedurre che, a seconda di quanti gradi di amore di Dio l’anima può possedere, così altrettanti centri può avere in Dio, uno più interno dell’altro; poiché l’amore più è forte più unisce, e, in questo modo, possiamo comprendere le molte dimore che, come disse il Figlio di Dio, cisono nella casa di suo Padre (Gv 14,2).

Quindi, perché l’anima si trovi nel suo centro, che è Dio, secondo ciò che abbiamo detto, basta che possieda un grado di amore, poiché è sufficiente un solo grado perché sia a Lui unita per grazia; se poi ne possedesse due, vorrà dire che si sarà concentrata e unita a Dio in un centro più profondo; e se tre, in uno ancora più profondo. E se giungerà fino all’ultimo grado, l’amore di Dio arriverà a ferire l’ultimo e più profondo centro dell’anima, trasformandola e illuminandone tutto l’essere, la potenza e la virtù, a seconda di quanto essa è capace di ricevere, sino a renderla simile a lui. Le accade, infatti, come al cristallo limpido e puro quando è investito della luce: più gradi di luce riceve tanto più si illumina giungendo, per l’abbondanza di luce, a sembrare pura luce e a non distinguersi più da essa, essendo illuminato a tal punto da identificarvisi.

 

14. E così, dicendo che la fiamma d’amore la ferisce nel suo più profondo centro, l’anima vuol dire che lo Spirito Santo la ferisce e l’investe nella sua sostanza, forza e virtù. Dice ciò, non perché creda che quest’unione sia tanto sostanziale e completa come nella vita beatifica, poiché, anche se l’anima giunge in questa vita mortale a un così alto stato di perfezione come qui si descrive, non giunge né può giungere allo stato perfetto di gloria, sebbene possa accadere che Dio, quasi di passaggio, le elargisca una grazia simile a quello stato. Quindi afferma ciò solo perché s’intenda la grandezza e l’abbondanza del gaudio e della gloria che prova in questo genere di comunicazione dello Spirito Santo. Tale gaudio è tanto maggiore e tenero, quanto più fortemente e sostanzialmente essa è trasformata e concentrata in Dio; ed essendo il massimo a cui in questa vita si può giungere, sebbene, come dicemmo, non tanto perfetto come nell’altra, lo chiama il più profondo centro.

Infatti, l’anima può avere l’abito della carità tanto perfetto in questa vita come nell’altra, ma non l’azione né il frutto; anche se il frutto e l’azione dell’amore crescono a tal punto in questo stato, da diventare simili a quello dell’altra; tanto che, giudicandoli così, l’anima osa affermare ciò che solamente si può dire dell’altra vita, ossia nel più profondo centro dell’anima mia.

 

15. E siccome le cose rare e delle quali si ha poca esperienza appaiono più insolite e meno credibili, come sono quelle che stiamo dicendo dell’anima in questo stato, non dubito che alcuni, non comprendendolo per scienza né conoscendolo per esperienza, non lo crederanno o lo reputeranno una esagerazione o penseranno che non è così come realmente è.

Ma a tutti questi rispondo che il Padre delle luci (Gc 1,17), la cui mano non ha limite (Is 59,1), e con generosità si diffonde, senza esclusione di persona (Ef 6,9), in ogni luogo, come il raggio del sole, mostrandosi benigno anche a coloro che sono in cammino e per via (Sap 6,17), non esita a condividere le sue delizie con i figli degli uomini nella rotondità della terra (Pr 8,31).

E non bisogna reputare incredibile che in un’anima già esaminata, purificata e provata nel fuoco delle tribolazioni, travagli e varie tentazioni, e resa fedele nell’amore, si compia, in questa vita, ciò che il Figlio di Dio promise, ossia: che se qualcuno l’ama, la Santissima Trinità verrà e prenderà dimora presso di lui (Gv 14,23)illuminandole divinamente l’intelletto nella sapienza del Figlio, dilettandole la volontà nello Spirito Santo, e assorbendola il Padre potentemente e fortemente nell’abbraccio abissale della sua dolcezza.

 

16. E se Dio è solito fare ciò con qualche anima, come è vero, bisogna credere che questa di cui parliamo non mancherà di ricevere tali grazie divine, poiché ciò che si compie in essa per l’azione dello Spirito Santo è molto più di ciò che accade nella comunicazione e trasformazione d’amore: questa, infatti, è come brace accesa, mentre l’altra, come già abbiamo detto, è brace nel momento in cui il fuoco s’accende, che non solo è accesa, bensì getta fiamma viva.

E così, questi due modi, unione per solo amore e unione con fiamme d’amore, sono in un certo modo paragonabili al fuoco di Dio che, come dice Isaia, si trova in Sion, e alla fornace di Dio che è in Gerusalemme (31,9); di cui uno rappresenta la Chiesa militante, in cui si trova il fuoco della carità acceso non al massimo grado e l’altro rappresenta la visione della pace, ossia la Chiesa trionfante, dove il fuoco è come fornace accesa in perfezione d’amore.

E anche se, come abbiamo detto, quest’anima non è giunta a tale grado di perfezione, tuttavia, rispetto all’unione ordinaria è come una fornace accesa, con una visione tanto più pacifica, gloriosa e tenera quanto la fiamma è più chiara e risplendente che il fuoco nel carbone.

 

17. Perciò, sentendo l’anima che questa viva fiamma d’amore vivamente le comunica tutti i beni, perché questo divino amore tutto si porta con sé, esclama: O fiamma d’amor viva / che amorosamente ferisci. Come se dicesse: o amore ardente, che con i tuoi movimenti amorosi delicatamente stai glorificandomi secondo la massima capacità e forza dell’anima mia! Mi doni intelligenza divina secondo la completa capacità e attitudine del mio intelletto, mi comunichi amore secondo la massima forza della mia volontà, e mi diletti nella sostanza dell’anima con il torrente delle tue delizie (Sal 35,9) nel tuo divino contatto e nell’unione sostanziale, secondo la massima purezza della mia sostanza e la capacità e ampiezza della mia memoria.

Tutto questo, e molto più di ciò che si può dire, accade nell’anima nel momento in cui s’innalza in lei questa fiamma d’amore. Infatti, quanto più l’anima è purificata nella sua sostanza e nelle sue potenze memoria, intelletto e volontà, tanto più la sostanza divina, che, come dice il Savio,penetra in ogni parte per la sua purezza, profondità, sottigliezza e sublimità (Sap 7,24)l’assorbe in sé con la sua divina fiamma, e in quell’assorbimento dell’anima nella Sapienza lo Spirito Santo esercita le vibrazioni gloriose della sua fiamma che, per essere tanto soavi, l’anima esclama:

 

poiché non sei più dolorosa.

 

18. Vale a dire, poiché ormai non affliggi, non opprimi, non affatichi come facevi prima. Infatti, bisogna sapere che questa fiamma divina, quando l’anima era in stato di purificazione spirituale, ossia quando iniziava a entrare in contemplazione, non era tanto amica e soave come nel presente stato di unione. E per spiegare ciò bisogna intrattenerci un poco.

 

19. È bene sapere che, prima che questo divino fuoco di amore si introduca e si unisca alla sostanza dell’anima con una compiuta e perfetta purificazione e purezza, questa fiamma, che è lo Spirito Santo, ferisce l’anima, distruggendo e consumando le imperfezioni delle sue cattive abitudini. Questa azione dello Spirito Santo predispone l’anima all’unione divina e alla trasformazione d’amore in Dio.

Il fuoco d’amore, che ora si unisce con l’anima glorificandola, è lo stesso che in un primo momento l’investe purificandola, così come il fuoco che entra nel legno è lo stesso che in un primo momento l’investe e ferisce con la sua fiamma, asciugandolo e spogliandolo dei suoi vili accidenti, sino a prepararlo col suo calore, tanto da potere penetrare in esso e trasformarlo in sé.

E ciò chiamano gli spirituali via purgativa. In questo esercizio l’anima sopporta e soffre gravi pene nello spirito, che ordinariamente ridondano nella sensibilità, avvertendo questa fiamma come molto dolorosa. Infatti, in questo periodo di purificazione la fiamma non è chiara, bensì oscura, e se dà una qualche luce all’anima è solo per vedere e sentire le sue miserie e i suoi difetti; né è soave, ma dolorosa, perché sebbene alcune volte le conceda calore di amore, è con tormento e oppressione; e non è dilettevole, ma arida, poiché, sebbene per sua benignità talvolta le conceda qualche piacere per incoraggiarla e animarla, prima o poi l’anima lo sconta e lo paga con altrettanta pena né è ristoratrice e pacifica, ma distruttrice e accusatrice, facendola morire e soffrire nella conoscenza di sé; e così non le dà gloria, ma prima la rende miserabile e disgustosa nella luce spirituale che le concede della sua propria conoscenza, inviando Dio, come dice Geremia, fuoco nelle sue ossa per ammaestrarla (Lam 1,13) e, come dice David, provandola nel fuoco (Sal 16,3).

 

20. E così, durante questo periodo, l’anima soffre nell’intelletto grandi tenebre; nella volontà, grandi asprezze e oppressione; e nella memoria, grande conoscenza delle sue miserie, in quanto l’occhio spirituale è estremamente chiaro nella conoscenza di sé. E nella sostanza dell’anima patisce abbandono e somma povertà; è arida e fredda, talvolta ardente, non incontrando in nulla sollievo, né un pensiero che la consoli, né può innalzare il cuore a Dio, poiché questa fiamma è così dolorosa che fa dire a Giobbe: Sei diventato crudele (30,21)Infatti, quando l’anima patisce tutte queste cose insieme, veramente le sembra che Dio sia divenuto con lei crudele e duro.

 

21. Non si può descrivere ciò che l’anima patisce in questo tempo, giacché è poco meno che le pene del purgatorio. E io non saprei far comprendere questo dolore quanto sia e fino dove può giungere ciò che in essa accade e sente, se non con le parole che a questo proposito Geremia pronuncia: Vedo la mia povertà sotto la verga della Sua ira; mi ha minacciato e trascinato per condurmi nelle tenebre e non nella luce; e contro di me Egli ha volto la Sua mano. Fece invecchiare la mia pelle e la mia carne e spezzò le mie ossa; ha fatto una siepe intorno a me, circondandomi di amarezze e di fatiche; mi pose nell’oscurità, come i morti da secoli; costruì mura intorno a me affinché io non uscissi, ha reso pesanti le mie catene. E anche quando ho alzato la mia voce e pregato, egli non mi ha ascoltato; ha sbarrato ogni mio cammino con pietre quadrate e ha confuso le mie tracce e i miei sentieri (Lam 3,1-9). Tutto questo, e molto più, dice Geremia.

E siccome in questo modo Dio sana e cura l’anima dalle sue molteplici infermità per darle salute, per forza l’anima deve soffrire in questa cura e purificazione della sua malattia; poiché qui, Dio, come Tobia, le pone il cuore sopra la brace, affinché sia allontanato e scacciato da lei ogni genere di demonio (6,8). E così vengono alla luce tutte le sue infermità, curandole e mettendole Dio davanti agli occhi dell’anima perché essa così le conosca.

 

22. E tutte quelle debolezze e miserie che l’anima portava nascoste in sé, che prima non vedeva né sentiva, con la luce e il calore di questo fuoco divino vede e sente; e così come l’umidità che è nel legno non si conosce fino a quando il fuoco infiammandolo non lo fa trasudare, fumare, emanare scintille, allo stesso modo si comporta l’anima imperfetta vicino a questa fiamma.

O meraviglia! In questo periodo si levano, infatti, nell’anima contrari contro contrari: quelli dell’anima contro quelli di Dio che investono l’anima; e, come dicono i filosofi, gli uni risaltano nel confronto con gli altri e si fanno guerra nell’unico soggetto dell’anima cercando, per regnarvi soli, gli uni di cacciare gli altri: le virtù e gli attributi perfettissimi di Dio contro le abitudini e le proprietà imperfettissime dell’anima, soffrendo l’anima due contrari in sé.

E siccome questa fiamma è immensa luminosità, investendo l’anima, fa risplendere la sua luce sulle tenebre di quest’ultima (Gv 1,5), che sono altrettanto immense. Allora l’anima percepisce le sue tenebre naturali e viziose che sono in contrasto con la luce soprannaturale, che non possedendola in sé non avverte, come accade, invece, con le sue stesse tenebre. Le tenebre, infatti, non comprendono la luce (Gv 1,5). E così, finché la luce divina investirà l’anima, questa avvertirà le sue tenebre, perché se non fosse per questa luce essa non potrebbe vederle. Ma quando queste tenebre saranno vinte dalla luce [divina], l’anima illuminata vedrà la luce in sé trasformata, essendo stato purificato e reso forte l’occhio spirituale dalla luce divina. Infatti, questa immensa luce, a causa della vista impura e debole dell’anima, era per lei tenebra, superando la sua intensità la capacità ricettiva dell’anima. Perciò questa fiamma era dolorosa alla vista del suo intelletto.

 

23. E poiché questa fiamma in se stessa è amorosa, teneramente e amorosamente investe la volontà, che in sé è arida e dura. E siccome ciò che è duro si avverte maggiormente se confrontato con ciò che è tenero, così come l’aridità con l’amore, investendo questa fiamma amorosamente e teneramente la volontà, quest’ultima percepisce la sua naturale durezza e aridità verso Dio. La volontà non sente infatti l’amore e la tenerezza della fiamma, impedita dalla sua stessa durezza e aridità, dove non possono entrare i contrari di tenerezza e amore, finché, espulsi i primi da questi ultimi, regna nella volontà amore e tenerezza di Dio. Per questo motivo è questa fiamma dolorosa per la volontà, poiché le fa percepire e patire la sua stessa durezza e aridità.

E poiché questa fiamma è amplissima e immensa e la volontà è stretta e angusta, mentre la fiamma investe la volontà, quest’ultima percepisce la propria povertà e miseria sino a che la fiamma non l’allarga dilatandola e rendendola capace di sé. E sebbene questa fiamma sia saporita e dolce, avendo la volontà il palato dello spirito alterato da umori di disordinate passioni, le riusciva disgustosa e amara e non poteva gustare il dolce operare dell’amore di Dio. In tal modo, paragonata a questa immensa e saporosissima fiamma, la volontà sente la sua angustia e insipienza, e non sente il sapore di essa, perché non la possiede in sé; bensì sente ciò che ha in sé, che è la sua stessa miseria.

Inoltre, poiché questa fiamma è immensa ricchezza, bontà e diletto, mentre l’anima in sé è poverissima, e non ha alcun bene né possiede nulla che l’appaghi, venendo a contatto con le ricchezze, bontà e diletti di questa fiamma, conosce e sente chiaramente la sua miseria, la sua povertà e la sua malizia, perché la malizia non comprende la bontà, né la povertà la ricchezza, e così via, sino a quando questa fiamma non finisce di purificare l’anima e, trasformandola, la arricchisce, la glorifica e la diletta.

In tal maniera questa fiamma era prima dolorosa all’anima molto più di ciò che si può dire, combattendo in essa un contrario contro l’altro: infatti. Dio, che è tutte le perfezioni, lottava contro tutte le sue imperfezioni, al fine di renderla soave, pacifica e splendente, come il fuoco con il legno, quando lo compenetra trasformandolo in sé.

 

24. Questa purificazione accade in poche anime in modo così forte, e solo in quelle che il Signore vuole innalzare al più alto grado di unione. Egli, infatti, dispone per ognuna una purificazione più o meno forte, secondo il grado a cui vuole elevarla, e anche a seconda dell’impurità e imperfezione proprie di questa.

E così, questa purificazione sembra simile a quella del purgatorio; poiché, così come lì si purificano gli spiriti per poter vedere Dio nella chiara visione beatifica, così, a suo modo, qui si purificano le anime per potersi unire a Lui per amore in questa vita.

 

25. Non è nostro proposito trattare di questa purificazione, né di quanto è più o meno intensa, né di come riguardi l’intelletto, la volontà e la memoria, né di come avviene secondo la sostanza dell’anima, o quando riguarda tutte queste cose insieme; né tratterò della purificazione della parte sensitiva, e di come si può conoscere quando è l’una o l’altra, e in che tempo e punto o momento del cammino spirituale comincia, poiché trattammo di ciò nella Notte oscura della Salita del Monte Carmelo, e perciò non ne parlo. È sufficiente ora sapere che quel Dio, il quale vuole penetrare nell’anima per unione e trasformazione d’amore, è lo stesso che prima l’investiva e purificava con la luce e il calore della sua divina fiamma, così come è lo stesso fuoco che entra nel legno quello che prima lo predispone, come abbiamo detto. E così la fiamma che ora è dolce, investendola dall’interno, è la stessa che prima, investendola dall’esterno, le era dolorosa.

 

26. Questo è ciò che l’anima vuole fare comprendere quando pronuncia il verso: Poiché non sei più dolorosa. E come se dicesse: non solo ormai non sei più oscura come in passato, bensì sei la divina luce del mio intelletto, con il quale già posso guardarti; e non solamente non distruggi la mia debolezza, ma anzi sei la forza della mia volontà con la quale ti posso amare e godere, essendomi tutta convertita in amor divino; e già non sei peso né oppressione per la sostanza dell’anima, ma al contrario ne sei gloria, diletto e immensità, così che di me si può dire ciò che si canta nel divino Cantico: Chi è colei che sale dal deserto abbondante di delizie, appoggiata al suo diletto, spargendo amore in ogni dove? (8,5). E poiché è così:

 

se vuoi, ormai finisci.

 

27. Vale a dire: termina di consumare con me il matrimonio spirituale con la tua visione beatifica, poiché questo è ciò che chiede l’anima.

Sebbene sia vero che in questo stato così alto l’anima è tanto più conforme e soddisfatta quanto più è trasformata in amore, e non sa da sé nessuna cosa né osa chiedere, salvo che per il suo Amato, poiché la carità, come dice san Paolo, non pretende le sue cose per sé (1Cor 13,5), ma per il suo Amato; tuttavia, poiché vive nella speranza, nella quale non si può fare a meno di sentire un certo vuoto, prova un certo gemito, anche se soave e delicato, poiché le manca il possesso perfetto dell’adozione dei figli di Dio, dove, compiendosi la sua gloria, il suo appetito si farà quieto.

Quest’ultimo, per quanti legami in terra possa avere con Dio, non si sazierà mai né si tranquillizzerà sino a che non gli sembrerà che la sua gloria possiede il sapore e la dolcezza di quella, come qui accade. Questa gloria è tale che, se Dio non avesse protetta qui anche la carne, riparando la natura con la sua destra, come fece con Mosè nella cavità della pietra affinché potesse vedere la sua gloria senza morire (Es 33,22), a ogni vampata divina la natura si corromperebbe e morirebbe, non avendo la parte inferiore capacità per sopportare tanto e così sublime fuoco di gloria.

 

28. E, perciò, questo suo desiderio e questa sua richiesta non implicano pena, in quanto qui l’anima è incapace di provarla, bensì anelito soave e delicato, desiderando in conformità con lo spirito e con il senso; per questo il verso dice: se vuoi, ormai finisci, perché la volontà e l’appetito sono ormai diventati tutt’uno con Dio, cosicché l’anima reputa sua gloria fare ciò che Dio vuole.

Ma tali sono quelle tracce di gloria e di amore, che in quei tocchi si intravedono oltre la porta senza poter entrare nell’anima, a causa della ristrettezza della casa terrestre, che sarebbe anzitutto dimostrazione di poco amore non chiedere d’entrare in quella perfezione e pienezza d’amore.

Oltre a ciò, l’anima si accorge che in quella forza di dilettevole comunicazione dello Sposo è presente lo Spirito Santo, che la chiama e la invita con quella immensa gloria che le pone dinanzi agli occhi, con meravigliosi modi e soave affetto, dicendole nel suo spirito ciò che nei Cantici dice alla Sposa, che così lo riferisce: Ascolta ciò che mi dice il mio Sposo: Alzati, amica mia, colomba mia, bella mia, e vieni; poiché già è passato l’inverno e la pioggia cessò e si allontanò, e i fiori sono apparsi nei campi, ed è giunto il tempo della potatura; il tubare della tortorella si ode nella nostra terra; il fico ha il suo frutto, la vigna in fiore spande la sua fragranza. Alzati, amica mia, graziosa mia, e vieni, colomba mia, nelle fenditure della pietra, nei nascondigli dei dirupi; mostrami il tuo volto, fammi udire la tua voce, perché la tua voce è soave e bello il tuo viso(2,10-14). Tutte queste cose sente l’anima e le comprende distintamente nel sublime senso di gloria che, in quel soave e tenero fiammeggiare, le comunica lo Spirito Santo, accompagnato dal desiderio di introdurvela; e, per questo, chiamata, risponde, dicendo: se vuoi, ormai finisci. Con ciò pone allo Sposo quelle due richieste che lui ci insegnò nel Vangelo, ossia: Adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua (Mt 6,10). E, così, ècome se affermasse: finisci e dammi questo regno, se vuoi, se ciò è conforme alla tua volontà.

E perché sia così,

 

squarcia il velo di questo dolce incontro.

 

29. Il velo impedisce questa grande opera; perché è semplice giungere a Dio togliendo gli impedimenti e squarciando i veli che impediscono l’unione fra l’anima e Dio. I veli che possono impedire quest’unione e che si devono squarciare perché avvenga e l’anima possieda perfettamente Dio, sono tre: quello temporale, in cui sono comprese tutte le creature; quello naturale, che comprende le operazioni e le inclinazioni puramente naturali; e quello sensitivo, che comprende l’unione dell’anima con il corpo, ossia la vita sensitiva e animale, di cui san Paolo dice: Sappiamo che quando questa nostra casa terrestre si distruggerà, Dio ne concederà una eterna in cielo (2Cor 5,1).

I primi due veli per necessità devono essere stati squarciati per giungere al possesso dell’unione con Dio, nella quale si negano tutte le cose del mondo, rinunciandovi, tutti gli appetiti e gli affetti naturali, mortificandoli, e le azioni dell’anima da naturali si fanno divine.

Tutto ciò accadde nell’anima durante i tormentosi incontri con la fiamma, quando questa era per lei ancora dolorosa; e poiché nella purificazione spirituale di cui si è parlato l’anima squarcia questi due veli e si unisce a Dio, come qui accade, non resta che lacerare ormai il terzo velo, quello della vita sensitiva. Per questo dice qui velo e non veli; perché non resta che questo da squarciare, il quale, per essere già tanto sottile, fine e spirituale, grazie a questa unione divina, non può essere investito dalla fiamma con la forza dei due precedenti, ma con soavità e dolcezza. L’anima così chiama dolce questo incontro, che è tanto più dolce e saporoso quanto più le sembra squarciare il velo della vita.

 

30. Bisogna sapere che la morte di quelli giunti a questo stato, sebbene per il suo processo naturale sia simile a quella degli altri, tuttavia èmolto diversa nella causa e nel modo in cui avviene. Infatti, se gli altri muoiono per malattia o per vecchiaia, a questi, sebbene muoiano anch’essi per malattia o per vecchiaia, non viene strappata l’anima se non da qualche impeto o incontro amoroso più sublime, potente e forte dei precedenti, e perciò capace di squarciare il velo e di portarsi via il gioiello dell’anima.

Così la morte di costoro è soave e dolce, più di quanto non sia stata tutta la loro vita spirituale; poiché essi muoiono a causa di così sublimi impeti e deliziosi incontri d’amore, giacché sono come il cigno che canta più soavemente quando muore. Per questo David disse che erapreziosa la morte dei santi nell’obbedienza di Dio (Sal 115,15)perché qui si uniscono tutte le ricchezze dell’anima e i suoi fiumi d’amore entrano nel mare, i quali fiumi sono così immensi e colmi da sembrare già il mare; unendosi il primo all’ultimo dei suoi tesori, per accompagnare il giusto che parte per il suo regno, mentre riecheggiano dai confini della terra le lodi che, come dice Isaia, sono la gloria del giusto (24,16).

 

31. L’anima durante questi gloriosi incontri, vedendo la copiosità dei beni di cui è arricchita, si sente pronta per possedere definitivamente e perfettamente il suo regno, giacché l’anima qui si riconosce pura, ricca, piena di virtù e disposta per questo fine. Infatti, in questo stato, Dio le permette di vedere la sua bellezza e si fa garante dei doni e delle virtù che le ha dato, perché tutto si trasformi in amore e lode, senza ombra di presunzione e vanità, non avendo già più lievito di imperfezione che possa corrompere la massa (1Cor 5,6; Gal 5,9)e siccome vede che solo le manca di strappare questo misero velo che è la vita naturale, nella quale sente irretita, presa e limitata la sua libertà, con desiderio di sentirsi liberata e unita con Cristo (Fil 1,23)sembrandole peccato che una vita tanto bassa e meschina gliene precluda un’altra così alta e forte, chiede che si rompa, e così dice: squarcia il velo di questo dolce incontro.

 

32. E lo chiama velo per tre motivi: primo per il legame che vi è fra lo spirito e la carne, secondo per la divisione esistente fra Dio e l’anima, terzo perché come il velo non è tanto opaco e spesso da non permettere alla luce di trasparire attraverso, così nello stato presente questo legame sembra un velo tanto delicato, essendo a tal punto spiritualizzato, illuminato e sottile da permettere di intravedere la luce della divinità. E siccome l’anima avverte la forza dell’altra vita, arriva a vedere la fragilità di quella presente, e le sembra un velo così sottile, quasi una ragnatela, come la definisce David quando scrive: I nostri anni saranno considerati come tela di ragno (Sal 89,9). E all’anima così esaltata sembreranno ancor meno, poiché sentendo attraverso Dio percepisce le cose come Dio, davanti al quale, come canta David, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato (Sal 89,4) o, come dice Isaia, tutte le genti sono come se non fossero state (40,17)E questo stesso valore hanno per l’anima tutte le cose, esse sono nulla, essa stessa ai propri occhi è nulla. Solo Dio per lei è tutto.

 

33. Bisogna però notare: per quale ragione l’anima qui chiede a Dio che squarci il velo, invece di tagliarlo o consumarlo, quando sembra non esservi differenza? Possiamo dire che le ragioni sono quattro.

La prima è per parlare con maggior proprietà; perché per un incontro è più appropriato usare il termine squarciare che tagliare o consumare. La seconda perché l’amore è amico della forza amorosa e del tocco forte e impetuoso che si esercita più nello squarciare che nel tagliare o consumare.

La terza perché piace all’amore che l’atto sia brevissimo, affinché si compia velocemente, poiché questo possiede tanta più forza e valore quanto più è breve e spirituale, giacché la virtù, unita, è più forte che dispersa.

E l’amore si introduce nell’anima allo stesso modo in cui la forma si unisce alla materia. in un istante, non essendoci anteriormente nessun atto, ma solo predisposizione a esso. Ugualmente gli atti spirituali infusi da Dio nell’anima avvengono immediatamente; mentre quelli che l’anima compie da sé più propriamente sono disposizioni del desiderio e inclinazioni successive e mai giungono a essere atti perfetti d’amore o di contemplazione, bensì solo qualche volta, quando, come dico, Dio li forma e li perfeziona nello spirito con grande rapidità. Perciò afferma il Savio che la fine dell’orazione è meglio che il principio (Qo 7,8) o, come comunemente si dice, la preghiera breve penetra i cieli [Sir 35,21].

Da ciò si deduce che l’anima già disposta molti di più e più intensi atti può compiere in breve tempo che quella non disposta in molto più tempo; e proprio per la grande disposizione che ha, è solita rimanere tanto tempo in atto d’amore o contemplazione. Mentre quella che non è disposta impiega tutto il suo tempo nel preparare il suo spirito; e anche dopo tale preparazione il fuoco suole indugiare a entrare nel legno, ora perché questo è troppo umido, ora a causa del poco calore di cui dispone, ora per l’uno e l’altro motivo. Ma l’atto d’amore nell’anima predisposta entra immediatamente, poiché l’esca asciutta prende fuoco ogni volta che viene a contatto con la scintilla. Perciò l’anima innamorata preferisce la brevità dello squarciare, piuttosto che le lungaggini del tagliare o consumare.

La quarta ragione è perché si consumi al più presto il velo della vita; perché tagliare e consumare richiedono maggior riflessione, in quanto si attende che la cosa sia giunta a maturazione o al suo termine, o che intervenga qualche altro fatto, mentre squarciando non si deve attendere che le cose giungano al loro punto di maturazione né nulla di simile.

 

34. Ciò chiede l’anima innamorata, la quale non sopporta l’attesa implicita nel fatto che la vita si consumi in modo naturale né che termini in questo o quel tempo; infatti la forza dell’amore e la disposizione che vede in sé la spingono a desiderare e a chiedere che si spezzi immediatamente la tela della vita durante uno di questi soprannaturali incontri o impeti d’amore.

L’anima sa bene che Dio è solito chiamare a sé prima del tempo le anime che più ama [Sap 4,10-14], perfezionando in loro in breve tempo, per mezzo di quell’amore, ciò che potrebbero raggiungere con le loro azioni, procedendo con passo ordinario, in un lungo tempo. Poiché questo è quello che afferma il Savio: Colui che compiace Dio è da Lui amato; e poiché viveva fra i peccatori, fu trasferito in un mondo migliore; fu rapito affinché la malizia non mutasse il suo sentimento e la passione non ingannasse la sua anima. Giunto in breve alla perfezione, compì le opere di molti anni. E poiché la sua anima era gradita a Dio, egli s’affrettò a sottrarla al mondo (Sap 4,10-14)Queste le parole del Savio, nelle quali si può constatare con quanta proprietà e ragione l’anima usa il termine squarciare; infatti, lo Spirito Santo usa questi due termini: rapire eaffrettarsi, che indicano la mancanza di qualsiasi indugio. Con la parola affrettarsi si mette in risalto la rapidità con la quale Dio porta alla perfezione l’amore del giusto, e col termine rapire si mette in rilievo come egli viene strappato alla vita prima del tempo.

Per questo è necessario che l’anima eserciti in vita questi atti d’amore, affinché, consumandosi in breve, non si trattenga molto né qui né senza vedere Dio.

 

35. Vediamo ora perché usa la parola incontro, e non un altro termine, per definire questo assalto interiore dello Spirito. La ragione va ricercata nel fatto che, come già detto, provando l’anima in Dio un infinito desiderio che la vita finisca e siccome ciò non può accadere non essendo ancora giunto il tempo della sua perfezione, essa vede che, per consumarla e liberarla dalla carne, Dio la investe in maniera divina e gloriosa con tali incontri. E questi, che hanno come fine di purificarla e liberarla dalla carne, sono veramente incontri durante i quali Dio penetra la sostanza dell’anima e la divinizza, assorbendola al di sopra di tutto l’essere nel suo stesso essere.

E la causa di ciò è che Dio l’investì e la trafisse vivamente nello Spirito Santo, le cui comunicazioni sono impetuose, quando sono ferventi, come in questo incontro, che l’anima chiama dolce poiché in esso vivamente gusta Dio; e questo non perché gli altri molti tocchi e incontri, che in questo stato riceve, non siano dolci, ma per l’eminenza che questo possiede sopra tutti gli altri; poiché, come abbiamo detto, lo compie Dio al fine di scioglierla e glorificarla quanto prima; perciò le spuntano le ali per dire: squarcia il velo...

 

36. Ricapitolando, tutta la strofa è come se dicesse: O fiamma dello Spirito Santo che tanto intimamente e teneramente trapassi la sostanza dell’anima mia e la cauterizzi con il tuo glorioso ardore!

Giacché, ormai, sei così amica da mostrarti desiderosa di darti a me in vita eterna, se in passato le mie preghiere non giungevano a te – quando con ansia e fatica d’amore soffrivano il mio senso e il mio spirito a causa della mia grande debolezza e impurità e della poca forza d’amore che possedevo, e ti pregavo che mi sciogliessi e mi portassi con te [Fil 1,23], poiché ardentemente ti desiderava l’anima mia, non permettendo l’amore impaziente che mi adattassi alla condizione di vita nella quale tu volevi che ancora rimanessi – e se i passati impeti d’amore non erano sufficienti, giacché non erano tali da ottenere ciò; ora invece, sono tanto rafforzata nell’amore che non solo il mio senso e il mio spirito non vengono meno in te ma anzi sono da te rafforzati.

Infatti, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivo (Sal 83,3)le due parti all’unisono, e ciò che tu vuoi che io chieda, io chiedo, e ciò che non vuoi, non voglio; né posso né mi passa per la mente di chiedertelo. E poiché le mie richieste sono ormai dinanzi ai tuoi occhi più valide e considerevoli d’attenzione, in quanto provengono da te che mi spingi in esse, con gioia e con gusto nello Spirito Santo te le rivolgo, scaturendo ormai il mio giudizio dal tuo volto (Sal 16,2)il che accade quando tu apprezzi e ascolti le preghiere: squarcia il velo sottile di questa vita e non lasciare che l’età e gli anni naturalmente lo spezzino, affinché ti possa amare senza limite né fine con la pienezza e la sazietà che desidera la mia anima.

 

 

 

SECONDA STROFA

 

O cauterio soave!

O deliziosa piaga!

O tenera mano! O tocco delicato,

che sa di vita eterna

e ogni debito paga!

Uccidendo, morte in vita hai mutato.

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. In questa strofa l’anima spiega come le tre persone della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, siano coloro che realizzano in lei questa divina opera di unione. Così, la mano, il cauterio e il tocco, in realtà, sono una medesima cosa; ma usa questi termini in quanto adatti a indicare l’effetto che ciascuna di loro produce.

Il cauterio è lo Spirito Santo, la mano è il Padre e il tocco è il Figlio. E così l’anima qui esalta il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, lodando le tre grandi grazie e beni che in lei operano, poiché hanno mutato la sua morte in vita, trasformandola in sé.

La prima è una piaga deliziosa che l’anima attribuisce allo Spirito Santo; e, perciò, la chiama cauterio.

La seconda sa di vita eterna e l’anima l’attribuisce al Figlio chiamandola perciò tocco delicato.

La terza è la trasformazione in Dio, che è il debito con il quale è ben ripagata l’anima, e che questa attribuisce al Padre cosicché la chiamatenera mano.

E, sebbene qui l’anima nomini tutte e tre le Persone divine a cagione delle proprietà dei loro effetti, si rivolge solo a una di loro, dicendo: morte in vita hai mutato, poiché tutte e tre operano insieme; e così tutto lo attribuisce a uno e uno a tutte.

 

Segue il verso:

 

O cauterio soave!

 

2. Questo cauterio, come abbiamo detto, è lo Spirito Santo, perché, come afferma Mosè nel Deuteronomio, nostro Signore Iddio è fuoco consumante (4,24), ossia fuoco d’amore. Il quale, avendo una forza immensa, infinitamente può consumare e trasformare in sé l’anima che tocca, sebbene ognuna la brucia e l’assorbe a seconda di come la trova disposta: una più e un’altra meno, e questo quanto, come e quando vuole. Ed essendo infinito fuoco d’amore, quando tocca l’anima con una certa veemenza, l’ardore dell’anima giunge a un così sommo grado d’amore, che a questa sembra di ardere più di ogni altro fuoco al mondo.

Per questo motivo, durante questa unione, l’anima chiamalo Spirito Santo cauterio. Infatti, così come nel cauterio si trova il fuoco più intenso e veemente e di maggiore effetto di qualsiasi altro fuoco, allo stesso modo l’atto di questa unione, essendo prodotto da un fuoco infiammato più di qualsiasi altro, è chiamato dall’anima – rispetto agli altri atti – cauterioE poiché il fuoco divino, in questo caso particolare, ha trasformato tutta l’anima in sé, non solamente l’anima patisce il cauterio, ma essa stessa è fatta cauterio di veemente fuoco.

 

3. È cosa meravigliosa e degna da raccontare che, pur essendo questo fuoco di Dio consumatore tanto veemente, che con maggiore facilità consumerebbe mille mondi di quanto quello terrestre brucerebbe un filo di lino, questo fuoco non consuma e non distrugge l’anima in cui così arde; e ancor meno le provoca dolore, anzi la divinizza e la diletta in proporzione alla forza d’amore, bruciando e ardendo in lei soavemente. E ciò accade per la purezza e perfezione dello spirito in cui arde [nello Spirito Santo], come accadde negli Atti degli Apostoli (2,3), dove, venendo questo fuoco, con grande veemenza incendiò l’animo dei discepoli, i quali, come dice san Gregorio, arsero interiormente con amore in modo soave.

Lo stesso ribadisce la Chiesa quando afferma: Venne il fuoco dal cielo, non per bruciare, bensì per risplendere; non per consumare, bensì per illuminare. Perché in queste comunicazioni, siccome il fine di Dio è innalzare l’anima, Egli non la affatica né la opprime, bensì la dilatazione e la diletta; non la rende oscura né la incenerisce, come il fuoco con il carbone, mala rende luminosa e l’arricchisce, perciò l’anima lo chiamacauterio soave.

 

4. E così, la fortunata anima, che per sua grande ventura giunge a questo cauterio, tutto sa, tutto gusta, tutto ciò che vuole fa con successo e nessuno prevale su di lei né nulla la turba, poiché quest’anima è una di quelle di cui l’Apostolo dice: L’uomo spirituale giudica tutto e da nessuno è giudicato (1Cor 2,15), e ancora: Lo Spirito scruta tutto, persino le profondità di Dio (1Cor 2,10). Infatti, questa è la proprietà dell’amore: conoscere tutti i beni dell’Amato.

 

5. O anime gloriose, che meritate di giungere a questo sommo fuoco, nel quale, poiché vi è infinita forza per consumarvi e annichilirvi, è certo che, non consumandovi, immensamente vi consuma nella gloria!

Non stupitevi che Dio conduca alcune anime sino a qui, poiché il sole si distingue per produrre alcuni effetti meravigliosi e, come dice lo Spirito Santo, in tre diversi modi brucia i monti (Sir 43,4), cioè i monti dei santi [Sal 82,15].

Ed essendo, come si è detto, questo cauterio tanto some, quanto crediamo potrà essere deliziata l’anima da lui toccata! Volendolo essa dire, non lo dice, bensì rimane con l’affetto nel cuore e la lode sulla bocca con quell’o, esclamando: O cauterio soave!

 

O deliziosa piaga!

 

6. Dopo avere parlato con il cauterio, l’anima parla ora con la piaga che esso le ha procurato. E così come il cauterio era soave, secondo quanto è stato detto, la piaga, a ragione, dovrà essergli conforme. Infatti, essendo piaga di cauterio soave sarà piaga deliziosa, giacché, essendo il cauterio d’amore, essa sarà piaga d’amor soave. In tal modo l’anima sarà soavemente dilettata.

 

7. E per comprendere quale sia la natura di questa piaga con la quale qui l’anima parla, è bene sapere che il cauterio di fuoco materiale sempre produce una piaga dove tocca, e possiede tale proprietà: applicato su una piaga non di fuoco, la rende di fuoco. E questa proprietà possiede il cauterio d’amore: che l’anima da esso toccata, sia essa piagata da miserie e peccati, sia essa sana, rimane, piagata d’amore e quelle che erano piaghe prodotte da altre cause diventano anch’esse piaghe d’amore.

Però, tra questo cauterio d’amore e quello di fuoco materiale vi è una differenza: quest’ultimo, infatti, produce una piaga che non può essere risanata se non con altre medicine, mentre la piaga prodotta dal cauterio d’amore non si può curare con altra medicina, poiché lo stesso cauterio che la produce la cura e lo stesso che la cura, curandola, la produce; quindi ogni volta che il cauterio d’amore tocca la piaga d’amore provoca una piaga d’amore ancora più grande; e così, cura e risana quanto più piaga. Infatti l’amante, quanto più è piagato più è sano e la cura dell’amore è piagare e ferire quanto è già piagato, sino al punto in cui la piaga è tanto grande che tutta l’anima è piaga d’amore. E così, già tutta cauterizzata e fatta una piaga d’amore, è resa tutta sana nell’amore, poiché è trasformata in amore.

In questo modo si deve intendere la piaga di cui qui parla l’anima tutta piagata e, pertanto, tutta sana. E poiché, sebbene sia tutta piagata e tutta sana, il cauterio d’amore non smette di compiere il suo dovere, ossia toccare e ferire d’amore, ed essendo già tutto delizioso e tutto sano, l’effetto che produce è rendere soave la piaga, come suole fare il buon medico. Per questo dice l’anima: O deliziosa piaga!

O piaga tanto più deliziosa quanto più grande e sublime è il fuoco d’amore che la causò! Infatti, avendola prodotta lo Spirito Santo solo per dilettare, così come il suo desiderio e la sua volontà di deliziare l’anima sono grandi, altrettanto grande sarà questa piaga, affinché grandemente sia dilettata.

 

8. O gioiosa piaga, prodotta da Colui che sa solo risanare! O fortunata e gioiosa piaga, poiché sei stata fatta solo per dilettare, il tuo dolore è delizia e diletto dell’anima piagata! O dilettevole piaga, sei grande! Poiché Colui che ti fece è grande e grande è il piacere da te prodotto, ed essendo il fuoco d’amore infinito secondo la sua capacità e grandezza ti diletta. O deliziosa piaga, tanto più sublimemente deliziosa quanto più nell’infinito centro della sostanza dell’anima è arrivato a toccare il cauterio, bruciando tutto ciò che si può bruciare per dilettare tutto ciò che si può dilettare!

Si può dire che questo cauterio e questa piaga siano al più alto grado possibile in questo stato presente; vi sono infatti molti altri modi con cui Dio può cauterizzare l’anima, che però non giungono a questo grado né sono come questo, poiché questo è il tocco della sola Divinità dell’anima, senza forma alcuna né figura né intellettuale né immaginaria.

 

9. Vi è però un’altra sublime maniera di cauterizzare l’anima in forma intellettuale. Accade così: essendo l’anima infiammata di amore di Dio, ma non così qualificata come abbiamo appena detto, benché conviene molto che lo sia per quello che qui voglio dire, si sentirà colpire da un serafino con una freccia o un dardo ardentissimo di fuoco d’amore che, trafiggendo l’anima già accesa come brace o, meglio, come fiamma, la cauterizza in modo sublime.

Durante questa cauterizzazione, trafitta l’anima con quella saetta, immediatamente si ravviva la fiamma dell’anima innalzandosi con veemenza, come avviene in una fucina o in una fornace accese quando vi si attizza o vi si alimenta il fuoco e si ravviva e si innalza la fiamma. Così, ferita da questo dardo infiammato, l’anima sente la piaga con grandissimo diletto, perché, oltre a essere tutta sconvolta con grande soavità dal frastorno e dal moto impetuoso prodotti da quel serafino, in cui prova un grande ardore e languore d’amore, essa avverte anche la soave ferita e l’erba in cui fu intinto il ferro, come una viva punta nella sostanza dello spirito, nel cuore dell’anima trafitto.

 

10. E di questo intimo punto della ferita, che sembra avere luogo nella metà del cuore dello spirito, ossia dove si prova il massimo del diletto, chi potrà parlarne come conviene? Poiché in quel punto l’anima avverte come un piccolo granello di senape, vivissimo e accesissimo, che irradia intorno un vivo e acceso fuoco d’amore. Questo fuoco, nascendo dalla sostanza e virtù di quel punto vivo dove è la sostanza e la proprietà dell’erba, si diffonde sottilmente attraverso tutte le vene spirituali e sostanziali dell’anima, secondo la sua potenza e forza. In questo l’anima sente prendere forza e crescere tanto l’ardore, e in questo ardore raffinarsi tanto l’amore, da sentire in lei mari di fuoco amoroso, il quale penetra dall’alto al basso l’universo, tutto inondando d’amore. Allora sembra all’anima che tutto l’universo è un mare d’amore nel quale essa è immersa, non riuscendo a vedere né il termine né la fine dove si esaurisce questo amore, sentendo in se stessa, come abbiamo detto, il punto vivo e il centro dell’amore.

 

11. E ciò che qui gode l’anima non si può descrivere, si può solo dire che prova quanto a ragione nel Vangelo il regno dei cieli viene paragonato al granello di senape, che, per il suo grande calore, sebbene così piccolo, dà vita a un grande albero (Mt 13,31-32)L’anima si vede trasformata in un immenso fuoco d’amore che nasce da quel punto acceso del cuore dello spirito.

 

12. Poche sono le anime che giungono a questo stato, alcune però vi sono giunte, soprattutto quelle la cui virtù e il cui spirito dovevano diffondersi nella sequela dei figli, poiché Dio dona la ricchezza e il valore delle primizie dello spirito ai fondatori, secondo il maggiore o minore numero dei loro discepoli nella sua dottrina e nel suo spirito.

 

13. Ritorniamo, dunque, all’opera di quel serafino, che consiste veramente nel piagare e ferire interiormente nello spirito a tal punto che, qualche volta, Dio permette che qualche suo effetto si manifesti esteriormente nei sensi corporali, così come accadde quando il serafino piagò san Francesco: feritagli l’anima d’amore con le cinque piaghe, il loro effetto si manifestò nel corpo, imprimendo in esso le ferite. Lo piagò così d’amore sia nello spirito che nel corpo.

Infatti Dio, ordinariamente, non concede nessuna grazia al corpo se prima non la concede all’anima. E così, quanto maggiore è il diletto e la forza dell’amore che produce la piaga nell’anima, tanto maggiore è quello esteriore prodotto dalla piaga corporale, cosicché crescendo uno, cresce in proporzione l’altro. Ciò accade nel seguente modo: trovandosi queste anime ormai purificate e raccolte in Dio, ciò che per la loro corruttibile carne è causa di dolore e tormento, nello spirito forte e sano gli è dolce e gustoso, cosicché è cosa meravigliosa sentire crescere il dolore nel sapore.

Questa meraviglia la esperimentò bene Giobbe nelle sue piaghe quando disse a Dio: Ritornando a me, mi tormenti in modo meraviglioso(10,16)Poiché è una cosa meravigliosa e degna della grande soavità e dolcezza che Dio tiene nascosta per coloro che lo temono [Sal 30,20]far provare tanto più sapore e diletto quanto più dolore e tormento si sente. Tuttavia, quando la piaga è solamente nell’anima, senza che si manifesti esternamente, il diletto può essere più intenso e sublime. Perché, appena la carne tiene frenato lo spirito, ossia quando i beni spirituali si comunicano anche a essa, questa tira le redini e mette il freno in bocca al veloce cavallo dello spirito, smorzandone il gran brio, poiché se lo spirito usa la sua forza le redini sono destinate a rompersi. Ma fin quando non si rompono, continuano a opprimerlo privandolo della sua libertà, poiché, come dice il Savio: un corpo corruttibile appesantisce l’anima, e la casa terrena opprima il senso spirituale, il quale da sé comprende molte cose (Sap 9,15).

 

14. Dico ciò affinché si comprenda che colui che procede aggrappato alla capacità e al discorso naturale per andare a Dio non si comporterà in modo spirituale; vi sono alcuni, infatti che pensano di potere, con la pura forza e con l’azione del senso, il quale di per sé è vile e naturale, arrivare alle altezze dello spirito soprannaturale, a cui i sensi corporali non giungono se non rinnegando e tralasciando le loro operazioni. È diverso, però, quando dallo spirito derivano effetti spirituali nel senso. Ciò può accadere per l’abbondante presenza dello spirito, come si è spiegato quando abbiamo parlato delle piaghe, le quali si manifestano esteriormente per la loro forza interiore. Così accadde a san Paolo, al quale ridondava nel corpo il grande sentimento che provava nell’anima per i patimenti di Cristo, come egli stesso fa comprendere ai Calati, dicendo: Nel mio corpo porto le ferite del Signore Gesù (6,17).

 

15. Del cauterio e della piaga è stato detto a sufficienza. E se essi sono come sono stati qui descritti, come saranno allora la mano con cui questo cauterio si dà e il tocco? L’anima lo spiega nel verso seguente, più lodandoli che spiegandoli, dicendo:

 

O tenera mano! O tocco delicato!

 

16. Questa mano, come abbiamo detto, è il pietoso e onnipotente Padre. Essa è tanto generosa e magnanima, quanto poderosa e ricca; grandi e abbondanti grazie offre all’anima quando si apre per fargliene dono, e così la chiama tenera mano, ed è come se dicesse: o mano tanto più tenera per l’anima mia, su cui ti posi toccandola soavemente, quanto se tu toccassi qualcosa con forza sprofonderesti il mondo intero, poiché col tuo solo sguardo, la terra trema (Sal 103,32), le genti si disperdono e muoiono, i monti crollano! (Ab 3,6).

O grande mano, come sei stata dura e severa con Giobbe (19,21), toccandolo poche volte aspramente, così sei con me tanto più amica e soave di quanto con lui sei stata dura, e quanto più mi tocchi amichevolmente, piacevolmente e soavemente posandoti nell’anima mia! Infatti tu fai vivere e fai morire, e non c’è chi sfugga alla tua mano (Dt 32,39).

 

Ma tu, o vita divina!, non uccidi se non per dare vita, così come non ferisci mai se non per sanare. Quando lievemente tocchi, castighi, e questo è sufficiente per consumare il mondo, però quando accarezzi, ti posi piacevolmente e il dono della tua dolcezza non è misurabile. O divina mano!, che mi piagasti per risanarmi e uccidesti in me ciò che mi teneva morta e priva della vita divina nella quale ora mi vedo vivere, facendolo con la liberalità della tua immensa grazia, che usasti con me nel tocco con cui mi toccasti, splendore della tua gloria e immagine della tua sostanza (Eb 1,3) che è il tuo Figlio Unigenito, nel quale, essendo Egli la tua sapienza, tocchi con forza da un fine all’altro (Sap 8,1)E questo tuo Figlio Unigenito, o mano misericordiosa del Padre!, è il tocco delicato con il quale mi toccasti piagandomi con la forza del tuo cauterio.

 

17. O tocco delicato, Verbo, Figlio di Dio, che per la delicatezza del tuo essere divino penetri sottilmente la sostanza della mia anima e, toccandola tutta delicatamente, in te l’assorbi tutta in divino diletto e delicatezza mai udite nella terra di Canaan né viste in Teman (Bar 3,22)! O delicatissimo tocco del Verbo, per me ancor più delicato quando, dopo avere scosso i monti e spaccato le pietre nel monte Oreb con l’ombra del tuo potere e la forza che ti precedeva, ti concedesti in modo più soave e forte nel sibilo delicato dell’aria, affinché il profeta potesse percepire la tua presenza! (3Re 19,11-12). O aria lieve! come sei sottile e delicata, dimmi: come tocchi così sottilmente e delicatamente, Verbo, Figlio di Dio, pur essendo tanto terribile e potente?

Fortunata e molto fortunata è l’anima che toccherai sottilmente e delicatamente, pur essendo così terribile e potente! Dire questo al mondo? No, non lo dire al mondo, poiché non sa nulla di aria delicata e non ti ascolterà, poiché non ti può accogliere né ti può vedere (Gv 14,17). O Dio mio! o vita mia!, vedranno e sentiranno il tuo tocco delicato solo quelli che, allontanandosi dal mondo, saranno diventati finemente sensibili, convenendo ciò che è delicato solo col delicato. E così ti potranno sentire e godere sé non coloro che più sottilmente tocchi, poiché per essere già delicata, nuda e purificata la sostanza della loro anima, aliena alle creature e a ogni vestigio e tocco di queste, tu ti ci sei nascosto, dimorando e riposando in essa. E con ciò li nascondi dai perturbamenti degli uomini nel segreto del tuo volto (Sal 30,21)che è il Verbo.

 

18. O tocco delicatissimo, tanto più forte e poderoso, quanto più soave, che con la forza della tua delicatezza distacchi e separi l’anima da tutti gli altri tocchi delle cose create e la serbi e unisci solo a te, e così delicato effetto lasci in esse, che qualsiasi altro tocco di tutte le cose alte e basse gli sembra grossolano e vile, cosicché l’offende il solo guardarle e le dà pena e grande tormento il doverle toccare e trattare.

 

19. Bisogna sapere che una cosa è tanto più profonda e capace, quanto più in sé è delicata, e tanta più forza ha di diffondersi e di comunicarsi quanto più è sottile. Il Verbo, Colui che tocca l’anima, è immensamente soave e delicato, e l’anima è un vaso ampio e capace per la delicatezza e la grande purificazione che ha raggiunto in questo stato.

O tocco delicato! Che tanto più riccamente e abbondantemente ti comunichi quanto più possiedi di sostanza e l’anima mia di purezza.

 

20. Bisogna inoltre sapere che tanto più sottile e delicato è il tocco e tanto maggiore diletto e soavità comunica dove tocca, quanto minor volume e corpo possiede. Questo tocco divino nessun volume né corpo possiede, poiché il Verbo che lo fa è alieno da qualsiasi modo e maniera e libero da qualsiasi forma, figura e accidente, ossia da tutto ciò che è solito delimitare o porre limiti e confini alla sostanza; e così questo tocco di cui qui si parla, essendo sostanza, per meglio dire, sostanza divina, è ineffabile. O tocco ineffabilmente delicato del Verbo, perché fatto nell’anima se non con il tuo purissimo e semplicissimo essere, il quale, essendo infinito, infinitamente è delicato, e, per ciò, tanto sottilmente, amorosamente, eminentemente e delicatamente tocca,

 

che sa di vita eterna!

 

21. In effetti, come più sopra abbiamo già detto, anche se non in grado perfetto, quello che si gusta in questo divino tocco è un certo sapore di vita eterna. E non è incredibile che sia così, credendo, come si deve credere, che questo tocco è tocco di sostanze, ossia, della sostanza divina in quella dell’anima, tocco al quale sono giunti molti santi in questa vita.

È impossibile descrivere la delicatezza del diletto che in questo tocco si sente né io voglio parlarne, perché non si pensi che quello sia, essendo sempre di più di ciò che si può dire.

Non vi sono, infatti, termini adatti per spiegare cose divine così sublimi, come sono quelle che accadono in queste anime, il cui linguaggio, per colui che lo possiede, è comprenderle per sé, sentirle per sé, goderle per sé, tacendole. Poiché l’anima giunge qui a vedere, in un certo modo, che queste cose sono come la pietra di cui parla san Giovanni che si darà a colui che vincerà, e nella pietra sarà inciso un nome sconosciuto a tutti se non a colui che la riceverà (Ap 2,17)E così, solo si può dire, e con verità: che sa di vita eterna.

E, sebbene in questa vita non si gode perfettamente come nella gloria, con tutto ciò, questo tocco, per essere tocco di Dio, sa di vita eterna. E così, qui l’anima gusta tutte le cose di Dio, il quale le comunica forza, saggezza, amore, bellezza, grazia e bontà; e poiché Dio è tutte queste cose, l’anima le gusta in un solo tocco divino, godendole secondo le sue potenze e la sua sostanza.

 

22. Da questo bene dell’anima ridonda a volte nel corpo l’unzione dello Spirito Santo e così tutta la sostanza sensitiva, tutte le membra, le ossa e il midollo godono, non in debole maniera come solitamente suole accadere, bensì con sentimento di grande diletto e gloria, che si avverte fin nelle estreme giunture dei piedi e delle mani. E prova il corpo così tanta gloria nell’anima che a suo modo loda Dio, sentendolo nelle sue ossa, conformemente a quello che dice David: Tutte le mie ossa diranno: Dio, chi è simile a te? (Sal 34,10).

E poiché tutto quello che si può dire è meno di ciò che è,, basta dire, sia per il corpo che per lo spirito: che sa di vita eterna

 

e ogni debito paga.

 

23. Questo dice l’anima poiché, nel sapore di vita eterna che qui assapora, trova la ricompensa di tutte le fatiche passate per giungere a questo stato, nel quale non solamente si sente soddisfatta e ripagata in giusta misura, bensì con grande eccesso premiata, in modo che comprende pienamente la verità della promessa dello Sposo nel Vangelo, ossia che avrebbe dato cento per uno (Mt 19,29)In modo tale che non vi fu tribolazione, né tentazione, né penitenza, né fatica sopportata in questo cammino, alla quale non corrisponda il centuplo di consolazione e diletto in questa vita. Cosicché può ben dire l’anima: e ogni debito paga.

 

24. E per sapere come e quali siano questi debiti di cui qui l’anima si sente ripagata, bisogna sapere che, in via ordinaria, nessuna anima può giungere a questo alto stato e regno dello sposalizio senza passare prima attraverso molte tribolazioni e molti travagli poiché, come si afferma negli Atti degli Apostoli, ci è concesso entrare nel regno dei cieli attraverso molte tribolazioni (14,21)le quali in questo stato sono ormai superate. Infatti, di qui innanzi, essendo l’anima purificata, non soffre più.

 

25. Le sofferenze che patiscono coloro che devono giungere a tale stato sono di tre generi: travagli e desolazioni, timori e tentazioni, in molti diversi modi da parte del secolo; tentazioni, aridità e afflizioni da parte del senso; tribolazioni, tenebre, oppressioni, abbandoni, tentazioni e altre sofferenze da parte dello spirito, affinché, in questo modo, si purifichi secondo la parte spirituale e sensitiva, così come abbiamo detto spiegando il quarto verso della prima strofa.

La ragione per la quale sono necessari questi travagli per giungere a questo stato è che, come un eccellente liquore non si mette se non in un vaso robusto, preparato appositamente e pulito, così questa altissima unione non può verificarsi se non in un’anima rafforzata con sofferenze e tentazioni, e purificata con tribolazioni, tenebre e angustie, poiché attraverso le une si purifica e rafforza il senso, attraverso le altre si spoglia, si purifica e si prepara lo spirito.

Infatti, come nell’altra vita per unirsi con Dio in gloria gli spiriti impuri attraversano le pene del fuoco, così in questa vita, per l’unione di perfezione, essi devono passare per il fuoco delle suddette pene, che in alcuni opera di più e in altri meno fortemente, allo stesso modo in cui in altri agisce più o meno a lungo, a seconda del grado d’unione al quale Dio li vuole elevare e conformemente a quanto in loro deve essere purificato.

 

26. Attraverso questi travagli, in cui Dio pone l’anima e il senso, essa acquista virtù, forza e perfezione con sofferenza, poiché la virtù nella debolezza si perfeziona (2Cor 12,9), e nell’esercizio delle tribolazioni si forgia.

Come il ferro non può essere utile e non può conformarsi all’idea dell’artefice se non è forgiato con il fuoco e il martello, così afferma Geremia quando parla del fuoco che Dio gli mise nell’intelligenza: Inviò fuoco nelle mie ossa e mi insegnò (Lam 1,13)E a proposito del martello dice ancora Geremia: Mi hai castigato, Signore, e imparai (Ger 31,18). Perciò afferma l’Ecclesiastico: Chi non è tentato, che cosa può sapere? (Sir 34,11); e Colui che non è provato, poche cose conosce (Sir 34,10).

 

27. Conviene qui soffermarci sulla causa per la quale sono pochi coloro che giungono a un così alto stato di perfezione nell’unione con Dio. È bene sapere che non è perché Dio vuole che vi siano pochi spiriti elevati, poiché anzi vorrebbe che tutti fossero perfetti, bensì perché vi sono pochi vasi che sopportano così alta ed eccelsa opera. Infatti Dio li sottopone a prove minori e li trova deboli – fuggendo essi dalle tribolazioni non volendo sottoporsi alla minima sofferenza e mortificazione –, e così, non trovandoli forti e fedeli in quel poco cui li sottopone per incominciare a sbozzarli e forgiarli, vede che lo saranno ancora meno se sottoposti a maggiori prove e perciò non prosegue nella purificazione e nel sollevarli dalla polvere della terra con la sua opera di mortificazione, per la quale è necessario una maggior costanza e forza di quella che essi mostrano.

Vi sono molti che desiderano andare avanti e continuamente chiedono a Dio che li porti a questo stato di perfezione, e, quando Dio li vuole iniziare alle prime tribolazioni e mortificazioni, come è necessario, non vi vogliono passare attraverso né dispiacere al corpo, rifuggendo il cammino angusto della vita (Mt 7,14), cercando quello spazioso delle consolazioni, ossia della perdizione (Mt 7,13), non lasciando spazio a Dio per potere ricevere ciò che gli chiedono quando Egli inizia a concederlo.

E così sono come vasi inutili, perché, volendo giungere allo stato di perfetti, non vollero passare per il cammino dei travagli, né iniziarono a entrarvi, sottomettendosi unicamente a quel poco che comunemente si suole patire.

 

A questi si può rispondere con le parole di Geremia: Se ti affaticasti correndo con coloro che andavano a piedi, come potrai gareggiare con i cavalli? E, se avrai avuto quiete nella terra di pace, che farai nella superbia del Giordano? (12,5)Con ciò è come se dicesse: se con le fatiche proprie della via piana, che ordinariamente e umanamente accadono a tutti i viventi, per avere tu un passo così corto, facevi tanta fatica che ti sembrava di correre, come potevi competere con il passo del cavallo, che è fatica più che ordinaria e comune, per il quale si richiede maggiore forza e leggerezza di quella dell’uomo? E se non hai voluto lasciare la pace e il piacere della tua terra, che è la tua sensualità, non volendo dichiararle guerra né contraddirla in nessuna cosa, come pretendevi di entrare nelle turbolente acque delle sofferenze e tribolazioni dello spirito, che sono più intime?

 

28. O anime che volete camminare sicure e consolate per le vie dello spirito! Se sapeste quanto vi conviene soffrire per giungere a questa sicurezza e ricompensa e come senza questa sofferenza non si può giungere a ciò che l’anima desidera senza ritornare indietro, in nessun modo cerchereste consolazione, né in Dio né nelle creature; anzi portereste la croce e, crocefisse, berreste fiele e aceto puro (Gv 19,29; Mt27,34)considerando ciò come una grande fortuna, vedendo come, morendo così al mondo e a voi stesse, si vive Dio [Rm 6,10-11] in gioia di spirito.

E soffrendo con pazienza e fedeltà le piccole sofferenze esteriori, meritereste che Dio posasse gli occhi su di voi per purificarvi più profondamente con travagli spirituali, al fine di concedervi beni più interiori.

Molti servigi hanno dovuto compiere per Dio, e molta pazienza e costanza hanno dovuto avere per Lui, e devono essere stati con la loro vita e le loro opere a Lui molto graditi coloro a cui Dio concede tanta segnalata grazia da tentarli più interiormente, al fine di avvantaggiarli con doni e con meriti. Così leggiamo accadde al santo Tobia, al quale san Raffaele disse che, per essere ben accetto a Dio, questi gli aveva concesso la grazia di inviargli la tentazione sottoponendolo a maggiore prova, onde innalzarlo di più (Tb 12,13).

E così, tutto il tempo che gli rimase da vivere, dopo quella tentazione, lo trascorse nella gioia, come dice la Sacra Scrittura (Tb 14,4)Altrettanto accadde a Giobbe, a cui il Signore, avendo questi accettato le sue opere davanti agli spiriti buoni e cattivi, fece la grazia di inviare quelle dure prove per innalzarlo, moltiplicandogli poi di molto i beni spirituali e temporali [Gb 42,10-17].

 

29. Allo stesso modo opera Dio con coloro che vuole aiutare in relazione al bene fondamentale. Questi li fa e li lascia tentare per innalzarli quanto è possibile, cioè facendoli giungere all’unione con la sapienza divina, la quale, come dice David, è argento provato col fuoco, provato nella terra (Sal 11,7) della nostra carne e purificato sette volte, ossia il massimo possibile.

Non è il caso che ci prolunghiamo ancora per dire quali siano queste sette purificazioni .per giungere alla sapienza divina, di quale natura sia ciascuna di esse e come a ognuna di queste corrispondano sette gradi d’amore nella divina sapienza. Tale sapienza, tuttavia, è per l’anima, per quanto essa possa essere unita a Dio in questa vita, come l’argento di cui parla David, mentre nell’altra sarà come oro.

 

30. Conviene all’anima sopportare con costanza e pazienza ogni tribolazione e sofferenza interiore ed esteriore alla quale Dio la sottopone, spirituale e corporale, maggiore o minore, prendendole come provenienti dalle mani di Dio per il suo bene e per sua medicina, e non fuggendo da queste, poiché sono salute per lei, seguendo così il consiglio del Savio: Se lo spirito del potente discenderà sopra di te, non abbandonare il tuo posto, ossia il luogo della tua prova, che è la tribolazione a cui sei sottoposto, poiché la cura farà cessare i grandi peccati (Qo 10,4)Taglia le radici dei tuoi peccati e imperfezioni, che sono le abitudini cattive, poiché la battaglia delle tribolazioni, oppressioni e tentazioni elimina le abitudini cattive e imperfette dell’anima purificandola e fortificandola.

Perciò l’anima deve avere in grande considerazione quando Dio le invia tormenti sia esteriori che interiori, comprendendo che sono molto pochi coloro che meritano di essere consumati nella prova, soffrendo per giungere a un così alto stato.

 

31. Ritornando dunque al nostro commento, l’anima sapendo ora che tutto è riuscito bene, che già sicut tenebrae eius, ita et lumen eius (Sal 138,12)e che, come partecipò alle tribolazioni, ora prende parte alle consolazioni e al regno (2Cor 1,7)essendo stata ripagata di tutte le tribolazioni patite, sia esteriori che interiori, con beni divini spirituali e materiali, così che non vi è travaglio a cui non corrisponda un gran premio, lo confessa, ormai appagata, dicendo: E ogni debito paga, ringraziando in questo verso Dio, così come fece David, essendo stato liberato dai travagli, dicendo: Quante tribolazioni mi mostrasti differenti e cattive! E da tutte loro mi hai liberato, dagli abissi della terra nuovamente mi hai tirato fuori; moltiplicasti la tua magnificenza e, rivolgendoti a me, mi consolasti (Sal 70,20-21).

E così, l’anima, che prima di giungere a questo stato, se ne stava come Mardocheo alle porte del palazzo, piangendo nelle piazze di Susa per il pericolo in cui si trovava la sua vita, vestito di cilicio, rifiutando la veste offertagli dalla regina Ester, senza ricevere premio alcuno per i servigi resi al re e per la fede mostrata nel difendere l’onore e la vita di lui, in un solo giorno, come lo stesso Mardocheo, vede ripagati tutti i suoi travagli e i suoi servigi, poiché non solo è fatta entrare nel palazzo e ammessa dinanzi al re vestita con abiti regali, bensì le viene offerta anche la corona, lo scettro e il trono insieme all’anello del re, affinché faccia tutto ciò che desidera, e ciò che non desidera non faccia, nel regno del suo Sposo (Est 4-8).

Infatti, coloro che si trovano in questo stato ottengono tutto ciò che desiderano. Con ciò non solamente è ripagata, ma muoiono i suoi nemici giudei, che sono gli appetiti imperfetti, che la privavano della vita spirituale, nella quale ora essa vive secondo le sue potenze e appetiti. Ed è per questo che l’anima esclama:

 

Uccidendo, morte in vita hai mutato.

 

32. La morte non è altro che privazione della vita; infatti, arrivando la vita, non resta traccia di morte. Per ciò che concerne lo spirito, vi sono due modi di vita: una è quella beatifica e consiste nel vedere Dio; questa si raggiunge per mezzo della morte corporale e naturale, come afferma san Paolo quando dice: Sappiamo che quando questa nostra casa terrestre si distruggerà, Dio ci concederà una dimora eterna in cielo(2Cor 5,1).

L’altra è la perfetta vita spirituale e consiste nel possesso di Dio per unione d’amore e si raggiunge con la mortificazione di tutti i vizi e appetiti e della loro stessa natura. Sino a quando non si fa ciò, non si può giungere alla perfezione di questa vita spirituale d’unione con Dio, così come afferma l’Apostolo quando dice: Se vivrete secondo la carne, morirete, ma se con lo spirito mortificherete le opere della carne, vivrete (Rm 8,13).

 

33. È da notare che ciò che qui l’anima chiama morte è l’uomo vecchio [Rm 6,6], cioè l’uso delle potenze – memoria, intelletto e volontà – impegnate nelle cose del secolo, e gli appetiti occupati nel gusto delle creature. Tutto ciò è esercizio della vita vecchia, la quale è morte della nuova, che è la spirituale, nella quale l’anima non potrà vivere perfettamente se non morirà altrettanto perfettamente l’uomo vecchio, come ammonisce l’Apostolo quando afferma: Si spoglino dell’uomo vecchio e si rivestano di quello nuovo, il quale è creato secondo Dio in giustizia e in santità (Ef 4,22-24). In questa vita nuova, ossia quando l’anima è giunta alla perfezione dell’unione con Dio di cui qui trattiamo, tutti gli appetiti dell’anima e le sue potenze secondo le loro inclinazioni e operazioni, le quali di per sé erano opere di morte e privazione della vita spirituale, si mutano in divine.

 

34.E poiché, come dicono i filosofi, ogni vivente vive per mezzo delle sue operazioni, avendo l’anima le sue operazioni in Dio per l’unione che ha con Dio, vive vita divina; e così la sua morte si è trasformata in vita, ossia la sua vita animale si è mutata in vita spirituale.

Infatti l’intelletto, che prima di quest’unione comprendeva naturalmente con la forza e il vigore della luce naturale per mezzo dei sensi corporali, ora, messi da parte i sensi, è mosso e informato da un più alto principio, quello della luce soprannaturale di Dio, e così si è mutato in divino, perché grazie a questa unione l’intelletto dell’anima e quello di Dio sono tutt’uno.

E la volontà, che prima amava fiaccamente con il suo solo appetito naturale, ora è mutata in vita di amore divino, poiché ama in modo sublime con affetto divino, mossa dalla forza e dalla virtù dello Spirito Santo, in cui vive vita di amore, essendo ormai la volontà di Lui e quella di lei una sola volontà.

E la memoria, la quale da sé percepiva solo le forme e i fantasmi delle creature, è mutata per mezzo di questa unione, avendo in mente gli anni eterni di cui parla David (Sal 76,6).

L’appetito naturale, che solo aveva capacità e forza per gustare il sapore della creatura, procurando così morte, ora è mutato in gusto e sapore divino, mosso e soddisfatto già da un altro principio dove vive più che mai, ossia dal diletto di Dio, ed essendo a lui unito è solamente appetito di Dio.

In ultimo, tutti gli appetiti, operazioni e inclinazioni che l’anima prima aveva come principio e forza della sua vita naturale, ora, grazie a questa unione, sono mutati in movimenti divini, morti alle loro operazioni e inclinazioni ma vivi in Dio. L’anima, infatti, come vera figlia di Dio, è mossa in tutto dallo spirito di Dio, come insegna san Paolo, quando dice: Coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio (Rm 8,14).

In modo che, come abbiamo detto, l’intelletto di quest’anima è intelletto di Dio, la sua volontà è volontà di Dio e la sua memoria, memoria eterna di Dio, il suo diletto, diletto divino e la sostanza dell’anima, sebbene non è sostanza di Dio, poiché non può convertirsi sostanzialmente in lui, tuttavia, essendo come qui accade unita con lui e assorta in lui, è Dio per partecipazione. Ciò accade in questo stato perfetto di vita spirituale, sebbene non tanto perfettamente come nella vita beatifica. In questo modo l’anima è morta a tutto ciò che era in se stessa, ossia a tutto ciò che era morte per lei e viva a ciò che è Dio in sé.

E perciò, parlando di sé, dice nel verso: Uccidendo, morte in vita hai mutato. Infatti, ora l’anima può dire come san Paolo: Vivo, ma non più io, Cristo vive in me (Gal 2,20)Essendo mutata la morte di quest’anima in vita di Dio, le si addicono anche le parole dell’Apostolo quando afferma:Absorta est mors in victoria (1Cor 15,54)così come quelle che il profeta Osea pronuncia in nome di Dio: O morte, io sarò la tua morte (13,14),che significano: poiché io sono la vita, essendo morte della morte, questa verrà assorbita nella vita.

 

35. In questo modo l’anima è assorta in vita divina, aliena a tutto ciò che è mondano, temporale e appetito naturale, introdotta nelle stanze del Re, dove gode e si rallegra nel suo Amato, ricordandosi del suo petto più che del vino, dicendo: Sebbene sono bruna, figlie di Gerusalemme, sono bella (Ct 1,4-5)perché il mio colore bruno naturale si trasformò nella bellezza del Re celeste.

 

36. In questo stato di vita perfetta l’anima, interiormente ed esteriormente, è come se fosse sempre in festa, e frequentemente sente nel palato del suo spirito un grande giubilo divino, come un canto nuovo [Sal 39,4; 143,9; Ap 5,9;14,3], sempre nuovo, intonato con allegria, amore e consapevolezza del suo alto stato. Talvolta cammina con gaudio e fruizione, ripetendo nel suo spirito quelle parole di Giobbe che affermano:La mia gloria sempre si innoverà (29,20) e come palme moltiplicherò i giorni (29,18)Come a dire: Dio, il quale permane in sé sempre identico, e tutte le cose rinnova, come dice il Savio (Sap 7,27)essendo ormai per sempre unito alla mia gloria, sempre la rinnoverà; ossia non le permetterà di invecchiare, come in passato, e moltiplicherò i giorni come palme, cioè farò in modo che i miei meriti arrivino fino al cielo, così come la palma protende i suoi rami verso l’alto.

Siccome i meriti dell’anima che si trova in questo stato sono ordinariamente grandi, sia per il numero che per la qualità, canta a Dio nel suo spirito tutto quello che David dice nel salmo, il cui inizio è: Exaltabo te, Domine, quoniam suscepisti me, e in particolar modo quei due versetti finali che dicono: Convertisti planctum meum in gaudium mihi; conscidisti saccum meum et circumdedisti me laetitia (29,12-13), affinché ti canti la mia gloria e già non sia afflitto; Signore, mio Dio, per sempre ti loderò.

E non c’è nulla di cui meravigliarsi se l’anima con tanta frequenza prova queste gioie, giubili, fruizioni e lodi di Dio, poiché oltre il riconoscimento delle grazie ricevute sente Dio così sollecito a favorirla con tante preziose, delicate e straordinarie parole e a innalzarla con l’una e l’altra grazia, che sembra all’anima che per Lui non vi sia altra cosa al mondo di cui occuparsi né a cui dedicarsi, bensì che sia tutto solamente per lei. Provando essa ciò, lo confessa come la Sposa dei Cantici, dicendo: Dilectus meus mihi et ego illi (2,16; 6,2).

 

 

 

TERZA STROFA

 

O lampade di fuoco,

nei cui splendori,

le profonde caverne del senso,

che era oscuro e cieco

con straordinarie perfezioni

calore e luce insieme danno all’Amato.

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. Voglia Dio in questa circostanza concedermi il suo favore, poiché è assolutamente necessario per spiegare la profondità di questa strofa. Colui che la leggerà avrà bisogno di molta attenzione, poiché se è privo di esperienza forse la reputerà oscura e prolissa, mentre se la possiede gli sembrerà per sua fortuna chiara e gustosa.

In questa strofa l’anima loda e ringrazia il suo Sposo per le grandi grazie che riceve dall’unione con lui, poiché per mezzo di questa unione le comunica molte. importanti notizie di se stesso, tutte amorose, con le quali illumina e innamora le potenze e il senso dell’anima, il quale prima di questa unione era oscuro e cieco. Ora, illuminate e dotate del calore dell’amore, come effettivamente sono, possono dare luce e amore a colui che le illuminò e innamorò. Il vero amante, infatti, è contento solamente quando offre all’amato tutto ciò che egli è, vale, possiede e riceve e quanto più offre tanto più prova piacere. Quindi l’anima ora gode perché, a causa degli splendori e dell’amore che riceve, può risplendere davanti al suo Amato e amarlo.

Segue il verso:

 

O lampade di fuoco

 

2. In primo luogo bisogna sapere che le lampade hanno due proprietà: illuminare e dare calore.

Per comprendere che lampade siano quelle di cui parla l’anima e come illuminino e ardano in lei dando calore, è necessario sapere che Dio, nel suo unico e semplice essere, è tutte le virtù e le grandezze dei suoi attributi. È onnipotente, saggio, buono, giusto, forte, misericordioso e amoroso, oltre a molti altri infiniti attributi e virtù che noi non conosciamo.

Ed essendo Egli nel suo semplice essere tutte queste cose, quando, unito all’anima, ritiene opportuno dargliene notizia, allora questa comincia a vedere chiaramente in lui tutte queste virtù e grandezze che sono: l’onnipotenza, la sapienza, la bontà e la misericordia, e così via. E dal momento che ognuna di queste cose è il medesimo essere di Dio in un solo supposto, che è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e che ciascuno di questi attributi è Dio stesso, il quale come è stato detto è infinita luce e infinito fuoco divino, ne segue che ciascuno di questi innumerevoli attributi emana luce e calore come Dio, e ciascuno di loro è una lampada che illumina l’anima e le dà calore d’amore.

 

3. E dato che l’anima riceve la notizia di questi attributi in un unico atto di unione, lo stesso Dio rappresenta per lei molte lampade, che insieme distintamente la illuminano e le danno calore, poiché ognuna le comunica una notizia distinta infiammandola d’amore.

E così l’anima ama, infiammata da ognuna e da tutte queste lampade insieme, poiché tutti questi attributi sono un unico essere, come abbiamo detto. E così, tutte queste lampade sono una sola lampada che, a seconda delle sue virtù e attributi, illumina e arde come molte lampade.

Perciò, in un solo atto di conoscenza di queste lampade l’anima ama per mezzo di ciascuna, e al medesimo tempo ama per mezzo di tutte insieme, riportando in quell’atto la qualità dell’amore da ciascuna e per ciascuna, da tutte e per tutte insieme. Infatti la luce che irradia la lampada dell’essere di Dio in quanto onnipotente dà all’anima luce e calore dell’amore di Dio in quanto onnipotente e, quindi, Egli è per lei lampada di onnipotenza che le da luce e notizia di questo attributo. La luce della lampada dell’essere di Dio per quanto riguarda la sapienza dà all’anima luce e calore dell’amore di Dio come sapiente e, perciò, Egli è per lei lampada di sapienza.

E lo splendore che le dà la lampada di Dio in quanto bontà dà all’anima luce e calore dell’amore di Dio in quanto è buono, e per questo Egli diventa per lei lampada di bontà. E allo stesso modo Dio è per lei lampada di giustizia, di forza, di misericordia e di tutti gli altri attributi che in Dio unitamente si rappresentano all’anima.

E la luce che riceve da tutti questi attributi uniti la comunica nel calore d’amore divino con cui essa ama Dio, poiché Dio è tutte queste cose. Perciò in questa comunicazione o manifestazione che Dio fa di sé all’anima, la quale a mio parere è la più grande che può fare in questa vita, Egli è per lei come innumerevoli lampade che le danno notizia e amore di Dio.

 

4. Mosè vide queste lampade sul monte Sinai, dove, passando Dio, si gettò a terra e cominciò a enumerare alcuni attributi divini così dicendo:Imperatore, Signore, Dio, misericordioso, clemente, paziente, che hai molta compassione, verace, misericordioso nei millenni, che cancelli i peccati, le malvagità e i delitti e nessuno è di per sé innocente davanti a Te (Es 34,6-7) Pertanto gli attributi e le virtù che Mosè lì conobbe in Dio sono quelli dell’onnipotenza, del dominio, della divinità, della misericordia, della giustizia, della verità e rettitudine di Dio. Mosè ebbe perciò una altissima conoscenza di Dio; e poiché l’amore che ricevette fu conforme alla conoscenza, ebbe di conseguenza un diletto d’amore e una fruizione sublime.

 

5. Bisogna notare che il diletto che l’anima riceve nel rapimento d’amore, comunicatole dal fuoco della luce di queste lampade, è mirabile e immenso, perché è così intenso come se provenisse da molte lampade, ciascuna delle quali bruciasse d’amore e con il proprio calore alimentasse quello delle altre e con la propria fiamma alimentasse quella delle altre, allo stesso modo in cui l’una comunica luce all’altra, poiché attraverso ognuno di questi attributi se ne conosce un altro. E così tutte quelle lampade insieme sono diventate una sola luce e un solo fuoco, pur essendo ciascuna in sé una luce e un fuoco.

Qui l’anima profondamente assorbita in delicate fiamme, piagata soavemente d’amore da ciascuna di esse e da tutte insieme e soprattutto piagata e viva nell’amore della vita divina, comprende chiaramente che quello è un amore di vita eterna e perciò contiene in sé tutti i beni.Comprendendo tutto ciò, l’anima capisce perfettamente la verità delle parole dello Sposo dei Cantici quando dice che le lampade dell’amore erano lampade di fuoco e di fiamme (Ct 8,6), Figlia del Principe sei bella nei tuoi passi e nei tuoi calzari (Ct 7,1). Chi potrà raccontare la grandiosità e sublimità del tuo diletto e la tua maestà nel meraviglioso splendore e nell’amore delle tue lampade?

 

6. Narra la Sacra Scrittura che anticamente una di queste lampade passò davanti ad Abramo causandogli un grande e tenebroso orrore, poiché essa era simbolo della giustizia rigorosa che egli doveva compiere nei confronti dei cananei (Gen 15,12-17).

O anima fortunata, tutte queste lampade delle notizie di Dio, che amorosamente e amichevolmente ti illuminano, ti causeranno luce e diletto molto maggiori dell’orrore e delle tenebre suscitate in Abramo da quella sola luce! Quanto grande, eccellente e vario sarà il tuo diletto, poiché da tutte e in tutte queste tu ricevi fruizione e amore, comunicandosi Dio alle tue potenze secondo le sue qualità e i suoi attributi!

Infatti quando uno ama e fa del bene a un altro, lo ama e gli fa del bene secondo la propria condizione e le proprie capacità. E così il tuo Sposo, dimorando in te, ti concede grazie degne di sé.

Così, essendo Egli onnipotente, senti che ti fa del bene e ti ama con onnipotenza; essendo Egli sapiente, senti che ti fa del bene e ti ama con sapienza; essendo infinitamente buono, senti che ti ama con bontà; essendo santo, senti che ti ama ed elargisce grazie con santità, essendo giusto, senti che ti ama e ti concede grazie secondo giustizia; essendo misericordioso, pietoso e clemente, senti la sua misericordia, pietà e clemenza; ed essendo forte, sublime e delicato, senti che ti ama in modo forte, sublime e delicato; ed essendo limpido e puro senti che ti ama in modo limpido e puro; poiché è generoso, senti che ti ama con generosità, senza nessun interesse, solo per farti del bene; poiché infine Egli è la virtù della somma umiltà, ti ama con grande bontà e con grande stima, e rendendoti uguale a Lui, mostrandosi a te attraverso i sentieri delle sue notizie benevolmente (Sap 6,17)con il volto pieno di grazia e dicendoti in questa unione, non senza la tua gioia: Io sono tuo e per te, e ho piacere di essere quale sono per potere essere tuo e per darmi a te.

 

7. O anima fortunata chi dirà ciò che senti sapendoti così amata e con tanta stima innalzata?

Il tuo ventre, che è la tua volontà, è come quello della Sposa, simile al mucchio di grano, ricoperto e circondato da gigli (Ct 7,2)poiché insieme a questi granelli di pane di vita che stai gustando ricevi anche il diletto dei gigli delle virtù che ti circondano. Queste, infatti, sono le figlie del reche, secondo David, ti dilettarono, con la mirra, l’ambra e tutte le altre spezie aromatiche (Sal 44,9-10)Poiché le notizie che ti comunica l’Amato delle sue grazie e virtù sono le sue figlie, nelle quali tu sei così assorbita e immersa da essere anche come il pozzo delle acque vive che scorrono impetuosamente dal Monte Libano (Ct 4,15)che è Dio. In ciò tu sei meravigliosamente rallegrata secondo tutta l’armonia della tua anima e anche del tuo corpo, diventata tutta un paradiso irrigato divinamente, perché in te si compia ciò che si dice nel Salmo: L’impeto del fiume rallegra la città di Dio (45,5).

 

8. O mirabile cosa! In questo stato traboccano acque divine dall’anima, come da un’abbondante fonte, essendovi essa ormai immersa. Infatti, anche se è vero che questa comunicazione, della quale stiamo parlando, è luce e fuoco delle lampade di Dio, questo fuoco però, come abbiamo detto, è qui così soave e immenso che è come acque di vita, che dissetano la sete dello spirito con l’impeto desiderato. E così queste lampade di fuoco sono acque vive dello Spirito, come quelle che vennero sopra gli Apostoli (At 2,3)che erano lampade di fuoco e al tempo stesso acque pure e limpide. Così le chiamò il profeta Ezechiele quando profetizzò la venuta dello Spirito Santo dicendo: Infonderò, dice il Signore, su di voi acque limpide e porrò il mio spirito in mezzo a voi (36,25-26). E così, sebbene sia fuoco, al tempo stesso è acqua. Infatti questo fuoco è simboleggiato dal fuoco nascosto da Geremia nella cisterna per il sacrificio, il quale, finché rimase nascosto, era acqua e divenne fuoco quando fu tirato fuori per compiere il sacrificio (2Mac 1,20-22; 2,1).

Allo stesso modo questo spirito di Dio, finché è nascosto nelle vene dell’anima, è come acqua soave e dilettevole che calma la sete dello spirito; mentre quando si esercita nel sacrificio dell’amore divino, è come le fiamme vive del fuoco, che sono le lampade e le fiamme dell’atto d’amore di cui, come abbiamo detto prima, parla lo Sposo dei Cantici (Ct 8,6). E per questo, qui, l’animale chiama fiamme, poiché non solo le gusta in sé come acqua, ma anche le esercita nell’amore di Dio come fiamme.

E poiché l’anima, nella comunicazione dello spirito di queste lampade, è infiammata ed esercitata nell’amore, con atto d’amore, preferisce chiamarle lampade piuttosto che acque dicendo: O lampade di fuoco! Tutto ciò che si può dire in questa strofa è inferiore a ciò che avviene, perché la trasformazione dell’anima in Dio è indicibile. Tutto si dice in questa parola: l’anima è diventata Dio per partecipazione di Dio e dei suoi attributi, che qui sono chiamati lampade di fuoco

 

nei cui splendori

 

9. Perché si capisca quali sono gli splendori delle lampade di cui parla qui l’anima e come questa risplenda in essi, bisogna sapere che questi splendori sono le notizie amorose che le lampade degli attributi di Dio danno di sé all’anima, la quale, unita a essi secondo le sue potenze, risplende come loro, trasformata in splendori amorosi.

Ma l’illuminazione degli splendori in cui l’anima rifulge con amoroso calore non è come quella delle lampade materiali che, con le loro vampe, illuminano le cose vicine, bensì è come quella che illumina le cose che sono interne alle fiamme, perché l’anima è interna a questi splendori. Perciò dice: nei cui splendori, che significa dentro.

E non solo questo, poiché, come abbiamo detto, ormai trasformata, è diventata essa stessa splendore. E così possiamo dire che è come l’aria accesa e trasformata dentro la fiamma, poiché la fiamma non è altro che aria infiammata e i movimenti e gli splendori di quella fiamma non sono unicamente dell’aria né del fuoco di cui è composta, ma dell’aria e del fuoco insieme, e il fuoco li fa fare all’aria che tiene infiammata in sé.

 

10. A queste altezze si comprende come l’anima con le sue potenze è illuminata dentro agli stessi splendori di Dio. E i movimenti di queste fiamme divine, che sono le vibrazioni e le vampate di cui già abbiamo parlato, non sono fatti solamente dall’anima trasformata nelle fiamme dello Spirito Santo, né solamente da lui, ma dall’uno e dall’altra insieme, poiché è lui che muove l’anima, come il fuoco muove l’aria infiammata. E così questi movimenti fatti da Dio e dall’anima insieme non sono solo splendori, bensì anche glorificazioni, poiché questi movimenti e fiammate sono i giochi e le feste gioiose che, come dicemmo nel secondo verso della prima strofa lo Spirito Santo fa nell’anima, durante i quali sembra sempre che voglia darle la vita eterna e concederle la sua gloria perfetta, introducendola davvero in sé. Infatti tutti i beni, i primi e gli ultimi, i maggiori e i minori che Dio fa all’anima, le vengono sempre concessi con lo scopo di condurla alla vita eterna; così come avviene anche per il fuoco, i cui movimenti e fiammate nell’aria infiammata hanno lo scopo di portarla con sé al centro della sua sfera, poiché essi sono i suoi sforzi ostinati per riuscirvi.

Ma, così come, trovandosi l’aria nella propria sfera il fuoco non può riuscire nel suo intento, allo stesso modo, sebbene questi movimenti dello Spirito Santo siano efficacissimi nell’assorbire l’anima in grande gloria, tuttavia non vi riescono sino a quando non giunge il tempo nel quale essa esce dalla sfera dell’aria di questa vita corporea e può così entrare nel centro dello spirito della vita perfetta in Cristo.

 

11. Bisogna però sapere che questi movimenti sono piuttosto movimenti dell’anima che di Dio, perché Egli non si muove.

Perciò questi riflessi di gloria che sono concessi all’anima sono stabili, perfetti e continui, dotati di ferma serenità in Dio, cosi come in seguito saranno anche nell’anima senza alcuna alterazione del più e del meno, né interpolazione di altri movimenti.

Allora l’anima vedrà chiaramente come, sebbene le sembrasse nella vita terrena che Dio si muovesse in lei, in effetti Egli non si muova, così come il fuoco non si muove nella sua sfera, e come, non essendo essa ancora nella perfetta gloria, avesse quei movimenti e quelle fiammate nel sentimento della gloria.

 

12. Da quanto è stato detto e da ciò che diremo, si comprenderà in modo più chiaro quale sia l’eccellenza degli splendori di queste lampade di fuoco, e come questi splendori sono chiamati con altro nome adombramenti.

Per intendere ciò è necessario sapere che adombrare vuol dire fare ombra e fare ombra significa proteggere, favorire e concedere grazie. Poiché essere coperti dall’ombra di qualcuno significa che questa persona ci è vicina per favorirci e proteggerci. E perciò la grazia che fece Dio a Maria di concepire il Figlio di Dio fu chiamata dall’angelo Gabriele adombramento dello Spirito Santo, con queste parole: Lo Spirito Santo discenderà su di te e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà (Lc 1,35).

 

13. Per capire bene come sia questa ombra di Dio o questi adombramenti o splendori, il che è la medesima cosa essendo tutt’uno, bisogna sapere che ogni oggetto getta ombra e la produce secondo la sua natura e le sue proprietà. Se è opaco e scuro, produce un’ombra scura, se è trasparente e sottile, produce un’ombra chiara e sottile; cosicché l’ombra delle tenebre sarà un’altra tenebra a essa proporzionata, e l’ombra della luce sarà un’altra luce a essa conforme.

 

14. Poiché queste virtù e attributi di Dio sono lampade accese e risplendenti, stando così vicine all’anima, come abbiamo detto, non potranno evitare di toccarla con le loro ombre, le quali a loro volta saranno accese e risplendenti come le lampade da cui sono prodotte; e così queste ombre saranno splendori. In modo tale che l’ombra che fa all’anima la lampada della bellezza di Dio, sarà un’altra bellezza conforme alle proprietà di quella bellezza divina; e l’ombra prodotta dalla fortezza sarà un’altra fortezza conforme a quella di Dio, e l’ombra prodotta dalla sapienza divina sarà un’altra sapienza proporzionata a quella di Dio, e così si dica di tutte le altre lampade. Anzi, per meglio dire, saranno la stessa sapienza, la stessa bellezza e la stessa fortezza di Dio in ombra; e sebbene l’anima qui non le può comprendere perfettamente, dato che tale ombra è cosi simile alla forma e alle proprietà di Dio che è lo stesso Dio in ombra, tuttavia l’anima conosce molto bene l’eccellenza di Lui.

 

15. Quali saranno dunque le ombre che lo Spirito Santo proietterà nell’anima delle grandezza delle sue virtù e dei suoi attributi, essendo Egli così vicino a Lei, che non solo viene toccata dalle ombre, ma è unita con loro nelle ombre e negli splendori, comprendendo e gustando in ciascuna di esse Dio, secondo le proprietà e la natura di Lui? Infatti, l’anima intende e gusta la potenza divina nell’ombra dell’onnipotenza; intende e gusta la sapienza divina nell’ombra della sapienza divina; intende e gusta la bontà infinita nell’ombra della bontà infinita; e infine gusta la gloria di Dio nell’ombra della gloria che permette di conoscere le proprietà e la natura della gloria divina. Tutto ciò avviene nell’ombra chiara di quelle lampade risplendenti e accese, le quali sono una sola lampada di un unico e semplice essere di Dio che attualmente risplende in tutti questi modi.

 

16. Che cosa sentirà qui l’anima sperimentando la notizia e la comunicazione di quella visione, che ebbe Ezechiele, di un animale a quattro facce e di una ruota a quattro ruote, vedendo come il loro aspetto è quello di carboni accesi e di lampade, e vedendo la ruota, che è la sapienza di Dio, piena di occhi interni e esterni, che sono le notizie di Dio e gli splendori delle sue virtù, e sentendo nel suo spirito il suono che faceva al suo passaggio, che era come il suono di una moltitudine o di un esercito, in cui sono simboleggiate le grandezze di Dio, che l’anima ora conosce una a una nell’unico suono del passo che Dio compie per lei; gustando quel suono del battito delle sue ali, il quale, dice il profeta, era come il suono di molte acque e come suono di Dio altissimo, parole che si riferiscono all’impeto delle acque divine, di cui abbiamo già parlato, le quali, mentre lo Spirito Santo aleggia sulla fiamma dell’amore dilettando l’anima, la investono, godendo in questa circostanza della gloria di Dio, nella sua immagine e ombra, come anche il profeta dice, che la visione di quell’animale e di quella ruota era un’immagine della gloria del Signore!(Ez 1,5-28).

Chi potrà dire quanto si senta elevata quest’anima fortunata, quanto si veda glorificata e meravigliosa nella sua santa bellezza? Vedendosi essa investita in modo tale e con tanta abbondanza dalle acque di questi divini splendori, comprende che il Padre Eterno le ha concessogenerosamente il terreno irrigato superiore e inferiore, come fece il padre con Asca quando ella lo chiese sospirando (Gs 15,18-19). Infatti queste acque, irrigando, penetrano nell’anima e nel corpo, che sono la parte superiore e inferiore.

 

17. O meravigliosa eccellenza di Dio! Infatti, queste lampade degli attributi divini si vedono e si assaporano in modo distinto, nonostante si gustino in un unico essere e siano accese allo stesso modo e ognuna sia sostanzialmente l’altra! O abisso di diletti! Tanto più abbondante quanto più le tue ricchezze sono raccolte nell’unità e nella semplicità infinita del tuo unico essere, dove il conoscere e il godere dell’uno non escludono la conoscenza e il godimento perfetto dell’altro; anzi ogni grazia e virtù che è in te è luce di qualsiasi altra tua grandezza. Poiché a causa della tua purezza, o Sapienza divina, si vedono in te molte cose guardandone una, perché tu sei il deposito dei tesori del Padre, lo splendore della luce eterna, specchio senza macchia e immagine della sua bontà (Sap 7,26), nei cui splendori

 

le profonde caverne del senso

 

18. Queste caverne sono le potenze dell’anima, memoria, intelletto e volontà, che sono tanto profonde quanto capaci di beni grandi, poiché non si soddisfano se non con beni infiniti. Da ciò che patiscono quando sono vuote si può capire, in qualche modo, quale sia il loro piacere quando sono piene di Dio, poiché due cose contrarie si chiariscono a vicenda.

Prima di tutto bisogna notare che queste caverne delle potenze, quando non sono vuote, pure e depurate da ogni affetto umano, non sentono il grande vuoto della loro profonda capacità; infatti, ogni piccola cosa che in questa vita si attacchi loro è sufficiente a renderle imbarazzate e alienate, tanto che non sentono il loro danno, né la mancanza dei loro immensi beni, né conoscono la loro capacità.

Vale la pena di notare come, essendo capaci di infiniti beni, sia sufficiente il più piccolo di questi per dar loro imbarazzo, in modo tale che non li possono ricevere finché non saranno svuotate completamente, come diremo in seguito.

Quando però sono vuote e purificate, la sete, la fa e l’ansia del senso spirituale diventano intollerabili. Infatti, poiché gli antri di queste caverne sono profondi, le anime soffrono profondamente, dal momento che il cibo che a loro manca, ossia Dio, è anch’esso profondo.

Di norma l’anima sperimenta questo grande sentimento quando la sua illuminazione e purificazione sono quasi compiute, poco prima di arrivare all’unione, dove quei desideri sono soddisfatti. Poiché l’appetito spirituale è vuoto e libero da ogni creatura e da ogni affezione, perduta la sua tempra naturale e forgiato in modo divino, fatto ormai l’anima il vuoto in sé, ma non avendo ancora avuto la comunicazione del divino nell’unione con Dio, essa avverte la pena di questo vuoto e una sete maggiore della morte, soprattutto quando da alcuni spiragli o riflessi traspare qualche raggio divino senza che tuttavia esso le si comunichi. Queste anime sono coloro che soffrono con amore impaziente e che non possono stare a lungo senza ricevere tale comunicazione, altrimenti muoiono.

 

19. La prima caverna di cui ora ci occupiamo è l’intelletto. Il suo vuoto è sete di Dio, e questa è così grande, quando ormai il vuoto è disposto, che David la paragona a quella del cervo, la quale dicono sia molto veemente, non essendocene un’altra maggiore con cui confrontarla: come il cervo desidera la sorgente delle acque, così la mia anima ti desidera, Dio (Sal 41,1)E questa è la sete delle acque della sapienza di Dio, che è oggetto dell’intelletto.

 

20. La seconda caverna è la volontà, e il vuoto di questa è una fame di Dio così grande che fa venir meno l’anima, come dice ancora David:L’anima mia vien meno e brama i tabernacoli del Signore (Sal 83,3)E questa è la fame della perfezione d’amore a cui l’anima aspira.

 

21. La terza caverna è la memoria, e il vuoto di questa corrisponde allo struggimento e all’inquietudine dell’anima per il desiderio di possedere Dio, come nota Geremia quando dice: Memoria memor ero et tabescet in me anima mea (Lam 3,20), cioè: con memoria me lo ricorderò (id est: molto me ne ricorderò), e la n a anima si struggerà dentro di me; ripensando a queste cose nel mio cuore, vivrò nella speranza di Dio.

 

22. È dunque profonda la capacità di queste caverne poiché ciò che possono contenere, che è Dio, è profondo e infinito. In un certo qual modo la loro capacità sarà infinita, come infinita sarà la loro sere; anche la loro fame sarà profonda e infinita, così come la loro inquietudine e la loro pena saranno morte infinita. E sebbene non si soffra intensamente come nell’altra vita, tuttavia si patisce una viva immagine di quella privazione infinita, essendo l’anima disposta a ricevere la sua pienezza.

Tale sofferenza però è di un altro tipo, poiché avviene nel seno dell’amore della volontà, il che non allevia la pena poiché quanto più grande è l’amore tanto più è impaziente di possedere il suo Dio che sempre aspetta con intenso desiderio.

 

23. Ma, Dio mio, poiché è vero che quando l’anima desidera veramente Dio, possiede già ciò che ama, come dice san Gregorio commentando san Giovanni, come può soffrire per quello che già possiede? Infatti nel desiderio – di cui parla san Pietro – che gli angeli hanno di vedere il Figlio di Dio (1Pt 1,12) non vi è nessuna pena né ansia poiché già lo possiedono. E così, sembra che quanto più l’anima desidera Dio tanto più lo possiede e il possesso di Dio le dà diletto e sazietà, come accade agli angeli che, mentre soddisfano il loro desiderio, nel possesso si dilettano, essendo sempre sazia la loro anima senza alcun fastidio, per cui dal momento che non vi è fastidio, sempre desiderano e, poiché vi è possesso, non soffrono. L’anima, dunque, non dovrebbe provare dolore e pena, ma sentire tanto più diletto e sazietà quanto maggiore è il suo desiderio, poiché quanto più essa desidera tanto più possiede Dio.

 

24. Per quanto riguarda tale questione è bene notare la differenza che esiste tra possedere Dio solo per grazia e possederlo anche per unione. L’una cosa equivale a volersi bene, l’altra a donarsi. La differenza grande come quella che esiste tra il fidanzamento e il matrimonio.

Infatti, nel fidanzamento si ha un solo sì e una sola volontà da entrambe le parti, e gioielli e ornamenti donati dal fidanzato; ma nel matrimonio vi è anche la comunicazione delle persone e l’unione di queste. Nel fidanzamento, anche se alcune volte il fidanzato visita la fidanzata e le porta dei regali, come abbiamo detto, non vi è l’unione tra le persone, poiché questo è il fine del fidanzamento. Ugualmente avviene quando l’anima è arrivata a tanta purezza in sé e nelle sue potenze, che la sua volontà è purificata da tutti i gusti e gli appetiti estranei a Dio, sia secondo la parte inferiore che superiore, e ha dato il suo totale assenso a Dio; essendo la volontà di Dio e dell’anima ormai una sola grazie a un consenso personale e libero. Così essa è giunta al possesso di Dio per grazia della volontà, ossia per quanto possibile per mezzo di questa facoltà e della grazia. Poiché Dio, nello stesso sì dell’anima, ha dato il vero e totale sì della sua grazia.

 

25. Questo è uno stato elevato del fidanzamento spirituale dell’anima con il Verbo, nel quale lo Sposo le fa grandi grazie e frequenti visite amorose ed essa riceve grandi favori e diletti. Tuttavia questi non hanno niente a che vedere con quelli del matrimonio, essendo concessi con il solo fine di disporre l’anima a tale unione. Infatti, sebbene sia vero che tutto questo avviene nell’anima ormai purificata da ogni affetto di creatura – poiché non si dà il fidanzamento spirituale se non, come abbiamo detto, in queste condizioni –, tuttavia è altrettanto vero che l’anima ha bisogno di altre disposizioni positive da parte di Dio, delle sue visite e doni, grazie ai quali diventa più pura, più bella e più delicata, per essere convenientemente preparata a un’unione così alta.

E per questo è necessario del tempo, per alcune anime di più per altre di meno, perché Dio opera adattandosi all’anima. E questo è simboleggiato dalle fanciulle che furono scelte per il re Assuero: esse, portate via dalla loro terra e dalla casa dei loro genitori, prima di essere introdotte nel letto del re rimasero chiuse un anno nel palazzo reale, in modo che nella prima metà dell’anno si preparassero con unguenti di mirra e di altre spezie, e nella seconda con altri unguenti ancora più preziosi. Solo dopo tutto ciò potevano accedere al letto del re (Est 2,2-4.8-14).

 

26. Al tempo di questo fidanzamento e delle unzioni dello Spirito Santo nell’attesa del matrimonio, quando sono più preziosi gli unguenti che preparano all’unione con Dio, le ansie delle caverne dell’anima sono solite essere fortissime e delicatissime. Infatti, poiché tali unguenti dispongono l’anima all’unione con Dio, giacché sono molto affini a lui, e perciò allettano l’anima in modo soave con il sapore e la dolcezza divina, il desiderio dell’anima è più delicato e profondo, essendo il desiderio di Dio la predisposizione a unirsi con Lui.

 

27. Che momento opportuno è questo, anche se esula da ciò di cui stiamo parlando, per avvisare le anime, a cui Dio dona queste unzioni delicate, perché guardino quello che fanno e in che mani si mettono, affinché non tornino indietro! Ma è tanto il dolore e la pena che provo nel mio cuore quando vedo le anime tornare indietro, non solo perché non si lasciano ungere in modo da progredire nell’unzione, ma anche perché perdono gli effetti di questa, che non posso fare a meno di avvertirle riguardo a ciò che debbono fare per evitare un danno così grave. Quindi indugeremo un poco prima di tornare all’argomento principale, al quale tuttavia torneremo, sebbene tutto ciò sia utile anche per una maggiore comprensione delle proprietà di questa caverna. Voglio parlare inoltre, poiché è necessario, non solo a quelle anime che avanzano sicure, ma anche a tutte le altre che cercano il loro Amato.

 

28. In primo luogo bisogna sapere che se l’anima cerca Dio, ancor di più il suo Amato cerca lei. E se essa gli rivolge i suoi desideri amorosi, che per lui sono tanto profumati quanto le fragranze che emanano le spezie aromatiche della mirra e dell’incenso (Ct 3,6), egli le invia il profumo dei suoi unguenti, con il quale l’attrae e la fa correre verso di lui (Ct 1,2-3), che sono le ispirazioni e i tocchi divini. E questi, ogni volta che provengono da Dio, vanno scelti e ordinati guardando alla perfezione della legge divina e della fede, poiché è grazie a questa che l’anima deve avvicinarsi sempre di più a Dio. E così, l’anima deve capire che il desiderio di Dio, che egli le concede con le sue grazie, con le sue unzioni e con i profumi dei suoi unguenti, serve a prepararla ad altri unguenti più sublimi e delicati, più simili alla natura divina, finché essa non diventa così delicata e pura da meritare l’unione con Dio e la trasformazione sostanziale in tutte le sue potenze.

 

29. L’anima deve sapere che in questa opera Dio è l’agente principale e la guida che la deve condurre per mano dove lei non saprebbe andare, cioè ai beni soprannaturali, poiché né il suo intelletto né la sua volontà né la sua memoria sono in grado di conoscerli. Così tutta la sua attenzione deve essere riposta nel non ostacolare colui che la guida nel cammino voluto da Dio, ordinato alla perfezione della legge divina e della fede, come abbiamo detto.

Ora, l’anima pone tali impedimenti se si lascia condurre e guidare da un altro cieco. E i ciechi che la potrebbero sviare dal cammino sono tre, ossia: il maestro spirituale, il demonio ed essa stessa. E perché l’anima capisca come ciò avvenga, parleremo un poco di ognuno.

 

30. Per quanto riguarda il primo, conviene all’anima che vuole progredire nel raccoglimento e nella perfezione guardare in quali mani si affida, poiché il discepolo sarà uguale al maestro, così come il figlio al padre. Bisogna sapere che, per quanto riguarda questo cammino, per lo meno per la parte più elevata, e anche per quella di mezzo, non sarà facile trovare una guida adatta e che possieda tutte le caratteristiche di cui c’è bisogno, perché oltre a essere saggia e discreta, è necessario che sia esperta. Poiché per guidare lo spirito, sebbene sono fondamentali la scienza e il discernimento, se non vi è esperienza di ciò che è puro e vero spirito, non sarà possibile condurvi l’anima quando Dio lo concederà, e neppure si potrà capirlo.

 

31. In questo modo molti maestri spirituali danneggiano gravemente numerose anime poiché, non conoscendo le vie e le proprietà dello spirito, fanno perdere alle anime l’unzione di quei delicati unguenti con i quali lo Spirito Santo le unge e le prepara a sé, insegnando loro quei modi vili che hanno usato o letto da qualche parte e che servono solo ai principianti. Poiché, non sapendo se non ciò che serve a questi, non vogliono lasciare che le anime vadano oltre quei principi e quei modi discorsivi e immaginativi, sebbene Dio vorrebbe condurle oltre questi modi, affinché non superino né escano fuori dalle capacità naturali, cosicché l’anima può progredire ben poco.

 

32. Perché comprendiamo più chiaramente in cosa consista questa condizione di principianti, bisogna sapere che lo stato e la pratica di costoro è meditare e fare atti ed esercizi discorsivi con l’immaginazione. In questa condizione è necessario dare all’anima materia per meditare e ragionare, ed essa per proprio conto deve fare atti interiori approfittando del sapore sensibile nei beni spirituali, affinché, nutrendo l’appetito con il sapore delle cose spirituali, si allontani da quello delle cose sensibili e abbandoni definitivamente le cose mondane.

Ma quando l’appetito è già in parte nutrito e abituato alle cose dello Spirito, con forza e costanza, comincia Dio a svezzare l’anima e a porla in stato di contemplazione; questo passaggio suole avvenire molto velocemente in alcune persone, soprattutto in quelle che hanno abbracciato la vita religiosa, perché, negate le cose mondane, più rapidamente dispongono il senso e l’appetito a Dio e ne trasferiscono l’esercizio allo spirito, operando Dio in loro. Ciò avviene quando cessano gli atti discorsivi e riflessivi dell’anima, così come i gusti e i fervori sensibili del passato. L’anima infatti non può più discorrere come prima, né trovare alcun appoggio nel senso, trovandosi questo in uno stato di aridità ed essendo mutata la sua capacità di ricevere lo spirito, il quale non può cadere sotto il senso.

E poiché, per natura, tutte le operazioni che può da sé compiere l’anima avvengono attraverso i sensi, ne consegue che in questo stato Dio è l’agente e l’anima la paziente; infatti essa si comporta solamente come colei che riceve e in cui viene fatto qualcosa, e Dio come colui che dà e che agisce in lei, comunicandole i beni spirituali nella contemplazione, la quale è notizia e amore divino al tempo stesso, ossia notizia amorosa, senza che lei faccia uso dei suoi atti e ragionamenti naturali, poiché ora non può più occuparsene come prima.

 

33. Ora però l’anima deve essere guidata in modo contrario a quello di prima. Se prima le venivano dati argomenti da meditare, ora invece devono esserle sottratti e impedita la meditazione, poiché anche se vorrà non potrà meditare e, invece di raccogliersi in se stessa, si distrarrà. E se prima cercava, trovandoli, sapore e fervore, ora invece non li deve volere né cercare, poiché non solo non li troverà nonostante l’impegno, ma ne ricaverà solo aridità, poiché si distrae dal bene pacifico e quieto che segretamente le stanno dando nello spirito, a causa dell’attività che essa vuole svolgere attraverso i sensi, e così perdendo una cosa non farà l’altra. Infatti, ora, i beni non le vengono comunicati per mezzo del senso come una volta. Per questo motivo, in tale stato non bisogna imporle in nessun modo di meditare né di agire, né di procurarsi gusti o fervori, perché in questo modo si ostacolerebbe l’agente principale che, come dico, è Dio, il quale, segretamente e pacificamente, infonde sapienza e notizia amorosa senza atti specifici, anche se a volte fa sì che nell’anima essi si determinino per un breve momento. Allora l’anima deve solo camminare con attenzione amorosa a Dio, senza fare atti particolari, comportandosi, come abbiamo detto, in modo passivo, senza porre alcuna diligenza, con l’attenzione amorosa semplice e pura, come chi apre gli occhi disposto all’amore.

 

34. Poiché Dio comunica con lei con notizia semplice e amorosa, anche l’anima si dispone verso di Lui in modo da ricevere per mezzo di una attenzione o notizia semplice e amorosa, affinché in questo modo si unisca notizia con notizia e amore con amore. Infatti è conveniente che chi riceve si adatti alla cosa ricevuta e non viceversa, per poterla ricevere e ritenere come gli viene data, poiché, come dicono i filosofi, qualsiasi cosa si riceva si riceve al modo del recipiente.

Da ciò si deduce che, se l’anima non abbandonasse il suo modo naturale di agire, riceverebbe quel bene solo in modo naturale, ossia non lo riceverebbe, rimanendo solamente con un atto naturale; poiché il soprannaturale non può essere contenuto in ciò che è naturale né ha niente a che vedere con quello. E così se l’anima volesse agire da sé, comportandosi in modo differente dall’attenzione amorosa passiva di cui ho parlato, cioè senza fare atti naturali, se non quando Dio la unisse a sé con un certo atto, essa ostacolerebbe i beni che in modo soprannaturale Dio le sta comunicando nella notizia amorosa, passivamente e tranquillamente. Ciò avviene all’inizio con un esercizio di purificazione interiore nel quale essa soffre, come abbiamo detto prima, e poi successivamente con soavità d’amore.

E se, come è vero, l’anima riceve tale notizia amorosa passivamente, secondo il modo soprannaturale di Dio e non secondo il modo naturale dell’anima, ne consegue che per riceverla essa deve essere annichilita nelle sue azioni naturali, svuotata, oziosa, quieta, pacifica e serena, come vuole Dio. Così come l’aria, la quale più è libera dai vapori, limpida e serena, più il sole la illumina e riscalda.

Perciò l’anima non deve attaccarsi a nulla, né all’esercizio della meditazione, né a gusto sia sensibile sia spirituale; né a qualsiasi altra apprensione, poiché si richiede per questo stato che lo spirito sia libero e annichilito riguardo a qualsiasi cosa. Infatti qualsiasi pensiero, discorso o gusto a cui essa volesse appoggiarsi costituirebbe per lei un impedimento, una rovina, un rumore nel profondo silenzio che ci deve essere nell’anima secondo il senso e lo spirito, silenzio indispensabile per un così profondo e delicato ascolto. Infatti, come dice Osea, in questa solitudine Dio parla al cuore (2,14)in somma pace e tranquillità, ascoltando e sentendo l’anima ciò che il Signore le dice, poiché in questa solitudine, secondo David, Egli le comunica pace (Sal 84,9).

 

35. Se dovesse quindi accadere all’anima di sentirsi mettere in questo modo in silenzio e in ascolto, essa deve dimenticare, come dissi, anche l’avvertenza amorosa, per potere essere totalmente libera per ciò che allora il Signore vuole da lei. Infatti, l’anima deve servirsi di quella avvertenza amorosa solo quando non sente di essere messa in solitudine, riposo interiore, dimenticanza o ascolto spirituale. Tutto ciò, affinché sia più chiaro quando avvenga, è accompagnato da una condizione di pace o rapimento interiore.

 

36. Perciò, in tutto questo periodo, quando l’anima ha cominciato a entrare in questo stato di contemplazione semplice e tranquillo, che avviene quando non può né riesce a meditare, non deve preoccuparsi di farlo, né deve appoggiarsi a sapori e gusti spirituali, ma piuttosto deve rimanere senza alcun sostegno, lo spirito completamente distaccato da tutto, come fece Abacuc per ascoltare quello che Dio gli diceva: Starò in piedi sul posto di guardia e fermerò il passo sul forte e contemplerò ciò che mi dirà (2,1)E così è come se dicesse: innalzerò l’anima sopra tutte le azioni e notizie che possono cadere sotto i miei sensi e su quanto essi possono ritenere in sé e custodire, lasciando tutto ciò più in basso; fermerò il passo delle mie potenze, impedendo ogni loro operazione, affinché possa ricevere attraverso la contemplazione ciò che mi sarà comunicato da parte di Dio, poiché, come abbiamo detto, la contemplazione pura consiste nel ricevere.

 

37. È possibile infatti ricevere l’altissima sapienza e parola di Dio, quale è la contemplazione, solo con uno spirito silenzioso e distaccato da gusti e notizie discorsive. Lo afferma Isaia con queste parole: A chi insegnerà la scienza e a chi farà udire le sue parole? A coloro che sono svezzati dal latte, cioè dai gusti e dai sapori, e a coloro che si sono staccati dal petto (28,9), ossia dalle notizie e apprensioni particolari.

 

38. O anima spirituale, togli i bruscoli, i peluzzi e la nebbia e pulisci l’occhio, il sole brillerà luminoso davanti a te e vedrai chiaramente. O maestro spirituale, poni l’anima nella pace, traendola fuori e liberandola dal giogo e dalla servitù delle deboli operazioni delle sue capacità, che è la sua schiavitù d’Egitto, dove tutto si riduce a mettere insieme la paglia per cuocere la creta (Es 1,14; 5,7-19), e guidala alla terra promessa dove scorrono latte e miele (Es 3,8.17; 13,5; 33,3; Lv 20,24; Dt 6,3; 26,9; Sir 46,10); e considera che per questa libertà dei figli di Dio e per questo riposo santo Dio la chiama nel deserto, dove si vestirà a festa e si adornerà con gioielli d’oro e d’argento (Es 32,2-3; 33,5), avendo già spogliato l’Egitto, lasciandolo privo delle sue ricchezze (Es 12,33-36), cioè la parte sensitiva. E non solo questo, ma ha anche affogato i gitani nel mare (Es 14,27-30) della contemplazione, dove il gitano del senso, non trovando spazio per posare il piede né sostegno, affoga e lascia libero il figlio di Dio, il quale è lo spirito uscito ormai fuori dai limiti angusti della sensibilità e libero dalla schiavitù dell’amore dei sensi. Infatti il suo modo limitato di intendere, il suo rozzo modo di sentire, il suo povero modo di amare e gustare è troppo poco perché Dio gli dia la soave manna (Es 16,14), il cui sapore – al quale tu vorresti condurre faticosamente l’anima –, sebbene abbia in sé tutti i sapori e gusti (Sap 16,20-21), essendo così delicata che si disfa in bocca, non si potrà assaporare se si cercherà di sentire insieme il gusto di qualche altra cosa.

Quando l’anima si avvicina a questo stato, cerca di distoglierla da tutti i desideri di piacere, sapore, gusto e meditazione spirituale, e non inquietarla con la cura e la sollecitudine di cose superiori e tanto meno di cose inferiori, rendendola il più possibile distaccata e solitaria; infatti quanto prima raggiungerà questa oziosa tranquillità, con tanta più abbondanza si infonderà in lei lo spirito della divina sapienza, che è amoroso, tranquillo, solitario, pacifico, soave, inebriante, nel quale essa si sente rapita e piagata teneramente e dolcemente, senza sapere da chi né da dove né come. Ciò accade perché la comunicazione è avvenuta senza l’aiuto delle sue facoltà.

 

39. Una piccola parte di ciò che Dio opera nell’anima in questo santo ozio e solitudine è un bene inestimabile molto più grande di quello che l’anima, e colui che si occupa di lei, possano pensare. E sebbene ciò ora non si comprenda pienamente, risplenderà a suo tempo. Quello che ora l’anima può percepire è un senso di distacco e di straniamento, alcune volte maggiore, altre minore, verso tutte le cose, con un’inclinazione alla solitudine e al tedio per tutte le creature e per il mondo. Tutto ciò però avviene nel respiro soave di amore e di vita nello spirito. Cosicché, tutto quello che non fa parte di questa solitudine diventa per lei insipido, poiché, come dicono, una volta gustato lo spirito, la carne risulta insipida.

 

40. Ma i beni che questa silenziosa comunicazione e contemplazione lascia impressi nell’anima senza che essa allora li senta sono, come dico, inestimabili, perché sono unzioni segretissime, e perciò delicatissime, dello Spirito Santo, che segretamente riempiono l’anima di ricchezze, doni e grazie spirituali, giacché, essendo Dio che li fa, Egli opera come Dio.

 

41. Queste unzioni e sfumature tanto delicate e sublimi dello Spirito Santo che, per la loro soavità e per la loro sottile purezza non possono essere intese dall’anima né da colui che la guida, bensì solo da colui che le infonde per compiacersi maggiormente in lei, è sufficiente che l’anima voglia fare da sé anche il minimo atto con la memoria, l’intelletto, la volontà, o usare il senso o l’appetito o una qualche notizia, o ricercare qualche piacere o gusto, perché vengano disturbate e impedite. E ciò è un grave danno, dolore e perdita grande per l’anima.

 

42. Questa circostanza è grave e degna di nota, poiché, non sembrando importante ciò che si frappose in quelle sante unzioni, il danno è maggiore e più doloroso che se si danneggiassero e perdessero molte anime comuni che non si trovano in una condizione di tanto sublime splendore e sfumatura! Se un volto dipinto con cura e in modo delicato fosse ritoccato da una mano rozza e con colori volgari e grossolani, il danno sarebbe maggiore e più rilevante e più grave il peccato, che se quella mano avesse rovinato molti altri volti dipinti di minore valore. Chi riuscirà a imitare quella mano tanto delicata, che era quella dello Spirito Santo, la cui opera fu rovinata da quella rozza mano?

 

43. Pur essendo un danno più grave di quello che si possa descrivere, è così comune e frequente che molto difficilmente si troverà un maestro spirituale che non lo faccia con quelle anime che Dio comincia ad accogliere nello stato di contemplazione. Infatti, quante volte mentre Dio sta ungendo delicatamente l’anima contemplativa con notizia amorosa, serena, pacifica, solitaria, estranea ai sensi e a ciò che si può pensare, cosicché essa non può né meditare, né pensare a nulla, né provare piacere in alcuna cosa del cielo e della terra, poiché Dio la tiene occupata in quell’unzione solitaria, inclinandola all’ozio e alla solitudine, verrà un maestro spirituale che saprà solo dare martellate e colpire le potenze come un fabbro, e dal momento che non sa insegnare che quello e non sa fare altro che meditare, dirà: su, lasciate questi riposi che non sono altro che ozi e perdite di tempo, meditate invece facendo atti interiori, poiché è necessario che voi da parte vostra facciate ciò che dipende da voi, mentre queste altre cose sono illusioni e sciocchezze.

 

44. E così, non intendendo né i gradi dell’orazione né le vie dello spirito, costoro non riescono a capire se non quegli atti che vogliono imporre all’anima, desiderando che questa cammini con il ragionamento, il che è già accaduto visto che quell’anima è arrivata alla negazione e al silenzio del senso e del discorso; ed è giunta alla via dello spirito, cioè alla contemplazione, in cui cessa l’azione del senso e del discorso proprio dell’anima, e Dio è il solo agente e colui che parla segretamente all’anima solitaria e muta. E così essendo entrata quest’anima nelle vie dello spirito come abbiamo detto, se la vogliono ancora fare camminare per le vie del senso, tornerà indietro e si distrarrà; infatti chi è arrivato al traguardo, se si rimette a camminare per raggiungerlo, oltre a essere ridicolo, necessariamente se ne allontana.

E così, essendo arrivato per mezzo delle potenze al raccoglimento quieto cui aspira ogni spirituale, in cui cessa l’opera delle stesse potenze, non solo sarebbe cosa inutile tornare ad agire con quelle stesse potenze per arrivare al raccoglimento, ma sarebbe per lei anche dannoso, in quanto si distrarrebbe e perderebbe il raccoglimento che già possiede.

 

45. Questi maestri spirituali, non comprendendo, come ho già detto, che cosa sia il raccoglimento e la solitudine spirituale dell’anima, né le sue proprietà, solitudine nella quale Dio infonde nell’anima queste sublimi unzioni, sovrappongono e frappongono altri unguenti di più basso esercizio spirituale, facendo operare l’anima come abbiamo detto. Tra ciò e quello che l’anima aveva vi è tanta differenza quanta ce n’è tra l’operare umano e quello divino, tra il naturale e il soprannaturale; poiché nell’un caso Dio opera nell’anima in modo soprannaturale, nell’altro è l’anima a operare solo naturalmente.

E la cosa peggiore è che, per esercitare la sua operazione naturale, perde la solitudine e il raccoglimento interiore e, conseguentemente, l’opera sublime che Dio sta dipingendo in lei; e così tutto si riduce a dar colpi al ferro, facendo danno da una parte e senza guadagnare dall’altra.

 

46. Queste persone che guidano le anime ricordino e considerino che il principale agente e guida di queste, in tale assunto, non sono loro, bensì lo Spirito Santo, che non tralascia mai di prendersene cura; e che loro sono solo strumenti per indirizzarle alla perfezione per mezzo della fede e legge di Dio, secondo lo spirito che Dio concede a ciascuna di loro. E così tutta la loro preoccupazione non sia nel rendere le anime conformi al loro modo e alla loro condizione, ma nel sapere dove Dio le vuole condurre, e se non lo sanno le lascino andare senza perturbarle. E conformemente al cammino e allo spirito attraverso i quali Dio le conduce, cerchino d’indirizzarle verso una maggiore solitudine, libertà, tranquillità e profondità dello spirito, affinché non attacchino il senso spirituale e corporeo a nessuna cosa particolare interiore ed esteriore quando Dio le conduce attraverso questa solitudine. E non si preoccupino e non sollecitino l’anima pensando che ozi, poiché, anche se l’anima non agisce, Dio opera in lei.

Loro si preoccupino di sgravare l’anima e di collocarla in solitudine e in riposo, in modo che non si attacchi a nessuna notizia particolare del cielo e della terra, né a nessun desiderio di qualche gusto né a qualsiasi altra apprensione, in modo che resti vuota nella negazione, pura di tutte le creature, in povertà spirituale; questo è ciò che deve fare l’anima da parte sua, come consiglia il Figlio di Dio quando dice: Colui che non rinuncia a tutte le cose che possiede, non può essere mio discepolo (Lc 14,33)Con ciò si intende non solo la rinuncia a tutte le cose temporali secondo la volontà, ma anche la disappropriazione di quelle spirituali, delle quali fa parte la stessa povertà spirituale, in cui il Figlio di Dio ripone la beatitudine (Mt 5,3).

In questo modo abbandonando l’anima tutte le cose, giungendo a essere libera e sciolta nei loro confronti, che è, come abbiamo detto, ciò che può fare per proprio conto, è impossibile che Dio non faccia ciò che dipende da Lui, comunicandosi a lei almeno segretamente.

È impossibile così come è inevitabile che un raggio di sole non riesca a entrare in un luogo sereno e sgombro. Infatti, come il sole che sorge colpisce la tua casa per entrare se gli apri la finestra, così Dio, che per custodire Israele che non dorme, neppure Egli dorme (Sal 120,4), entrerà nell’anima vuota e la riempirà dei beni divini.

 

47. Dio sta come il sole sulle anime per donarsi a loro. Perciò coloro che le guidano si accontentino di disporle a questo secondo la perfezione evangelica, che è la nudità e il vuoto del senso e dello spirito, e non vogliano passare oltre a edificare, ufficio che è proprio del Padre delle luci, da cui discende ogni dono buono e perfetto (Gc 1,17). Perché come dice David: Se il Signore non edifica la casa, invano lavora chi la edifica (Sal 126,1).

E colui che è l’artefice soprannaturale edificherà soprannaturalmente in ogni anima l’edificio che vorrà, se tu la disporrai, cercando di annichilire le sue operazioni e affetti naturali, con i quali non ha capacità né forza per costruire l’edificio soprannaturale, anzi in questa circostanza più che aiutarla la disturbano. Tuo compito è quindi disporre l’anima, mentre quello di Dio è, come dice il Saggio, dirigerne i passi (Pr 16,9) verso i beni soprannaturali per vie e modi che né tu né l’anima potete intendere.

Perciò non dire che l’anima non procede oltre poiché non fa nulla; perché se è vero che non fa nulla, io ti dimostrerò che, proprio perché non fa nulla, fa molto. Infatti se l’intelletto si va allontanando da conoscenze particolari, naturali e spirituali, avanza, e quanto più si allontana da esse e dagli atti della conoscenza, tanto più l’intelletto si avvicina al sommo bene soprannaturale.

 

48. Dirai che l’anima non intende distintamente nessuna cosa e così non può progredire. Ma io ti rispondo che, se intendesse distintamente, non potrebbe andare avanti, poiché Dio, a cui va l’intelletto, trascende l’intelletto e, dunque, è incomprensibile e inaccessibile all’intelletto, cosicché, quando l’intelletto intende, non si avvicina a Dio, anzi si allontana da Lui. Perciò bisogna allontanare l’intelletto da se stesso e dal suo atto, per giungere a Dio, camminando in fede, credendo senza intendere. E, in questo modo, l’intelletto arriva alla perfezione, perché attraverso la fede e non in altri modi si unisce a Dio; e l’anima si avvicina di più a Dio senza intendere piuttosto che intendendo. Quindi non ti preoccupare giacché se l’intelletto non torna indietro -e ciò avverrebbe se volesse applicarsi a notizie distinte, a ragionamenti e pensieri, mentre invece vuole rimanere tranquillo –, va avanti, poiché si svuota di tutto ciò che può contenere. Infatti nulla di tutto questo era Dio, perché Dio, come abbiamo detto, non può essere compreso dall’intelletto.

E in questo stato di perfezione il non tornare indietro significa andare avanti, e il procedere dell’intelletto consiste nel consolidarsi nella fede, ossia nel mettersi all’oscuro, perché la fede è tenebra per l’intelletto. Di conseguenza, poiché l’intelletto non può sapere com’è Dio, necessariamente deve procedere del tutto sottomesso, senza intendere; e così, per il suo bene, gli conviene ciò che tu condanni, cioè che non si applichi in intelligenze distinte, poiché per mezzo di queste non può arrivare a Dio, anzi esse sono di ostacolo nel cammino verso di Lui.

 

49. E dirai che, se l’intelletto non intende con chiarezza, la volontà rimarrà oziosa e non amerà, cosa da evitare sempre nel cammino dello spirito. La ragione di ciò risiede nel fatto che la volontà non può amare se non ciò che l’intelletto conosce.

Questo è vero soprattutto nelle operazioni e negli atti naturali dell’anima, nei quali la volontà non ama se non ciò che l’intelletto intende in modo chiaro; però nella contemplazione di cui parliamo, durante la quale Dio infonde qualcosa di sé nell’anima, non è necessario che vi sia nessuna notizia chiara e distinta, né che l’anima compia alcun atto con l’intelletto, poiché Dio in un solo atto le sta comunicando insieme luce e calore, ossia la notizia soprannaturale amorosa, che possiamo dire sia come luce calda che riscalda, perché al tempo stesso innamora. Essa è confusa e oscura per l’intelletto, poiché è notizia di contemplazione, ossia, come dice Dionigi, raggio di tenebra per l’intelletto.

Quindi quale è l’intelligenza nell’intelletto, tale è l’amore nella volontà e perciò come per l’intelletto questa notizia che Dio le infonde è generale, oscura e indistinta, così anche la volontà amerà in generale, senza distinzione alcuna nei confronti di qualche cosa appresa in modo particolare. Essendo Dio luce divina e amore, nella comunicazione che fa di sé all’anima informa nello stesso modo queste due potenze, intelletto e volontà, con intelligenza e amore; e siccome Egli non è intelligibile in questa vita, l’intelligenza è oscura così come l’amore nella volontà.

Talvolta, in questa delicata comunicazione, ferisce e si comunica di più a una delle due potenze, cosicché può accadere di percepire più notizia che amore o più amore che intelligenza, mentre a volte solo notizia senza amore o solo amore senza intelligenza.

Pertanto dico che, quando l’anima compie atti naturali con l’intelletto, non può amare senza intendere; ma per quanto riguarda ciò che Dio fa e infonde nell’anima, come accade per quella di cui stiamo parlando, è diverso. Infatti Dio si può comunicare a una potenza senza bisogno dell’altra e come una persona può essere scaldata dal fuoco senza vederlo, Egli può infiammare la volontà con il tocco del calore del suo amore, senza che l’intelletto comprenda.

 

50. In questo modo molte volte l’anima sentirà la volontà infiammata o intenerita o innamorata senza sapere né conoscere qualcosa di diverso da prima, ordinando Dio l’amore in lei, come afferma la Sposa dei Cantici: Il Re mi fece entrare nella cella del vino e ordinò in mela carità (Ct 2,4).

Perciò, in questo caso, non bisogna temere l’ozio della volontà; infatti, se essa cessa di compiere atti d’amore nei confronti di notizie particolari, Dio li compie in lei, inebriandola segretamente con amore infuso, o per mezzo della notizia di contemplazione o senza di essa, come abbiamo appena detto. Tali atti sono tanto più gustosi e meritori di quelli che potrebbe compiere l’anima, quanto maggiore è colui che muove e infonde questo amore, ossia Dio.

 

51. Dio infonde questo amore nella volontà, quando essa è vuota e distaccata da ogni altro gusto e affetto particolare, terreno o divino; per questo motivo si curi che la volontà sia vuota e distaccata dai suoi affetti, altrimenti, volendo gustare qualche sapore, torna indietro; mentre se non lo sente particolarmente in Dio, va avanti, innalzandosi sino a Lui al di sopra di tutte le cose, non provando piacere in nessuna di esse.

E anche se l’anima non gusta Dio in modo particolare e distinto, né lo ama con un atto determinato, gusta Dio nella infusione indistinta, oscuramente e segretamente più di qualsiasi altra cosa distinta; infatti ora vede chiaramente che nulla le dà tanto piacere come quella quiete solitaria e ama Dio al di sopra di tutte le cose degne di amore, poiché i gusti e i sapori di quelle ormai li rifiuta sentendoli insipidi.

E così non bisogna preoccuparsi; giacché se la volontà non può ristorarsi con gusti e sapori di atti particolari, va avanti; infatti, non tornare indietro, abbracciando qualcosa di sensibile, significa andare avanti verso l’inaccessibile, che è Dio; per cui non c’è da meravigliarsi che non se ne accorga.

E così, la volontà, per andare verso Dio, deve distaccarsi dalle cose dilettevoli e gustose piuttosto che appoggiarvisi. E adempie perfettamente il precetto dell’amore, che consiste nell’amare al di sopra di tutte le cose; il che non può accadere senza spogliarsi e senza fare il vuoto nei confronti di ognuna di esse.

 

52. Non vi è da temere neppure che la memoria rimanga vuota delle sue forme e figure, poiché, dal momento che Dio non ha né forma né figura, essa prosegue sicura allorché se ne libera, avvicinandosi così di più a Dio. Infatti, quanto più si appoggia all’immaginazione, tanto più si allontana da Dio e va incontro a pericoli, poiché Dio, essendo inimmaginabile, non cade sotto l’immaginazione.

 

53. Questi maestri spirituali non comprendono le anime che avanzano in questa contemplazione quieta e solitaria, per non essere arrivati a essa, e per non sapere che cosa significhi abbandonare il ragionamento della meditazione, come ho detto, pensano che queste anime stiano in ozio, cosicché le disturbano impedendo la pace della contemplazione tranquilla e quieta che Dio gratuitamente concede loro, e le spingono nel cammino della meditazione, a discorrere con l’immaginazione, obbligandole a compiere atti interiori. Nel fare ciò esse provano ripugnanza, aridità e distrazione, volendo rimanere nel loro ozio santo e nel raccoglimento quieto e pacifico. E poiché qui il senso non trova nulla cui attaccarsi, né cosa da gustare o da fare, essi le persuadono a ricercare gusti e fervori, mentre dovrebbero consigliarle di fare il contrario. Non potendo esse fare ciò, né dedicarvisi come prima, poiché è passato quel momento e quello non è più il loro cammino, si turbano molto ritenendo di essere perdute, e ancor di più questi maestri le aiutano a crederlo inaridendo il loro spirito e privandole delle unzioni preziose che nella solitudine e tranquillità Dio infonde loro; e ciò, come dissi, è un grave danno poiché getta queste anime nel dolore e nel fango, cosicché da una parte non progrediscono e dall’altra soffrono inutilmente.

 

54. Costoro non sanno che cosa sia lo spirito: offendono Dio e gli mancano di rispetto mettendo la loro rozza mano dove Egli opera. E costato infatti molto sforzo a Dio condurre le anime fino a quel punto ed Egli considera molto importante averle portate fino alla solitudine e al vuoto delle loro potenze e operazioni per potere parlare al loro cuore, che è ciò che Egli sempre desidera. Essendo ormai Dio che prende per mano l’anima, Lui che regna in essa con abbondanza di pace e tranquillità, facendo venir meno gli atti naturali delle sue potenze, con i quali, lavorando tutta la notte, essa non faceva nulla (Lc 5,5), nutrendole lo spirito senza l’operazione del senso, poiché né i sensi né la loro azione sono capaci dello spirito.

 

55. E quanto Dio apprezzi questa tranquillità, questo sonno o annichilimento dei sensi, si può capire chiaramente in quella supplica così notevole ed efficace che fece lo Sposo dei Cantici, dicendo: Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per i caprioli e i cervi dei campi, non svegliate, né tenete sveglia la mia amata finché ella non vorrà (2,7; 3,5). Da ciò si capisce quanto Dio ami il sonno e l’oblio solitario, dal momento che ricorre a questi animali tanto solitari che amano vivere appartati. Questi maestri spirituali, però, non vogliono che l’anima riposi né stia quieta, bensì vogliono che lavori sempre e agisca, così da impedire che Dio possa operare, e facendola agire distruggono e cancellano ciò che Lui fa, come le volpi che rovinano la vigna fiorita dell’anima (Ct 2,15). Per tale motivo si lamenta di loro il Signore dicendo per bocca di Isaia: Voi avete devastato la mia vigna (3,14).

 

56. Costoro sbagliano per zelo, perché il loro sapere non arriva oltre. Non per questo però sono scusati per i consigli che danno in modo temerario, senza comprendere prima il cammino dell’anima e lo spirito che conduce, e pur non comprendendo mettono la loro rozza mano in cose che non capiscono, non lasciandole a chi le capisce. Ed è cosa importante e grave colpa far perdere a un’anima beni inestimabili e a volte lasciarla lacerata a causa di consigli temerari.

E così colui che sbaglia per essere temerario dovrebbe sapere, come deve ognuno nel suo officio, che sarà punito in proporzione al danno compiuto. Perché le cose di Dio devono essere trattate con molta attenzione e a occhi aperti, soprattutto in un caso così importante e in una questione così sublime come è quella di queste anime, dove c’è la possibilità di avere un guadagno infinito se si trova la via giusta e una perdita altrettanto infinita se si sbaglia.

 

57. Se vuoi obiettare con qualche altra scusa, benché io non la veda, puoi farlo, ma non mi potrai dire che l’abbia colui il quale, occupandosi di un’anima, non la lascia mai uscire dal suo potere a causa di motivi vani, che solo lui conosce e che non resteranno senza castigo. È certo che, dovendo essa proseguire nel cammino spirituale, in cui Dio sempre l’aiuta, deve cambiare modo di pregare e, dunque, ha bisogno di una dottrina più elevata di quella posseduta da questo maestro, e di un altro spirito.

Poiché non tutti sono preparati per tutti i casi e per tutte le mete esistenti nel cammino spirituale, né hanno uno spirito così perfetto da sapere come l’anima deve essere guidata e retta in qualsiasi stato della vita spirituale, nessuno deve credere di possedere tutti i requisiti, né che Dio non voglia condurre più avanti un’anima.

Infatti chi sa sbozzare il legno non sempre sa intagliare una immagine, né chi sa intagliarla sa sempre ritoccarla e rifinirla, così come chi la sa rifinire non sempre la sa dipingere, né chi la sa dipingere saprà necessariamente dare l’ultimo ritocco e terminarla. E poiché ognuno di questi non può nell’immagine fare più di ciò che sa, se vuole fare di più la rovinerà.

 

58. E se tu sei solo uno che sa sbozzare, il cui compito è quello di condurre l’anima al disprezzo del mondo e alla mortificazione dei suoi appetiti, o al massimo un intagliatore, che sa insegnarle solo la santa meditazione, poiché non sai di più, come dunque arriverà quell’anima all’ultima perfezione della delicata pittura, che non consiste né nello sbozzare né nell’intagliare e neppure nel rifinire, bensì nell’opera che Dio deve compiere in lei?

È certo che se la fai rimanere legata alla tua dottrina, che è sempre la stessa, o tornerà indietro o per lo meno non farà alcun progresso. Infatti, cosa ne sarà dell’immagine se continuerai a darle martellate e a sbozzarla, il che corrisponde nell’anima all’esercizio delle potenze? Quando sarà finita? Quando e come la dipingerà Dio? È possibile che tu possa compiere tutti questi offici e che ti ritenga tanto perfetto da pensare che essa non abbia bisogno di nessun altro che di te?

 

59. E ammesso che tu possa fare ciò con qualche anima, non potendo forse questa andare oltre, è impossibile che tu abbia doti sufficienti per tutte quelle cui impedisci di staccarsi da te. Infatti, poiché Dio conduce ciascuna anima per un diverso cammino, difficilmente si troverà uno spirito che corrisponda, anche solo a metà, con il modo di procedere di un altro. Chi, dunque, come san Paolo, saprà essere tutto per, tutti per guadagnare tutti (1Cor 9,22)? Così tu tiranneggi le anime, togli loro la libertà e reputi te solo arante della profondità della dottrina evangelica, in godo che non solo fai sì che non ti lascino, ma, ciò che è peggio, se per caso vieni a sapere che qualcuna è andata a trattare un argomento con qualcun altro – che non sarebbe stato conveniente trattare con te o condottavi da Dio, affinché le insegnasse ciò che tu non le insegni – ti comporti con lei, e lo dico con vergogna, con le dimostrazioni di gelosia che sono proprie di coloro che sono sposati, le quali non sono certamente a vantaggio dell’onore di Dio o di quell’anima – non è giusto infatti che tu creda che mancando essa contro di te abbia mancato verso Dio –, bensì sono gelosie dovute alla tua superbia e presunzione o a qualche altra tua imperfezione.

 

60. Dio si sdegna contro queste persone e promette castighi dicendo per mezzo di Ezechiele: Bevevate il latte del mio gregge, vi coprivate con la sua lana e non lo pascevate; io toglierò il mio gregge dalle vostre mani (34,3.10).

 

61. I maestri spirituali devono, dunque, lasciare libere le anime, anzi sono obbligati a mostrare loro buon viso quando esse volessero cercare qualcosa di meglio. Poiché non sanno per quali sentieri Dio vorrà condurre tali anime, soprattutto quando non provano più gusto per la loro dottrina, il che è segno che non ne hanno più vantaggio, o perché Dio le conduce oltre o per un altro cammino rispetto a quello del maestro, o perché quest’ultimo ha cambiato metodo. E questi maestri glielo devono consigliare, mentre qualsiasi altro comportamento nasce da superbia, presunzione o da qualche altra pretesa.

 

62. Ma lasciamo da parte ciò, per parlare di un altro più dannoso modo di comportarsi e di altri peggiori usati da costoro. Accadrà che Dio procederà all’unzione di alcune anime con unguenti di desideri santi e aspirazioni di lasciare il mondo, di cambiare il loro modo di vivere e di servire Dio, disprezzando le cose del secolo e per Dio è molto importante averle portate fino a questo punto, perché le cose del mondo non dipendono dalla Sua volontà, questi maestri invece con ragioni umane e motivi profondamente contrari alla dottrina di Cristo, alla sua umiltà e disprezzo di tutte le cose, guardando al proprio interesse e gusto, o temendo dove non c’è da temere, renderanno invece difficile ciò o lo faranno ritardare o, quel che è peggio, si impegneranno per toglierlo dal cuore. Infatti avendo costoro uno spirito poco devoto, poco distaccato dal mondo, e poco tenero verso Gesù, non entrano per la porta stretta della vita (Mt 7,13-14; Lc 13,24], impedendo anche agli altri di entrarvi. Il nostro Salvatore minaccia costoro dicendo attraverso san Luca: Guai a voi, che prendete le chiavi della scienza, e non entrate, né lasciate entrare gli altri! (11,52).

Questi in verità si mettono davanti alla porta del cielo, impedendo l’entrata a coloro che chiedono consiglio, pur sapendo che Dio ha dato ordine non solo che li lascino entrare e che li aiutino, bensì che li costringano a entrare, dicendo attraverso san Luca: Insisti, falli entrare perché la mia casa si riempia di invitati (14,23). Mentre loro, al contrario, non glielo permettono.

In tal modo il maestro è un cieco che può disturbare la vita dell’anima, che è lo Spirito Santo. Ciò accade nei maestri spirituali in diversi modi, alcuni sapendolo, altri non sapendolo; ma gli uni e gli altri non rimarranno senza castigo poiché, essendo il loro officio, è loro dovere sapere e guardare bene ciò che fanno.

 

63. Il secondo cieco che, come abbiamo detto può disturbare l’anima in questo tipo di raccoglimento è il demonio; costui, dal momento che è cieco, vuole che anche l’anima lo sia. Durante queste sublimi solitudini nelle quali lo Spirito Santo infonde le sue unzioni – il demonio prova dolore e invidia, perché vede non solo che l’anima si arricchisce, ma anche che se ne vola via e non la può sorprendere in nessuna cosa, in quanto è solitaria, nuda e aliena a qualsiasi creatura e vestigio di essa –, egli cerca in questi momenti di straniamento dell’anima di frapporre cateratte di notizie e nebbie di gusti sensibili, a volte buone, per nutrirla con esse e farla ritornare al tratto distinto e all’opera del senso, in modo tale che l’anima rivolga la sua attenzione a quei gusti e notizie buone che egli le rappresenta cosicché li abbracci per andare a Dio appoggiandosi a essi.

In questo modo la distrae e la distoglie facilmente da quella solitudine e raccoglimento nel quale, come abbiamo detto, lo Spirito Santo sta operando segretamente. E siccome l’anima è inclinata naturalmente a sentire e a gustare soprattutto se lo pretende e non intende il cammino che sta percorrendo, è molto facile che si attacchi a quelle notizie e gusti che le presenta il demonio, perdendo quella solitudine nella quale l’aveva messa Dio. E poiché l’anima in quella solitudine e quiete delle sue potenze crede di non fare nulla, reputa ciò migliore in quanto fa qualcosa.

È un grande peccato per l’anima non comprendere che, per saziarsi mangiando un boccone di notizia o di gusto, si priva di essere divorata completamente da Dio, poiché così fa Dio in quella solitudine nella quale mette l’anima, assorbendola in sé per mezzo di quelle solitarie unzioni spirituali.

 

64. Così, con poco più di nulla, il demonio causa gravissimi danni, facendo perdere all’anima grandi ricchezze, togliendola, con una piccola esca, dal golfo delle semplici acque dello spirito, dove era immersa e annegata in Dio senza sostegno né appoggio. In questo modo la porta a riva e le offre appoggio per mettere il piede, affinché possa camminare in terra con fatica, e non nuoti nelle acque di Siloe che scorrono in silenzio (Is 8,6), bagnata dalle unzioni di Dio.

E il demonio fa tanto conto di ciò, che bisogna notare come un piccolo danno di questo tipo è maggiore di molti altri fatti a numerose anime, perché, come abbiamo detto, poche sono quelle anime, che vanno per questo sentiero, alle quali egli non procuri gravi danni e non faccia subire gravi perdite.

Infatti, il maligno aspetta in agguato con grande attenzione sul passaggio dal senso allo spirito, ingannando e nutrendo l’anima con lo stesso senso, interponendo, come abbiamo detto, cose sensibili. L’anima, non pensando che in ciò vi possa essere pericolo, tralascia di entrare dallo Sposo, mettendosi alla porta per vedere ciò che passa all’esterno, nella parte sensitiva.

Dice Giobbe: Il demonio vede tutto ciò che è sublime (41,25), cioè l’altezza spirituale dell’anima per combatterla. Perciò, se per caso qualche anima entra in profondo raccoglimento, se non può distrarla nel modo in cui abbiamo detto, per lo meno con orrori, timori, o dolori corporali, così come con suoni o rumori esterni, fa tutto ciò che è in suo potere perché essa percepisca i sensi, per tirarla fuori e allontanarla dallo spirito interiore, finché non potendo fare altro, la lascia.

Ma è tanta la facilità con cui dissipa le ricchezze di queste anime che, anche se lo considera più importante rovinare molte altre, non lo tiene in grande considerazione, perché lo fa facilmente e gli costa poco.

Perciò, a questo proposito possiamo capire ciò che di lui disse Dio a Giobbe: Assorbirà un fiume e non si meraviglierà e confida che il Giordano cadrà nella sua bocca, il che significa il culmine della perfezione. Nei suoi stessi occhi lo caccerà come con un amo e gli perforerà le narici con lesina (40,19); cioè con la punta delle notizie con le quali sta ferendo l’anima allontanerà lo spirito da lei, come l’aria aspirata che esce dalle narici, se queste sono forate, si disperde da tutte le parti. E più avanti aggiunge: Sotto di lui staranno i raggi di sole e spargerà sotto di sé oro come fango (Gb 41,21)poiché fa perdere alle anime illuminate meravigliosi raggi di notizie divine e impoverisce quelle ricche disperdendo l’oro prezioso delle sfumature divine.

 

65. O anime, quando Dio vi concede così sublimi grazie, che vi porta alla solitudine e al raccoglimento, allontanandovi dal vostro faticoso modo di sentire, non tornate indietro ai sensi; abbandonate le vostre operazioni, che, se prima vi erano d’aiuto per negare il mondo e voi stesse quando eravate principianti, ora che Dio vi fa la grazia di essere lui l’agente, vi saranno di grande ostacolo e imbarazzo. Poiché, se vi occupate di non porre le vostre potenze in alcuna cosa, distaccandole da tutto e non imbarazzandole, essendo l’unica cosa che da parte vostra dovete fare in questo nato, insieme all’attenzione amorosa e semplice di cui ho parlato prima, e nella maniera in cui ho detto, ossia quando non vi dà disgusto averla, poiché no dovete sforzare l’anima se non per distaccarla da tutto e liberarla, per non turbarne e alterarne la pace e tranquillità, Dio, se non frapponete ostacoli, nutrirà le vostre potenze con cibo celestiale.

 

66. Il terzo cieco è l’anima stessa: siccome non capisce se stessa, come abbiamo detto, si turba da sola e si danneggia. Infatti, poiché non sa agire se non con sensi e il ragionamento, quando Dio la vuole porre in quel vuoto e in quella solitudine dove non si possono usare le potenze né compiere atti, vedendosi in ozio, cerca di agire e così si distrae. Quindi l’anima, che già gustava l’ozio della pace e il silenzio spirituale nel quale Dio la stava segretamente adornando, si inaridisce e si amareggia.

E succederà che Dio insisterà affinché rimanga in quella silenziosa solitudine, ed essa da parte sua si ostinerà a volere agire da sé con l’immaginazione e l’intelletto, come il bambino che, volendo essere preso in braccio dalla madre, grida e pesta i piedi in terra, e in questo modo né cammina né lascia camminare la madre; o come un pittore che stesse dipingendo un’immagine e un altro gliela muovesse, cosicché o non si farebbe nulla o si rovinerebbe il dipinto.

 

67. Bisogna ricordare all’anima giunta a questa quiete che, anche se non avverte di camminare, né fa niente, in realtà procede molto di più che se andasse coni suoi piedi, perché è Dio che la porta in braccio, e così, anche se cammina al passo di Dio, non se ne accorge. E, sebbene essa non operi con le potenze della sua anima, fa molto di più che se lo facesse, perché è Dio che agisce in lei.

E che essa non lo possa vedere non stupisce, perché ciò che Dio fa nell’anima in questo stato non può essere percepito dal senso, giacché è in silenzio. Infatti come dice il Saggio, le parole della sapienza si sentono nel silenzio (Qo 9,17).

Si abbandoni quindi nelle mani di Dio e non si fidi di se stessa né degli altri due ciechi: se fa così e non applica le potenze in cosa alcuna, andrà sicura.

 

68. Ma torniamo ora all’argomento delle profonde caverne delle potenze, riguardo alle quali dicevamo che la sofferenza dell’anima può essere tanto più grande quanto più Dio la unge e la dispone per unirla a sé con i sublimi unguenti dello Spirito Santo. I quali sono così raffinati e costituiscono un’unzione così delicata che, penetrando l’intima sostanza del fondo dell’anima, la dispongono e la preparano in maniera tale per cui la sofferenza e il venir meno del desiderio, assieme al grande vuoto di queste caverne, è immenso. E se gli unguenti che disponevano queste caverne dell’anima per l’unione del matrimonio spirituale con Dio sono così sublimi come abbiamo detto, quale pensiamo che sarà il possesso di intelligenza, di amore e di gloria che hanno in questa unione con Dio l’intelletto, la volontà e la memoria? È certo che la loro soddisfazione, la loro sazietà e il loro diletto saranno ora in proporzione alla sete e alla fame che sperimentarono queste caverne, così come, proporzionata alla delicatezza della disposizione, sarà la perfezione del possesso di Dio da parte dell’anima e la fruizione del suo senso.

 

69. Per senso dell’anima qui si intende la virtù e la forza che ha la sostanza dell’anima per sentire e godere gli oggetti delle potenze spirituali attraverso le quali essa gusta la sapienza, l’amore e la comunicazione di Dio. E perciò l’anima chiama profonde caverne del senso queste tre potenze, memoria, intelletto e volontà, perché attraverso di esse e in esse l’anima sente profondamente la grandezza della sapienza e delle eccellenze di Dio. Così molto propriamente le chiama profonde caverne; infatti dal momento in cui sente che in essa sono contenute le profonde intelligenze e splendori delle lampade di fuoco, capisce che ha tante capacità e profondità quante sono le cognizioni, i sapori, i diletti, i piaceri che riceve da Dio. Tutte queste cose sono ricevute e accolte nel senso dell’anima che, come dico, è la virtù e capacità che ha l’anima di sentire, possedere e gustare ogni cosa, per mezzo delle caverne delle potenze, così come al senso comune della fantasia accorrono i sensi corporali con le forme dei loro oggetti, poiché questo è il ricettacolo e l’archivio di quelle. Perciò questo senso comune dell’anima, fatto ricettacolo e archivio delle grandezze di Dio, è tanto illuminato e ricco quanto maggiore è quel possesso sublime e splendente che ottiene.

 

Che era oscuro e cieco.

 

70. Questo prima che Dio illuminasse l’anima, come è stato detto. Per la comprensione di ciò bisogna sapere che l’occhio può non vedere per due motivi: o perché è al buio o perché è cieco.

Dio è luce e oggetto dell’anima. Quando questa luce non la illumina, essa si trova al buio nonostante abbia una vista eccellente. Quando è in peccato o applica l’appetito in altre cose, allora è cieca. E sebbene la investa la luce di Dio, dal momento che è cieca, non la vede.

L’oscurità dell’anima è l’ignoranza dell’anima, la vale, prima che Dio la illuminasse per mezzo di questa trasformazione, era al buio e ignorante di tutti i beni di Dio, condizione nella quale, come dice il Savio si trovava egli stesso, prima che la sapienza lo illuminasse: Illuminò la mia ignoranza (Sir 51,25-26).

 

71. Parlando dello spirito, una cosa è essere al buio, un’altra cosa è trovarsi nelle tenebre. Essere nelle tenebre significa essere cieco, come ho detto, nel peccato; però si può stare al buio senza peccato. E questo in due modi: per quanto riguarda l’ordine naturale, non avendo luce di alcuna cosa naturale; per quello soprannaturale, invece, non avendo luce delle cose soprannaturali. E riguardo a queste due cose, l’anima dice che era all’oscuro di entrambe prima di questa preziosa unzione.

Perché fino al momento in cui Dio disse: Fiat lux (Gen 1,3), le tenebre erano sopra il volto dell’abisso (1,2) della caverna del senso dell’anima, il quale contiene, quanto più è abissale e quanto più profonde sono le sue caverne, tanto più abissali e profonde tenebre riguardo al soprannaturale, quando Dio, che è la sua luce, non lo illumina. E così è impossibile all’anima alzare gli occhi verso la luce divina e pensare a essa, poiché non avendola mai vista non sa come sia. E per questo non la potrà desiderare, anzi desidererà le tenebre, poiché le conosce, e passerà da una tenebra a un’altra, guidata dalla tenebra stessa. Infatti una tenebra non può che condurre a un’altra tenebra, perché, come dice David: Il giorno trabocca nel giorno e la notte insegna scienza alla notte (Sal 18,3)E così un abisso chiama un altro abisso (Sal 11,8), cioè un abisso di luce chiama un abisso di luce, come un abisso di tenebre uno di tenebre, poiché ogni simile chiama il suo simile e gli si comunica.

E così, la luce della grazia che Dio aveva dato prima a quest’anima, con cui le aveva illuminato l’occhio dell’abisso del suo spirito aprendolo alla luce divina, e avendola resa con ciò a sé gradita, chiamò un altro abisso di grazia, che è questa trasformazione divina dell’anima in Dio, per mezzo della quale l’occhio del senso rimane tanto illuminato e gradito a Dio, che possiamo dire chela luce di Dio e quella dell’anima sono una sola. Infatti, unita la luce naturale dell’anima con quella soprannaturale di Dio, risplende ormai solo quella soprannaturale, allo stesso modo in cui la luce che Dio creò si unì a quella del sole, risplendendo così quella del sole senza venir a mancare l’altra (Gen 1,14-18).

 

72. Ed era cieco, perché trovava gusto in altre cose. La cecità del senso razionale e superiore è, infatti, l’appetito che, come cataratta e nube, si frappone e si mette davanti all’occhio della ragione perché non veda le cose che le stanno innanzi. E così, quando essa metteva davanti al senso qualche gusto, questo gli impediva di vedere le grandi ricchezze e bellezze divine che stavano dietro alla cataratta. Infatti, come succede quando si mette davanti agli occhi una cosa, sia pure piccola, questa è sufficiente a impedire che se ne possano vedere altre, anche grandi; così un piccolo appetito e un atto ozioso dell’anima sono sufficienti perché essa non veda tutte queste grandezze divine nascoste dai gusti e appetiti che l’anima ricerca.

 

73. Chi potrebbe mai dire quanto sia impossibile per l’anima che ha appetiti giudicare le cose di Dio come veramente sono! Perché per riuscire a giudicare le cose di Dio, bisogna totalmente escludere l’appetito e il gusto, e non bisogna giudicarle per mezzo di questo, poiché altrimenti inevitabilmente si considereranno e cose divine come non divine, e quelle che non sono di Dio per Dio stesso. Infatti, essendo questa cataratta e nube davanti all’occhio del giudizio, l’anima non vede che la cataratta, una volta di un colore, una volta di un altro, a seconda di come le si presenta, e pensa che la cataratta è Dio, perché, come dico, non vede nient’altro che la cataratta che è sul senso, dal quale Dio non può essere abbracciato. In questo modo l’appetito e i gusti sensibili impediscono la conoscenza delle cose più sublimi, come spiega perfettamente il Savio con le parole: L’inganno della vanità oscura i beni, e l’incostanza della concupiscenza sconvolge il senso senza malizia (Sap 4,12)cioè il retto giudizio.

 

74. Perciò coloro che non sono così spirituali da essere purgati dagli appetiti e dai gusti, e che hanno ancora qualcosa dell’animale in loro, credono che le cose che sono più basse e vili per lo spirito, che sono quelle che più facilmente arrivano al senso, secondo il quale ancora loro vivono, siano cose grandi; mentre quelle che sono più preziose e più sublimi per lo spirito, ossia quelle che più si distanziano dal senso, le terranno in poca considerazione e non le stimeranno, e ancor di più a volte le considereranno folli, come fa ben capire san Paolo con le parole: L’uomo animale non percepisce le cose di Dio; sono per lui follia e non le può capire (1Cor 2,14)Per uomo animale qui si intende colui che vive tuttavia con appetiti e gusti naturali, poiché, sebbene alcuni gusti nascano nel senso dallo spirito, se l’uomo si attacca a quelli con l’appetito naturale, essi non sono altro che appetiti naturali. Poco importa che l’oggetto o il motivo sia soprannaturale, perché l’appetito smetta di essere naturale, poiché se nasce e ha la sua radice e forza nella natura, ha la stessa sostanza e natura che avrebbe se avesse origine e motivo naturale.

 

75. Mi dirai: dunque, quando l’anima desidera Dio, non lo fa in modo soprannaturale, e quindi quell’appetito non sarà meritorio davanti a Lui. Rispondo: è vero che quando l’anima desidera Dio non sempre quell’appetito è soprannaturale, ma soltanto quando lo infonde Dio, dando Lui la forza di quell’appetito, e questo è molto diverso dall’appetito naturale, cosicché fino a quando Dio non lo infonde, molto poco o niente si ottiene. E così, quando tu, da te, vuoi avere appetito di Dio, non sarà nient’altro che appetito naturale, e tale rimarrà finché Dio non lo vorrà informare in modo soprannaturale. Perciò, quando da te stesso vuoi applicare l’appetito ai beni spirituali, attaccandoti al loro sapore ed esercitando il tuo appetito naturale, allora ti metti delle cataratte davanti agli occhi e sei animale. E così non potrai intendere, né giudicare ciò che è spirituale, poiché lo spirito trascende il senso e l’appetito naturale.

E se hai degli altri dubbi, non so cosa dirti, se non di rileggere; forse lo capirai, poiché la sostanza della verità è stata detta e, quindi, non è il caso che io mi dilunghi di più.

 

76. Questo senso dell’anima, che prima stava all’oscuro senza questa luce divina di Dio ed era cieco per i suoi appetiti e le sue affezioni, ora non soltanto è illuminato e chiaro con le sue profonde caverne per mezzo di questa divina unione con Dio, ma è diventato insieme alle caverne delle potenze una risplendente luce.

 

Con straordinarie perfezioni

calore e luce insieme danno all’amato!

 

77. Queste caverne delle potenze così mirifiche e, come abbiamo già detto, meravigliosamente immerse nei mirabili splendori di quelle lampadeche in lei stanno ardendo, oltre che consegnare se stesse a Dio, stanno inviando a Lui, in Lui, quegli stessi splendori che hanno ricevuto con amorosa gloria. Infatti, diventate anch’esse lampade accese negli splendori delle lampade divine, inclinate a Dio in Dio, offrono all’Amato la stessa luce e calore d’amore che ricevono. Poiché, qui, lo offrono a colui che glielo ha dato nello stesso modo e con la stessa perfezione con cui l’ hanno ricevuto, come fa il vetro che, quando è investito dal sole, emana anch’esso splendori; sebbene in questo caso ciò avviene in modo più sublime, poiché interviene l’esercizio della volontà:

 

con straordinarie perfezioni

 

78. Cioè, straordinarie e aliene da ogni comune modo di pensare, da ogni lode, da ogni modo e maniera. Infatti, conforme alla perfezione con la quale l’intelletto riceve la sapienza divina, essendo diventato l’intelletto una sola cosa con quello di Dio, è la perfezione con cui l’anima la restituisce, poiché non la può dare se non nel modo in cui la riceve.

E conforme alla perfezione con la quale la volontà è unita alla bontà è la perfezione con cui rende a Dio in Dio la stessa bontà, poiché la riceve solo per darla. Ugualmente, conforme alla perfezione con la quale conosce nella grandezza divina, essendo unita a quella, dà luce e calore d’amore.

E conformi alle perfezioni degli attributi divini che lì l’anima comunica, di fortezza, bellezza, giustizia e così via, sono le perfezioni con le quali il senso, godendo, sta dando al suo Amato quella stessa luce e calore che sta ricevendo dall’Amato stesso; perché, essendo l’anima diventata una stessa cosa con Dio, giacché, come abbiamo già detto in un certo senso è essa stessa Dio per partecipazione, sebbene non tanto perfettamente come nell’altra vita, è quasi un’ombra di Dio.

A questo punto, diventata grazie a questa sostanziale trasformazione un’ombra di Dio, essa fa in Dio per mezzo di Dio, nello stesso modo di Lui, ciò che Dio fa in lei da se stesso, poiché la volontà dei due è una sola e quindi uno è anche l’operare di Dio e dell’anima.

Di conseguenza, allo stesso modo in cui Dio si offre a lei con volontà libera e gratuita, così anch’essa, avendo la volontà tanto più libera e generosa quanto più è unità a Lui, offre a Dio lo stesso Dio in Dio. E ciò è un perfetto e vero dono dell’anima a Dio.

Perché lì l’anima veramente vede che Dio è suo e che lo possiede a titolo ereditario, con diritto di proprietà come figlio adottivo di Dio, per la grazia che Dio le fece di offrirsi a lei, e che, come cosa sua, lo può dare e comunicare a chi vuole. E così lo dà al suo Amato, che è lo stesso Dio, che si offrì a lei, e in questo modo essa paga a Dio tutto ciò che gli deve, poiché volontariamente gli dà quanto da Lui riceve.

 

79. E poiché in questo regalo che fa l’anima a Dio, essa gli offre liberamente lo Spirito Santo come suo dono, affinché in Lui ami se stesso come merita, ha l’anima un diletto e una fruizione inestimabili, vedendo che offre a Dio una cosa propria che corrisponde al suo infinito essere.

E sebbene sia vero che l’anima non può dare Dio a Dio, poiché Egli è in sé sempre identico, tuttavia l’anima lo fa perfettamente e veramente, offrendo tutto ciò che Egli le aveva dato per ottenere il suo amore, che è dare tanto quanto ha ricevuto. E Dio, che con meno non si pagherebbe, si paga con quel dono dell’anima e lo riceve in modo gradito, come qualcosa che l’anima gli offre di suo, e in questo stesso dono Egli ama di nuovo l’anima, e in questo ridonarsi di Dio all’anima, questa lo ama nuovamente.

E così tra Dio e l’anima esiste ora un amore reciproco, in conformità all’unione matrimoniale, in cui i beni di entrambi, che sono la divina essenza, possedendoli ognuno liberamente per la donazione volontaria dell’uno all’altra, li possiedono insieme entrambi, dicendo l’uno all’altra ciò che il Figlio di Dio disse al Padre secondo le parole di san Giovanni: Omnia mea tua sunt, et tua mea sunt, et clarificatus sum in eis (17,10). Ossia: Tutti i miei beni sono tuoi, e i tuoi sono miei e in essi sono glorificato. Nell’altra vita ciò avviene nella fruizione perfetta senza alcuna interruzione; invece in questo stato di unione avviene quando Dio esercita nell’anima questo atto di trasformazione, anche se non con la perfezione con cui avviene nell’altra vita.

Ed è chiaro che l’anima può fare quel dono, anche se è di entità maggiore rispetto alle sue capacità e al suo stesso essere, così come chi possiede come propri molti popoli e molti regni, che sono di entità superiore a lui, li può donare a chi vuole.

 

80. Questa è la grande soddisfazione e gioia dell’anima: vedere di potere donare a Dio più di ciò che è in sé e vale. Nell’altra vita questo avviene per mezzo del lume di gloria, mentre in questa per mezzo della fede illuminata. In questo modo,

le profonde caverne del senso

con straordinarie perfezioni

calore e luce insieme danno all’Amato!

Dice insieme perché è congiunta nell’anima la comunicazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che sono luce e fuoco di amore in lei.

 

81. Dobbiamo notare qui brevemente le perfezioni con le quali l’anima fa questo dono. Bisogna avvertire che, godendo l’anima di una immagine di fruizione causata dall’unione con Dio dell’intelletto e dell’affetto, dilettata e obbligata da questa grande grazia, consegna se stessa e lo stesso Dio a Dio in modi meravigliosi; infatti riguardo all’amore l’anima si comporta con Dio con straordinarie perfezioni, e così avviene, né più né meno, nei confronti di questo preludio di fruizione, della lode e della gratitudine.

 

82. Riguardo all’amore, l’anima ha tre fondamentali perfezioni. La prima è che qui l’anima ama Dio non per sé, ma per Lui stesso. Ciò è di una perfezione ammirevole, giacché ama attraverso lo Spirito Santo, come si amano il Padre e il Figlio, così come lo stesso Figlio afferma attraverso le parole di san Giovanni: L’amore con cui mi amasti sia in loro, e io in loro (17,26).

La seconda perfezione consiste nell’amare Dio in Dio, perché in questa veemente unione l’anima è assorbita nell’amore di Dio, e Dio con grande slancio si dona all’anima.

La terza fondamentale perfezione dell’amore consiste nell’amare Dio per ciò che Egli è. Infatti non lo ama solo perché è per lei magnanimo, buono e glorioso, bensì con maggiore forza lo ama perché è in sé essenzialmente tutte queste cose.

 

83. E riguardo a questa immagine di fruizione, l’anima possiede altre tre fondamentali e straordinarie perfezioni. La prima è che qui essa gode Dio per mezzo di Dio stesso; infatti siccome qui l’anima unisce l’intelletto all’onnipotenza, alla sapienza, alla bontà, sebbene non in modo così chiaro come nell’altra vita, ha un grande diletto in tutte queste cose intese in maniera distinta, come abbiamo detto prima.

La seconda perfezione principale di questa fruizione consiste nel provare diletto ordinatamente solo in Dio, senza l’interferenza di alcuna creatura.

La terza è quella di goderne unicamente per ciò che è, senza interferenza di alcun gusto proprio.

 

84. Riguardo alla lode che l’anima offre a Dio in questa unione vi sono altre tre perfezioni. La prima è lodarlo per dovere, perché l’anima sa che Dio la creò per lodarlo, come dice Isaia: Ho creato questo popolo per me; canterà le mie lodi (43,21).

La seconda perfezione è lodarlo per il diletto che l’anima prova nella sua stessa lode e per i beni che riceve.

La terza perfezione è lodarlo per ciò che Dio è in se stesso; infatti, anche se l’anima non ricevesse nessun diletto, lo loderebbe per ciò che Egli è in sé.

 

85. Riguardo alla gratitudine essa ha altre tre perfezioni. La prima consiste nel ringraziare per i beni naturali e spirituali e i benefici che ha ricevuto.

 

 

 

QUARTA STROFA

 

Come dolce e amoroso

ti risvegli nel mio seno,

dove segretamente solo tu dimori!

Nel tuo spirar gustoso,

di bene e gloria pieno,

come delicatamente m’innamori!

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. Qui l’anima si rivolge al suo Sposo con molto amore, lodandolo e ringraziandolo per i due effetti meravigliosi che a volte produce in lei grazie a quest’unione, dichiarando anche il modo con cui ciascuno di essi viene attuato e le conseguenze che ne derivano.

 

2. Il primo effetto è il risveglio di Dio nell’anima, e il modo con cui avviene è quello della mitezza e dell’amore.

Il secondo consiste nello spirare di Dio nell’anima, e il modo con cui avviene è quello del bene e della gloria che le viene comunicata in questo spirare. L’anima qui si innamora in modo delicato e soave.

 

3. E così è come se dicesse: o Verbo Sposo, il tuo risveglio, che avviene nel centro e nel fondo della mia anima, che è la sua sostanza più pura e intima, nella quale tu solo segretamente e silenziosamente dimorano solamente come se fossi il suo signore, non solamente come se fosse la tua casa, non solamente come se fosse il tuo stesso letto, bensì come nel mio stesso seno, intimamente e strettamente unito, quando dolcemente e amorosamente avviene! Proprio così, amorosamente e dolcemente; e nel saporoso spirare che in questo tuo risveglio emetti, ricolmo di bene e gloria, con quanta delicatezza mi innamori e mi affezioni a te!

L’anima prende questa similitudine da colui il quale, svegliandosi dal sonno, respira, poiché veramente così essa avverte.

Seguono i versi:

 

Come dolce e amoroso ti risvegli nel mio seno.

 

4. Molti sono i modi con cui Dio si risveglia nell’anima, così tanti che, se dovessimo enumerarli, non finiremmo mai. Però, questo risveglio di cui qui parla l’anima, che è attuato dal Figlio di Dio, è, a mio parere, uno dei più sublimi e fra quelli che offre il maggior bene. Infatti, questo risveglio è un movimento che fa il Verbo nella sostanza dell’anima, ed è di tale bellezza, potenza, gloria e di così profonda soavità, da sembrare all’anima che tutti i balsami, le spezie odorose e i fiori del mondo si scuotano, per effondere la loro fragranza, e che tutti i regni e le signorie del mondo e tutte le potestà e virtù del cielo si muovano. E non solo questo, ma anche che tutte le virtù, sostanze, perfezioni e le grazie di tutte le cose create risplendano e facciano insieme lo stesso movimento.

E poiché, come afferma san Giovanni: Tutte le cose in Lui sono vita (1,3-4), in Lui vivono, sono e si muovono (At 17,28)come dice anche l’Apostolo, accade che, muovendosi questo grande imperatore nell’anima, il cui regno, secondo quanto dice Isaia, porta sulle sue spalle (9,6), ilquale è costituito dalle tre macchine – celeste, terrestre e infernale – e dalle cose che sono in esse, sostenendole tutte, come dice san Paolo,nel Verbo della sua virtù (Eb 1,3)sembra che tutte le cose si muovano insieme, allo stesso modo in cui insieme con la terra si muovono tutte le cose materiali che sono in essa, come se non fossero nulla. Altrettanto accade quando si muove questo principe, che porta con sé la sua corte, invece di esserne portato.

 

5. Eppure il paragone è improprio, perché sembrano non solo muoversi, ma anche scoprire la bellezza del loro essere, la virtù e la grazia e la radice della loro esistenza e vita; poiché qui l’anima capisce come tutte le creature della terra e del cielo hanno la loro vita, durata e forza in Dio, e comprende chiaramente ciò che Egli dice nel libro dei Proverbi: Per mezzo mio regnano i re, per mezzo mio governano i principi, e i potenti esercitano e comprendono la giustizia (8,15-16)E, sebbene sia vero che l’anima comprende che tutte queste cose sono diverse da Dio, in quanto ognuna di loro è un essere creato, vedendole in Lui con la loro forza, radice e vigore, è così profonda la conoscenza di tutte queste cose da parte di Dio, nella sua infinita eminenza, che l’anima le conosce meglio nell’essere divino che in loro stesse.

E ciò è il grande diletto di questo risveglio: conoscere le creature attraverso Dio e non Dio attraverso le creature; la qual cosa significa conoscere gli effetti attraverso la causa e non la causa attraverso gli effetti poiché questa è conoscenza a posteriori, mentre l’altra è essenziale.

 

6. E come avvenga questo movimento nell’anima, dal momento che Dio è immutabile, è una cosa meravigliosa, perché, sebbene Dio realmente non si muova, all’anima sembra che in realtà accada il contrario. Infatti, essendo essa rinnovata e mossa da Dio, affinché abbia questa vista soprannaturale, e rivelandosi a lei in modo del tutto nuovo quella vita divina e l’essere e l’armonia di tutte le creature con il loro movimento in Dio, all’anima sembra che è Dio che si muova e che la causa prenda il nome dell’effetto, e secondo quell’effetto possiamo dire che Dio si muove, poiché, come afferma il Savio, la Sapienza è più mobile di tutte le cose che si muovono (Sap 7,24)E non perché essa si muova, ma perché è il principio e la radice di ogni movimento; e, rimanendo in se stessa immutabile, come si dice in seguito, tutte le cose rinnova (Sap 7,27)E così ciò che lì vuole dire l’anima è che la sapienza è più attiva di tutte le cose attive. Perciò l’anima in questo movimento è risvegliata dal sonno, mossa dalla vista naturale a quella soprannaturale. E così propriamente dà a questo movimento il nome di risveglio.

 

7. Come l’anima vede Dio, così Egli è sempre: donando, reggendo, infondendo l’essere, elargendo virtù, grazie e doni a tutte le creature, avendole tutte in sé virtualmente, presenzialmente e sostanzialmente. L’anima, infatti, in un unico sguardo vede ciò che Dio è in sé e ciò che è nelle sue creature, così come accade quando una persona aprendo la porta di un palazzo vede la grandezza e importanza di colui che vi abita simultaneamente ciò che vi sta facendo. Riguardo a come avviene questo risveglio e questo sguardo dell’anima, penso che, trovandosi l’anima sostanzialmente in Dio, come qualsiasi altra creatura, Dio le toglie alcuni dei numerosi veli e cortine che essa ha davanti a sé e che non le permettono di vedere come Egli è. Allora traspare e si vede, anche se in modo oscuro giacché non vengono tolti tutti i veli, quel suo volto pieno di grazia, il quale, siccome muove Dio tutte le cose con la sua virtù, appare insieme a ciò che Egli sta muovendo, sembrando così che Dio si muova con le cose e quelle con Lui con moto continuo. L’anima crede quindi che Egli si sia mosso e risvegliato, mentre è lei che si è mossa e risvegliata.

 

8. Tale è la bassezza della nostra condizione di vita che, come noi viviamo, pensiamo che anche gli altri vivano, e che, come noi siamo, così giudichiamo gli altri, fondando il nostro giudizio su noi stessi e non sull’esterno. E così il ladro pensa che anche gli altri rubino, il lussurioso che anche gli altri lo siano; e il malizioso, che gli altri siano maliziosi, perché giudica a partire dalla sua condizione. E il buono pensa bene degli altri, perché il suo giudizio viene dalla bontà che ha in sé; mentre chi è negligente e addormentato, crede che anche gli altri lo siano.

E così avviene che, quando noi siamo negligenti e addormentati davanti a Dio, ci sembra che Dio sia negligente e dimentico di noi, come si vede nel salmo dove David dice: Alzati, Signore, perché dormi? Alzati (43,23)attribuendo a Dio ciò che va attribuito agli uomini, poiché sono loro che dormono, mentre Colui che guarda Israele non dorme mai (Sal 120,4).

 

9 . Ma siccome ogni bene dell’uomo viene da Dio (Gc 17), non potendo l’uomo da sé fare nessuna cosa suona, è vero quando si afferma che il nostro risveglio è il risveglio di Dio e il nostro sollevarci è il sollevarsi di Dio. Perciò è come se David dicesse: Alzaci e svegliaci due volte, perché in due modi siamo addormentati e caduti. E poiché l’anima era addormentata in un sonno, dal quale giammai essa si sarebbe potuta svegliare, e da cui solamente Dio poteva aprirle gli occhi e svegliarla, con molta proprietà lo chiama risveglio di Dio dicendo: ti risvegli nel mio seno.

Risvegliaci e illuminaci, Signore mio, affinché conosciamo e amiamo i beni che da sempre ci doni e sapremo che ti sei mosso per concederci grazie e che ti sei ricordato di noi!

 

10. È indicibile ciò che l’anima conosce e sente in questo risveglio di Dio, poiché, essendo comunicazione dell’eccellenza di Dio nella sostanza dell’anima, che è il suo seno, di cui qui si parla, risuona nell’anima, con potenza infinita, la voce di moltitudini di perfezioni di migliaia e migliaia di virtù di Dio, che non si potranno mai enumerare. Ed essendo ormai l’anima radicata in queste, resta terribilmente e solidamente ordinata come un esercito schierato (Ct 6,3)e resa soave e graziosa da tutte le dolcezze e le grazie delle creature.

 

11. Ma vi è un dubbio: come può l’anima sopportare una comunicazione così forte nella debolezza della carne, che in effetti non ha la capacità e la forza per sopportare tanto senza venire meno? Effettivamente la regina Ester, solamente per avere visto il re Assuero nel suo trono, con vesti reali e risplendente di oro e di pietre preziose, temette tanto vedendolo così terribile che venne meno. Ella stessa lo confessa, dicendo che, avendo timore della sua grande gloria, poiché le sembrò come un angelo, con il suo viso pieno di grazia, venne meno (Est 15,16)Infatti la gloria opprime colui che la guarda quando non lo glorifica. Allora, quanto qui doveva l’anima venire meno, dal momento che non aveva visto un angelo, bensì Dio, con il suo volto pieno delle grazie di tutte le creature, pieno di terribile potere, di gloria e con la voce di moltitudini di perfezioni? Di questa voce dice Giobbe: Quando ne udiremo appena un sussurro, chi potrà sopportare la grandezza del suo tuono? (26,14)e in un altro passo: Non voglio che discuta con me con forza, affinché per disgrazia non mi opprima con il peso della sua grandezza (23,6).

 

12. Due sono le cause per le quali l’anima non viene meno né teme questo risveglio tanto potente e glorioso: la prima è perché, trovandosi l’anima in uno stato di perfezione, come qui si trova, nel quale la parte inferiore è molto purgata e conforme allo spirito, non sente quel danno e quella pena che nelle comunicazioni spirituali è solito sentire lo spirito e il senso non purificato e non disposto a riceverle.

Ciò però non basta per non essere danneggiati da tanta grandezza e gloria; infatti, per quanto la natura sia molto pura, tuttavia, poiché eccede la natura, la corromperebbe come fa uno stimolo sensibile eccessivo con la potenza. In questo senso vanno interpretate le parole di Giobbe poco prima ricordate.

La seconda causa è quella che fa al caso nostro, e corrisponde a ciò che l’anima dice nel primo verso, ossia al fatto che Dio si mostra dolce con essa.

Infatti, così come Dio mostra all’anima grandezza e gloria per deliziarla e innalzarla, così la favorisce perché non venga danneggiata, difendendo la sua parte naturale, mostrando allo spirito la sua grandezza con dolcezza e amore senza l’intervento della natura, cosicché l’anima non sa se ciò avviene nel corpo o fuori di esso. Tutto ciò può ben farlo colui che difese Mosè con la sua destra affinché vedesse la sua gloria (Es 33,22).

E così l’anima sente tanta mansuetudine e tanto amore in Lui quanto sono il potere, la maestà e la grandezza, perché in Dio tutto coincide. E così se il diletto è forte, anche l’aiuto lo è, offertole con mitezza e con amore per sopportare un grande piacere. E così l’anima, invece che sopraffatta, è resa forte e potente. Infatti se Ester venne meno, fu perché il re al principio non le si mostrò favorevole, ma, come ella dice, con gli occhi ardenti le mostrò il furore del suo petto (15,10)Ma appena egli le fu amico, avvicinando a lei il suo scettro, toccandola, abbracciandola, e dicendole che non lo temesse poiché era suo fratello (15,12)ella si rianimò.

 

13. E siccome da questo momento il Re del cielo si comporta in modo amichevole con l’anima, come un suo pari e un suo fratello, l’anima non lo teme più; infatti, mostrandole con mansuetudine, e non con il furore, la forza del suo potere e l’amore della sua bontà, le comunica la forza e l’amore del suo petto, scendendo dal trono dell’anima stessa, dove era nascosto, e andando verso di lei come sposo dal suo talamo (Sal 18,6), toccandola con lo scettro della sua maestà, inchinandosi a lei, e abbracciandola come un fratello. Ed ecco per lei vesti e fragranze reali, che sono le virtù meravigliose di Dio; ecco lo splendore dell’oro, che è la carità; ecco lo scintillio delle pietre preziose, delle notizie relative alle sostanze superiori e inferiori; ecco il volto del Verbo pieno di grazia, investire l’anima, in modo che, trasformata nelle virtù del Re del cielo, è diventata una regina e si potrà dire veramente quanto David dice di lei nel salmo: La regina stava alla tua destra vestita di oro e cinta di colori(44,10-15).

E dal momento che tutto questo avviene nell’intima sostanza dell’anima, essa dice subito dopo:

 

dove segretamente solo tu dimori!

 

14. Essa dice che nel suo seno dimora segretamente, perché, come abbiamo detto, questo dolce abbraccio avviene nel fondo della sostanza dell’anima. Bisogna sapere che Dio dimora in tutte le anime segreto e nascosto nella loro sostanza, poiché, se così non fosse, esse non potrebbero sussistere.

Tuttavia vi è molta differenza fra i diversi modi di dimorare: perché in alcune dimora solo e in altre no; in alcune dimora contento e in altre scontento; in alcune si comporta come se fosse nella sua casa, comandando e reggendo tutto, e in altre si comporta come estraneo in casa altrui, dove non gli è permesso comandare né fare nulla.

L’anima dove dimorano meno appetiti e gusti propri è quella dove Dio è più solo, più contento ed è a suo agio come nella propria casa, reggendola e governandola, e dimorandovi tanto più segreto quanto più è solo.

E così, in quest’anima, dove non permane più nessun desiderio, né alcuna immagine e forma, né affezione nei confronti di alcuna cosa creata, dimora segretamente l’Amato stretto a lei in un abbraccio tanto più intimo e forte quanto più essa, come abbiamo detto, è pura e lontana da ogni altra cosa che non sia Dio.

E quindi egli è segreto. Infatti, a questo luogo e a questo abbraccio non può giungere, per sapere come esso sia, né il demonio né l’intelletto dell’uomo. Tuttavia, per l’anima, non rimane un segreto, perché essendo giunta ormai a tale perfezione, essa sente in se stessa questo abbraccio. Però non sempre avverte questi risvegli; poiché solo quando questi risvegli li compie l’Amato, all’anima sembra che Egli si risvegli nel suo seno, dove prima era come addormentato. Infatti, anche se lo sentiva e lo gustava, era come l’amato fosse addormentato, e fra due persone non vi può essere scambio di conoscenza e amore finché entrambe non sono sveglie.

 

15. Come è felice l’anima che sente Dio dormire e riposare nel suo seno! Quanto le conviene distaccarsi dalle cose; fuggire gli affanni e vivere con immensa tranquillità, per non disturbare né inquietare con il minimo rumore o movimento il seno dell’Amato!

Egli è lì di solito addormentato in quest’abbraccio con la Sposa, nella sostanza dell’anima, la quale ordinariamente lo sente molto bene dilettandosi. Perché se fosse sempre sveglio in lei, comunicandosi le notizie e l’amore, già sarebbe essere nella gloria. Infatti se solo aprendo gli occhi produce tali effetti nell’anima, che cosa accadrebbe se fosse sempre sveglio in lei?

 

16. In altre anime, che sono in grazia, ma che non sono arrivate a questa unione per non essere completamente disposte, Dio dimora, sebbene non scontento, tuttavia, nascosto alle stesse. Infatti non lo sentono di solito, ma solo quando fa in loro qualche risveglio saporoso, anche se non sono del genere né della tempra di questo, né hanno nulla a che vedere con esso, né sono per l’intelletto e per il demonio così nascosti, poiché questi potrebbero capire qualcosa dai movimenti del senso – il quale fino all’unione non è annichilito completamente –, per cui compie ancora qualche atto e movimento nei riguardi di ciò che è spirituale, non essendo totalmente puro spirito.

Ma nel risveglio che lo Sposo compie in quest’anima perfetta, tutto ciò che accade è perfetto, perché tutto viene fatto da Lui. Come avviene quando uno si sveglia e respira, l’anima sente uno straordinario diletto nello spirare dello Spirito Santo in Dio, in cui essa si glorifica e si innamora sublimemente, e per questo esclama i seguenti versi:

 

Nel tuo spirar gustoso,

di bene e di gloria pieno,

come delicatamente m’innamori!

 

17. Di questo spirare pieno di bene, di gloria e di delicato amore di Dio nell’anima io non vorrei parlare, anzi non voglio, perché vedo chiaramente che non sono in grado di dirlo e se lo dicessi sembrerebbe essere ciò che non è.

Infatti è uno spirare di Dio nell’anima, nel quale, attraverso il risveglio dell’alta conoscenza della Divinità, lo Spirito Santo spira in lei con la stessa proporzione con cui le fu comunicata l’intelligenza e la notizia divina, nella quale lo Spirito Santo la assorbe profondamente,innamorandola con perfezione e delicatezza divina, secondo quanto essa vide in Dio.

Ed essendo tale spirare pieno di bene e di gloria, lo Spirito Santo riempie l’anima di bene e di gloria, innamorandola di sé più di quanto si possa dire con le parole o possano sentire i sensi, innalzandola nelle profondità di Dio, al quale sia onore e gloria in saecula saeculorum. Amen.

Teresa d’Avila

Esclamazioni dell'Anima  a Dio

 

 

I

1. Oh, vita, vita mia! Come puoi vivere lontana dalla tua Vita? In così profonda solitudine, di cosa ti occupi? Che fai, visto che tutte le tue opere sono imperfette e difettose? Chi ti consola, anima mia, in questo tempestoso mare? Ho pena di me e ancor più del tempo che son vissuta senza dolermi. Oh, Signore, come sono dolci le vostre vie! Ma chi camminerà senza timore? Temo di non riuscire a servirvi: quando mi dispongo a farlo, non trovo cosa che mi soddisfi per pagarvi almeno un po’ di ciò che vi devo. Mi sembra di volermi consacrare tutta al vostro servizio ma, quando considero attentamente la mia miseria, vedo che non posso far nulla di buono, se voi non me ne date la capacità.

2. Mio Dio, misericordia mia!, che devo fare per non distruggere le grandi cose che compite in me? Le vostre opere sono sante, sono giuste, sono di un valore inestimabile, frutto di una straordinaria sapienza, perché voi, Signore, siete la stessa Sapienza. Se il mio intelletto cerca di contemplarle, se ne lamenta la volontà, che non vorrebbe essere ostacolata nell’amarvi. Perciò l’intelletto, pur in mezzo a così grandi meraviglie, non può giungere a capire chi è il suo Dio, mentre la mia anima desidera godere di voi, ma non vede come possa farlo, chiusa in un carcere così penoso com’è questo suo corpo mortale. Tutto la disturba, anche se all’inizio trovò aiuto nella considerazione delle vostre grandezze, là dove appaiono meglio le mie innumerevoli miserie.

3. Perché ho detto questo, mio Dio? Con chi mi lamento? Chi mi ascolta se non voi, Padre e Creatore mio? Che bisogno ho io di parlare perché voi intendiate la mia pena, se voi siete in me, come tanto chiaramente vedo? Oh, quanto sono sciocca! Ma, ahimè, Dio mio! Come potrò io sapere con sicurezza di non essere lontana da voi? Oh, vita mia, che devi vivere con tanta incertezza in una questione di così capitale importanza! Chi riuscirà a desiderarti, visto che il guadagno che si può trarre o sperare da te, che è di accontentare in tutto Dio, è così incerto e pieno di pericoli?

II

1. Penso spesso, o mio Signore, che se c’è qualcosa capace di farci sopportare la vita senza di voi, è la solitudine, perché l’anima in essa può riposare con colui ch’è tutto il suo riposo, quantunque, non godendone con piena libertà, molte volte si senta raddoppiare il tormento. Ma di fronte a ciò che le procura il dover trattare con le creature e lasciare di unirsi da sola a solo con il suo Creatore, tale tormento finisce con l’apparire un diletto. È mai possibile, Signor mio, che il riposo stanchi un’anima che aspira solo a contemplarvi? Oh, potente amore di Dio, come son diversi i tuoi effetti da quelli dell’amore del mondo! Questo non vuole compagnia, sembrandogli che gli altri gli rubino il bene che possiede, mentre quello del mio Dio aumenta tanto più quanto più numerosi sono gli amanti; pertanto, se qualcosa sminuisce la sua gioia è vedere che non tutti godono di un così gran bene. Questo il motivo, o mio Bene, per cui nella gioia e nelle delizie che si gustano in voi, si rattristano al pensiero di coloro che, numerosissimi, rifiutano tali gioie e di coloro che le perderanno per sempre. L’anima ricorre allora a tutti i mezzi per procurarsi compagnia, e volentieri lascia il suo godimento, quando crede di poter contribuire per ottenere che anche altri ne godano.

2. Ma non sarebbe meglio, Padre mio celeste, rimandare questi desideri a quando l’anima sia meno favorita dei vostri doni, perché si applichi interamente a goderne? Oh, Gesù mio, quanto è immenso l’amore che nutrite per i figli degli uomini, se il miglior servizio che vi si possa rendere è abbandonare voi per amore verso di essi e per il loro profitto! Allora vi si possiede più pienamente. Infatti, anche se la volontà si appaga meno del godimento, l’anima gode di compiacervi e vede che le gioie terrene sono incerte, anche quelle che sembrano concesse da voi, finché viviamo questa vita mortale, se non si accompagnano all’amore del prossimo. Chi non lo ama, non vi ama, mio Signore, poiché tutto il sangue che avete versato ci dimostra l’immenso amore che nutrite per i figli di Adamo.

 

III

1. Considerando la gloria, mio Dio, che riservate a coloro che perseverano nell’adempimento della vostra volontà, vedendo con quante sofferenze e dolori vostro Figlio ce l’ha guadagnata, consapevole di come ce ne eravamo resi indegni e di quanto sia giusto impegnarci a non ricambiare con l’ingratitudine la sublimità di un amore che a così caro prezzo ci ha insegnato ad amare, la mia anima si sente lacerare di dolore. Com’è possibile, Signore, che tutto questo si dimentichi e che gli uomini si dimentichino di voi al punto da offendervi? Oh, mio Redentore, com’è possibile, aggiungo, che siano tanto smemorati da dimenticare così se stessi? Oh, com’è grande la vostra bontà se, ciò nonostante, vi ricordate di noi! Dimenticando che siamo caduti per volervi ferire con un colpo mortale, voi tornate a tenderci la mano e ci risvegliate da così incurabile frenesia, affinché cerchiamo e vi chiediamo la salvezza! Sia benedetto un tal Signore, sia benedetta una così immensa misericordia, e sia egli lodato in eterno per così tenera bontà!

2. Anima mia, benedici senza fine un così grande Signore! Come si può tornare a essergli ribelli? Oh, come la stessa grandezza del dono ricevuto è di danno agli ingrati! Ponetevi voi rimedio, mio Dio. E voi, figli degli uomini, fino a quando sarete duri di cuore e avrete il coraggio di opporvi a questo dolcissimo Gesù? Cos’è questo? Forse che la vostra malizia può prevalere a lungo contro di lui? No; la vita dell’uomo ha, infatti, una fine come il fiore del fieno, e il Figlio della Vergine verrà a pronunciare la sua terribile sentenza. Oh, mio potente Dio! Dal momento che, anche se non lo vogliamo, ci dovrete giudicare, perché non consideriamo quanto sia importante avervi favorevole in vista di quel momento? Ma chi, chi non vorrà un Giudice così giusto? Beati coloro che in quel tremendo istante si rallegreranno con voi, mio Dio e mio Signore! Colui che voi avete rialzato e che, avendo riconosciuto come si era miseramente perduto per procurarsi un fugacissimo piacere, è ora deciso a non più offendervi con il vostro aiuto (poiché sempre andate incontro, Bene dell’anima mia, a coloro che vi amano, e sempre rispondete a chi vi chiama); quale via di scampo avrà, Signore, dopo questo, per poter vivere senza sentirsi morire di continuo al pensiero di aver perduto un così gran tesoro come quello dell’innocenza battesimale? La miglior vita che possa vivere è morire continuamente a causa di questo rimpianto. Ma un’anima che vi ama teneramente, come potrà sopportarlo?

3. Che domanda sciocca, Signore, questa mia! Si direbbe che abbia dimenticato le vostre grandezze e misericordie, e non pensi che siete venuto al mondo per noi peccatori e a quale caro prezzo ci avete riscattati, pagando le nostre false gioie con la sofferenza di così crudeli tormenti e flagellazioni! Avete guarito la mia cecità, con la benda che ricoprì i vostri occhi divini e la mia vanità con la vostra crudelissima corona di spine. Oh, Signore, Signore! Tutto questo ferisce più profondamente chi vi ama. Mi conforta solo il pensiero che, una volta conosciuta la mia cattiveria, la vostra misericordia sarà lodata per sempre. Ciò nonostante, non so se questa pena potrà abbandonarmi fino a che, vedendovi faccia a faccia, spariscano tutte le miserie della nostra mortalità.

 

IV

1. Mi sembra, mio Signore, che la mia anima trovi un po’ di sollievo pensando alla felicità che avrà se, per vostra misericordia, le sarà concesso di godere di voi. Ma vorrebbe anzitutto servirvi, perché si tratta di godere delle gioie che le avete meritato, servendo lei. Che farò, mio Signore? Che farò, mio Dio? Oh, con quanto ritardo si sono accesi i miei desideri e come voi, Signore, vi siete invece adoperato per tempo a chiamarmi perché mi dedicassi tutta a voi! Forse che, Signore, voi abbandonate il miserabile, o allontanate il povero mendico quando vuole avvicinarsi a voi? Hanno forse un limite, Signore, le vostre grandezze o la magnificenza delle vostre opere? Oh, mio Dio e misericordia mia! Come vi sarà facile mostrare ora grandezza e magnificenza nella vostra serva! Voi siete potente, gran Dio. Questo è il momento in cui si riuscirà a capire se la mia anima si inganni quando, pensando al tempo perduto, afferma che in un attimo voi, Signore, potete farglielo riguadagnare. Forse vaneggio, perché siamo soliti dire che il tempo perduto non si può ricuperare. Sia benedetto il mio Dio!

2. Oh, Signore! Riconosco la vostra divina potenza. E se voi siete potente, come in realtà siete, cosa c’è d’impossibile a colui che può tutto? Vogliate, dunque, Signore mio, vogliate! Per quanto miserabile io sia, credo fermamente che possiate tutto ciò che volete, e quanto più sono grandi le meraviglie che sento dire di voi, pensando che potete fare ancora di più, la mia fede si fortifica maggiormente e credo con più salda convinzione che esaudirete la mia richiesta. E come meravigliarsi di ciò che fa l’Onnipotente? Voi sapete bene, mio Dio, che pur fra tutte le mie miserie, non ho mai trascurato di riconoscere la vostra grande potenza e misericordia. Tenete conto, Signore, del fatto che almeno in questo non vi ho offeso. Ricuperatemi, Dio mio, il tempo perduto concedendomi la vostra grazia per il presente e per il futuro, affinché compaia davanti a voi con la veste nuziale perché, se lo volete, lo potete.

 

V

1. Oh, Signor mio! Come osa chiedervi grazie chi vi ha servito così male e così male ha saputo custodire i vostri doni? Che fiducia si può avere di chi ha tradito molte volte? Che farò io, dunque, o consolazione dei desolati e rimedio di chi implora il vostro aiuto? Sarà, forse, meglio tacere le mie necessità aspettando che voi me ne apportiate il rimedio? No, di certo, perché voi, mio Signore e mia gioia, sapendo quanto grande doveva essere il loro numero e di quanto sollievo sia per noi manifestarvele, ci avete detto di chiedere, perché non mancherete di esaudirci.

2. A volte penso alle lamentele di quella santa donna che era Marta. Non si lamentava solo di sua sorella, anzi sono sicura che il suo maggior rammarico proveniva dall’impressione che voi, Signore, non aveste pietà delle sue fatiche e non v’importasse nulla di vedervela vicina. Forse le sembrò che l’amaste meno della sorella. Questo dovette affliggerla più che non la fatica di servire colui per il quale così grande amore, perché l’amore fa ritenere un riposo anche la fatica. Ciò appare dal fatto che a sua sorella non disse nulla e che invece tutta la sua lamentela fu rivolta direttamente a voi, Signore; l’amore le diede l’ardire di chiedervi come mai non vi curaste di lei. E anche la vostra risposta sembra provare che la domanda fosse dettata e provenisse dal motivo che ho detto: solo l’amore, diceste, è ciò che dà valore a tutte le cose e che l’unica cosa necessaria è che l’amore sia così forte che niente m’impedisca d’amare. Ma come, Dio mio, potremo avere un amore degno di ciò che merita l’Amato, se quello che voi avete per noi non si unisce al nostro? Mi lamenterò, dunque, come questa santa donna? Oh! Non ne ho nessun motivo, perché ho sempre ricevuto dal mio Dio ben più grandi e abbondanti prove d’amore di quelle che io non abbia saputo chiedere né desiderare. Se non mi lamento di quanto a lungo la vostra bontà mi ha sopportato, non ho alcun altro motivo per farlo. E allora che potrà chiedervi una creatura così miserabile come me? Datemi, Dio mio, di che darvi, dirò con sant’Agostino, per soddisfare almeno in parte il molto che vi devo; ricordatevi che sono creatura vostra e concedetemi di conoscere chi sia il mio Creatore affinché io l’ami.

 

VI

1. Oh, mio diletto, Signore di tutto il creato e mio Dio! Fino a quando dovrò aspettare per vedervi faccia a faccia? Che rimedio offrite a chi dispone di così poco sulla terra per trovare un po’ di sollievo fuori di voi? Oh, vita lunga, vita amara, vita che non si vive! Oh, che assoluta solitudine, che solitudine senza rimedio! Quando, dunque, Signore, quando? Fino a quando? Che farò io, mio Bene, che farò? Desidererò, forse, non desiderarvi più? Oh, mio Dio e mio Creatore! Voi causate le piaghe e non date la medicina; ferite, e la ferita non si vede; uccidete, per lasciare più vita! Insomma, mio Signore, voi fate ciò che volete, potente qual siete. Ma volete che un verme così spregevole, mio Dio, soffra sentimenti così contrastanti? Sia pur così, mio Dio, poiché voi lo volete; io non voglio altro che amarvi.

2. Ahi, ahi, mio Creatore! Come il mio immenso dolore mi costringe a lamentarmi e a riconoscere un male che sarà senza rimedio finché non vi piacerà porvi fine! L’anima così imprigionata aspira, certo, alla libertà, ma sempre con il desiderio di non allontanarsi in nulla da quello che voi volete. Fate sì, gloria mia, che il suo spasimo aumenti o liberatela da esso totalmente. Oh, morte, morte, non so chi ti possa temere, essendo in te la vita! Ma chi non temerà, avendo trascorso parte dell’esistenza senza amare il suo Dio? E poiché mi trovo proprio in questa condizione, cosa chiedo e cosa desidero? Forse il castigo così ben meritato per i miei peccati? Non permettetelo voi, Bene mio, per il caro prezzo che vi è costato il mio riscatto.

3. Oh, anima mia! Lascia che si compia la volontà del tuo Dio; questo è quanto ti conviene. Servilo, e spera nella sua misericordia che porterà rimedio alla tua pena; quando avrai fatto penitenza per le tue colpe e ne avrai meritato un po’ il perdono di esse, non voler godere senza patire. Oh, mio vero Signore e mio Re! Nemmeno di questo sono capace se la vostra mano sovrana e la vostra grandezza non mi sostengono, ma con il vostro aiuto tutto mi sarà possibile.

 

VII

1. Oh, speranza mia, Padre mio, mio Creatore e mio vero Signore e Fratello! Quando penso a quello che voi dite, che la vostra delizia è stare con i figli degli uomini, la mia anima si riempie di gioia. Oh, Signore del cielo e della terra! Sono parole tali che nessun peccatore, in virtù di esse, può perdere la fiducia. Forse, Signore, vi manca qualcuno con cui dilettarvi per venire a cercare un vermiciattolo così ributtante come me? La voce che si udì durante il battesimo di Gesù diceva che vi siete compiaciuto nel vostro Figlio. Siamo, dunque, tutti uguali a lui, Signore? Oh, quale immensa misericordia, e che favore infinitamente superiore ai nostro meriti! E pensare che noi mortali dimentichiamo tutto questo! Mio Dio, abbiate presente l’immensa miseria umana e non dimenticate la nostra debolezza, voi che conoscete ogni cosa.

2. Oh, anima mia! Considera la profonda gioia e l’immenso amore con cui il Padre riconosce suo Figlio e il Figlio riconosce suo Padre; contempla l’ardore con cui lo Spirito santo si unisce ad essi e come nessuno dei tre possa separarsi da tanto amore e da tanta conoscenza, perché sono una cosa sola. Tali Persone divine si conoscono, si amano e si compiacciono l’una dell’altra. Allora, che bisogno c’è del mio amore? A che scopo lo volete, Dio mio, ovvero che guadagno ne traete? Oh, siate benedetto, mio Dio, per sempre! Vi lodino senza fine tutte le creature, Signore, giacché in voi la fine non può esistere.

3. Rallegrati, anima mia, che ci sia chi ama il tuo Dio com’egli merita. Rallegrati che ci sia chi conosce la sua bontà e la sua potenza. Ringrazialo di averci mandato su questa terra chi lo conosce così bene come il suo unico Figlio. Sotto la sua protezione, puoi avvicinarlo e pregarlo. Poiché Sua Maestà trova in te le sue delizie, non permettere che nulla quaggiù possa impedirti di trovare in lui le tue delizie, di rallegrarti delle grandezze del tuo Dio e di quanto meriti di essere amato e lodato. Supplicalo che ti aiuti, affinché tu contribuisca almeno un po’ a far benedire il suo nome e possa dire con tutta verità: l’anima mia esalta e magnifica il Signore.

 

VIII

1. O mio Signore e mio Dio, com’è vero che avete parole di vita in cui tutti i mortali troveranno ciò che desiderano, se vorranno cercarlo in esse! Ma che meraviglia, mio Dio, che dimentichiamo le vostre parole, nell’aberrazione e nel turbamento prodotti in noi dalle nostre opere cattive? O Dio mio, Dio, Dio, Creatore dell’universo! Che sarebbe il creato se voi, Signore, voleste creare ancora? Siete onnipotente; le vostre opere sono incomprensibili. Fate dunque in modo, Signore, che le vostre parole non si cancellino mai dalla mia mente.

2. Voi dite: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi consolerò. Che altro vogliamo, Signore? Che domandiamo? Che cerchiamo? Per quale motivo la gente del mondo si perde se non per andare in cerca di felicità? O Dio, Dio mio! È possibile questo, Signore? Oh, che pena! Che grande accecamento! Noi cerchiamo, infatti, la felicità dov’è impossibile trovarla! Abbiate pietà, Creatore, delle vostre creature! Vedete, noi non capiamo noi stessi, né sappiamo quel che desideriamo, né siamo nel giusto chiedendo quel che chiediamo. Illuminateci, Signore; considerate che la vostra luce è più necessaria a noi che a quel cieco il quale era tale dalla nascita, perché questi desiderava vedere la luce e non poteva, ma noi, Signore, non vogliamo vedere. Oh, che male grave e incurabile! Qui, mio Dio, deve manifestarsi il vostro potere, qui deve brillare la vostra misericordia!

3. Com’è insensato ciò che vi chiedo, mio vero Dio! Vi prego d’amare chi non vi ama, di aprire a chi non bussa alla vostra porta, di dar la salute a chi ha piacere d’essere infermo e va in cerca di malanni. Voi dite, mio Signore, che siete venuto a cercare i peccatori; eccoli, Signore, i veri peccatori. Non guardate alla nostra cecità, ma al sangue prezioso versato da vostro Figlio per noi. La vostra misericordia risplenda fra tanta malizia! Considerate, Signore, che siamo vostre creature; ci sia d’aiuto la vostra bontà e misericordia!

 

IX

1. Oh, dolce e tenero Signore dell’anima mia! Voi dite anche: Venite a me tutti voi che avete sete, e io vi darò da bere. Come farà a non avere una sete ardente chi sta bruciando fra le fiamme divampanti delle cupidigie di queste miserabili cose terrene? Ha un estremo bisogno di acqua per non morire del tutto di sete. Io so bene, mio Signore, che nella vostra bontà gliela darete. L’avete detto voi stesso; le vostre parole non possono deludere. Ma se ci sono di quelli che, abituati a vivere in questo fuoco, non lo sentono più, né si accorgono, nella loro stoltezza, dell’estremo bisogno di bere, che rimedio possono trovare, mio Dio? Eppure voi siete venuto al mondo per portar rimedio a tali gravi necessità. Cominciate, dunque, a farlo, Signore; proprio nei casi più difficili è dove apparirà meglio la vostra clemenza. Considerate, mio Dio, che i vostri nemici vanno guadagnando notevolmente terreno. Abbiate pietà di coloro che non ne hanno di se stessi! Poiché la sventura li acceca in modo tale da impedire che essi vengano a voi, andate voi da essi, mio Dio. Ve lo chiedo in nome loro, perché so che questi morti risusciteranno non appena, riconosciuti i propri errori e tornati in sé, cominceranno a godere di voi.

2. Oh, Vita che donate la vita a tutti! Non negate a me quest’acqua dolcissima che promettete a chi la vuole. Io la voglio, Signore, la chiedo e vengo a voi. Non nascondetevi a me, Signore, poiché conoscete il bisogno che ne ho e come essa sia la vera medicina per l’anima da voi ferita. Oh, Signore, quanti diversi fuochi ci sono in questa vita e quanto, a giusta ragione, si deve vivere con timore! Alcuni annientano a poco a poco l’anima, altri la purificano perché viva eternamente, godendo di voi. Oh, fonti vive delle piaghe del mio Dio, con quale abbondanza sgorgherete sempre per il nostro sostentamento e come procederà sicuro fra i pericoli di questa miserabile vita colui che cercherà di sostenersi con questo divino liquore!

 

X

1. Oh, come siamo pronti ad offendervi, Dio dell’anima mia, e come voi siete ancor più pronto a perdonarci! Da cosa proviene, Signore, così insensato ardire se non dal sapere che la vostra misericordia è grande e dal dimenticare quanto sia equa la vostra giustizia? Dolori di morte mi circondano. Ahi, ahi, ahi, che gran male è il peccato, se è stato capace di uccidere un Dio fra tanti dolori! E come ne siete circondato tutt’intorno, mio Dio! Dove potete andare che non vi tormentino? Da ogni parte gli uomini vi coprono di ferite.

2. Oh, cristiani! È tempo di difendere il vostro Re e di tenergli compagnia in così grande solitudine. Sono ben pochi i sudditi che gli sono rimasti, mentre grande è il numero dei seguaci di Lucifero. E il peggio è che gli si mostrano amici in pubblico e lo vendono in segreto: non trova quasi più nessuno di cui fidarsi. Oh, amico sincero, come vi paga male chi vi tradisce! Oh veri cristiani, unite il vostro pianto a quello di Dio! Le lacrime di compassione da lui versate non furono solo per Lazzaro, ma per tutti coloro che si sarebbero rifiutati di risorgere, nonostante il suo richiamo. Oh, mio Bene! Come allora voi avevate certo presenti anche le colpe che io ho commesso contro di voi! Che esse abbiano ormai fine, Signore, che esse abbiano fine e con le mie anche quelle di tutti gli uomini! Risuscitate questi morti; le vostre grida, Signore, siano così potenti che, sebbene essi non vi chiedano la vita, voi gliela diate, affinché in seguito, Dio mio, abbandonino l’abisso dei loro piaceri.

3. Neppure Lazzaro vi chiese di risuscitarlo: eppure voi lo faceste per le preghiere di una peccatrice. Eccone qui un’altra, mio Dio, e ben più colpevole. Fate risplendere in lei la vostra misericordia. Per quanto miserabile io sia, ve lo chiedo per coloro che si rifiutano di farlo. Voi ben conoscete, mio Re, il mio tormento nel vedere i peccatori così noncuranti degli atroci supplizi che dovranno patire in eterno se non ritornano a voi. Oh, abbiate pietà di voi stessi, voi che siete abituati a piaceri, feste, comodità e a non assecondare che la vostra volontà! Ricordatevi che sarete sempre asserviti, sempre, in eterno, alle furie infernali. Pensate e considerate che ora vi prega il Giudice che dovrà condannarvi, e che voi non avete neanche un istante di vita sicura. Perché non volete vivere eternamente? Oh, durezza dei cuori umani! Li addolcisca la vostra immensa pietà, mio Dio!

 

XI

1. Oh, mio Dio, mio Dio! Che grande tormento è per me considerare il dolore di cui farà esperienza un’anima che qui è stata sempre riverita, amata, servita, stimata e vezzeggiata, quando, subito dopo la morte, si vedrà ormai perduta per sempre e capirà chiaramente che il suo stato non avrà fine! Allora non le servirà a nulla cercare di allontanare dalla mente le verità della fede, come ha fatto quaggiù; sarà priva di quei beni di cui le sembrerà che ancora non aveva cominciato a godere (e a ragione, perché tutto quello che ha fine con la vita non è altro che un soffio); si vedrà circondata da una compagnia mostruosa e spietata con la quale dovrà patire eternamente, immersa in quel fetido lago, pieno di serpenti che faranno a gara nel darle i più crudi morsi, in quella penosa oscurità, dove non vedrà se non ciò che le darà tormento e angoscia, senz’altra luce che quella di una fiamma tenebrosa. Oh, com’è poco quel che si dice in confronto alla realtà!

2. Oh, Signore! Chi ha coperto gli occhi di quest’anima di tanto fango da impedirle di considerare queste cose fino al momento di vedersi sprofondata lì? Oh, Signore! Chi le ha chiuso le orecchie perché non udisse i tanti avvertimenti che le venivano dati su quella realtà e sull’eternità di tali supplizi? Oh, vita che durerà sempre così! Oh, tormenti senza fine! Oh, tormenti senza fine! Come non vi rabbrividisce chi, per non affaticare il proprio corpo, teme di dormire su un letto un po’ duro?

3. Oh, Signore, Dio mio! Piango il tempo in cui non me ne sono resa conto e poiché sapete, mio Dio, quanto mi affligga vedere il grande numero di coloro i quali non vogliono capirlo, io ora vi prego, Signore, che almeno uno, uno solo riceva luce da voi, perché possa servire a illuminare molti altri! Non per me, Signore, che non ne sono degna, ma per i meriti di vostro Figlio. Guardate le sue piaghe, Signore, e poiché egli perdonò a chi gliele aveva provocate, anche voi perdonateci.

 

XII

1. Oh, mio Dio, mia vera forza! Ma come avviene, Signore, che, codardi in tutto, siamo invece così arditi contro di voi? Qui si dispiegano tutte le forze dei figli di Adamo. Se la loro ragione non fosse così ottenebrata, comprenderebbero che neanche tutte le forze riunite del genere umano sarebbero sufficienti per ardire di prendere le armi contro il proprio Creatore e sostenere una guerra continua contro chi li può sprofondare in un attimo negli abissi infernali. Ma, poiché la loro mente è cieca, sono come pazzi che cercano la morte, credendo di trovarvi la vita. Infine, si comportano come gente senza ragione. Che fare, mio Dio, con chi è affetto da questa forma di pazzia? Si dice che il male stesso dia agli insensati grandi forze; così avviene di quelli che si allontanano dal mio Dio: gente malata, la cui furia si sfoga tutta contro di voi che fate loro il maggior bene.

2. Oh, Sapienza impenetrabile! Occorreva tutto l’amore che portate alle vostre creature per sopportare tanta pazzia, aspettare la nostra guarigione e procurarcela con ogni sorta di mezzi e di rimedi! Resto sbalordita quando considero che non si ha il coraggio di vincersi in così lieve difficoltà: ci si crede incapaci, pur volendolo, di sottrarsi a un’occasione e di allontanarsi da un pericolo in cui l’anima si perde; eppure si ha il coraggio e l’ardire di affrontare una così eccelsa Maestà come la vostra. Cos’è questo, mio Bene, cos’è? Da chi viene tale forza? Il capitano che guida questa battaglia contro di voi non è forse vostro schiavo e non è relegato nel fuoco eterno? Perché si leva contro di voi? Come un vinto può infondere tanto coraggio? Come può aver seguaci un simile indigente che è stato espulso dalle ricchezze celesti? Cosa può dare chi non ha nulla per sé, tranne una grande disgrazia? Cos’è questo, mio Dio? Cos’è questo, mio Creatore? Da dove tanto ardire contro di voi e tanta codardia di fronte al demonio? Anche se voi, o mio Principe, non favoriste i vostri, anche se dovessimo qualcosa a questo principe delle tenebre, non avrebbe ragion d’essere un tale comportamento, perché conosciamo ciò che voi ci riservate per l’eternità e quanto siano falsi i piaceri del demonio e infide le sue promesse. E che potrebbe mai fare per noi chi ha fatto tanto contro di voi?

3. O che grande cecità, mio Dio! O che enorme ingratitudine, mio Re! Che insanabile follia, servire il demonio con quello che voi ci date, Dio mio! Pagare il grande amore che nutrite per noi con l’amare chi vi odia e vi odierà eternamente! E, nonostante il sangue da voi sparso per noi, i colpi di frusta, i grandi dolori che soffriste, i grandi tormenti a cui doveste sottostare, invece di vendicare il vostro eterno Padre dell’immane empietà perpetrata contro suo Figlio (giacché voi non volete vendetta e perdonate tutto), prendiamo come compagni ed amici quelli che l’hanno trattato così! È evidente che, seguendo il loro capo infernale, saremo tutt’uno con lui e vivremo eternamente in sua compagnia, a meno che la vostra clemenza, Signore, non ci venga in aiuto facendoci ritornare alla ragione e perdonandoci il passato.

4. O mortali, rientrate, rientrate in voi stessi! Guardate al vostro Re, perché ora lo troverete pieno di dolcezza; abbia fine tanta cattiveria; il vostro furore e le vostre forze si rivolgano contro colui che vi fa la guerra e che vuole spogliarvi della vostra eredità. Tornate, tornate in voi stessi, aprite gli occhi, chiedete a gran voce e con molte lacrime la luce a colui che l’ha portata al mondo. Rendetevi conto, per amor di Dio, che vi disponete ad uccidere con tutte le vostre forze chi, per dare a voi la vita, ha sacrificato la sua; considerate che egli è colui il quale vi difende dai vostri nemici. E se tutto ciò non bastasse, vi basti almeno sapere che voi non potete nulla contro il suo potere e che, presto o tardi, pagherete con il fuoco eterno una così grande empietà e temerità. È forse perché vedete tale Maestà costretto a starsene immobile e legato dalle catene dell’amore che ha per noi? Cos’altro hanno fatto quelli che gli hanno dato la morte se non caricarlo di percosse e di ferite, dopo averlo legato?

5. O, mio Dio, come avete sofferto per chi prova così poca compassione dei vostri dolori! Ma verrà tempo in cui, Signore, si manifesterà la vostra giustizia, che sarà pari alla vostra misericordia. Badate, cristiani, riflettiamoci bene! Non potremo mai riuscire a capire ciò che dobbiamo a Dio, nostro Signore, e le magnificenze delle sue misericordie. Ma se la giustizia è altrettanto grande, ahimè, ahimè! che sarà di coloro che avranno meritato che si compia e risplenda in essi?

 

XIII

1. O anime che già godete senza alcun timore della vostra gioia e, assorte in essa, vi beate continuamente delle lodi del mio Dio! Com’è felice la vostra sorte! Come avete ragione di occuparvi sempre in queste lodi e come v’invidia la mia anima, per esser voi libere ormai dal dolore che procurano in questi tempi sventurati le offese arrecate al mio Dio, lo spettacolo di una così nera ingratitudine e la costatazione di come si chiudano volontariamente gli occhi di fronte al gran numero di anime che Satana si porta via! O beate anime del cielo! Soccorrete la nostra miseria e intercedete per noi presso la divina misericordia, affinché ci dia un po’ della vostra gioia e ci renda partecipi di questa chiara visione di cui ora godete.

2. Voi, mio Dio, fateci comprendere qual è la ricompensa riservata a coloro che combattono valorosamente nel breve sogno di questa miserabile vita. Anime amanti, otteneteci di comprendere la felicità che vi inonda al pensiero che il vostro gaudio sarà eterno e quanto sia piena la gioia di cui vi riempie la certezza che il vostro stato non avrà mai fine. O noi infelici, Signor mio! Ben lo sappiamo, infatti, e vi crediamo; se non che l’inveterata abitudine di non riflettere su queste verità le rende così estranee alle anime che non si conoscono più né si vogliono conoscere. O gente interessata, avida di piaceri e di divertimenti, che per non voler aspettare un breve spazio di tempo a goderne in abbondanza, per non voler attendere un anno, un giorno, un’ora – fors’anche non sarà più di un attimo – perde tutto, decisa a non rinunciare a quella miseria che ha sotto gli occhi!

3. Ahi, ahi, ahi, come ci fidiamo poco di voi, Signore! E voi, invece, quali immense ricchezze, quali tesori ci avete affidato! E dire che voi ci avete dato i trentatré anni di grandi sofferenze, seguite dalla morte inammissibile e penosa di vostro Figlio, cioè il vostro stesso divin Figlio. E ciò tanti anni prima della nostra nascita! Pur sapendo che non vi avremmo dato nulla in cambio, non avete voluto rinunziare ad affidarci così inestimabile tesoro, affinché non fosse per colpa vostra, Padre misericordioso, se noi, trascurando di approfittarne, non avessimo guadagnato nulla.

4. O anime fortunate che avete così bene saputo approfittarne, e comprare, servendovi di questo prezioso tesoro, un’eternità tanto gioiosa e duratura, diteci: come avete fatto ad acquistare per mezzo suo un tale eterno bene? Soccorreteci voi che siete già vicine alla fonte: attingete acqua per noi che qui moriamo di sete!

 

XIV

1. Oh, Signore, mio vero Dio! Chi non vi conosce, non vi ama. Oh, che grande verità è questa! Ma che sventura, che sventura, Signore, per chi non vuole conoscervi! Com’è da temere l’ora della morte! E ahimè, ahimè, mio Creatore, come sarà terribile il giorno in cui si adempirà la vostra giustizia! Spesso considero, o mio Cristo adorato, quanto appaiano affascinanti e dolci i vostri occhi all’anima che vi ama e che voi, mio Bene, vi inducete a guardare con amore. Mi sembra che uno solo di questi dolcissimi sguardi rivolto alle anime che voi ritenete per vostre basti come premio di molti anni di servizio! Oh, mio Dio, com’è difficile far comprendere questa cosa, a chi ignora quanto sia soave il Signore.

2. O cristiani, cristiani! Considerate il vincolo fraterno che vi lega a questo gran Dio; cercate di conoscerlo e non disprezzatelo più, perché come il suo sguardo è dolcissimo per chi lo ama, così è terribile quando si volge con spaventevole collera su chi lo perseguita. Ahimè! Non ci rendiamo conto che il peccato è una guerra aperta contro Dio da parte di tutti i nostri sensi e di tutte le potenze dell’anima! Fanno a gara nell’escogitare tradimenti contro il loro Re. Voi ben sapete, mio Signore, che spesso mi faceva più paura pensare alla possibilità di vedere il vostro volto divino adirato contro di me nel tremendo giorno del giudizio finale, che non tutte le pene e le furie infernali che io riuscissi a immaginare. Allora vi supplicavo di preservarmi, nella vostra misericordia, da una così grande sventura, e ve ne supplico anche ora, Signore. Cosa mi può capitare di simile su questa terra? Tutti i mali insieme vi chiedo, mio Dio, purché mi liberiate da così grande angoscia. Che non sia privata, mio Dio, che non sia privata del godere di tanta bellezza in pace! Vostro Padre vi ha dato a noi; che non perda, mio Signore, una gioia così preziosa! Confesso, eterno Padre, di averla custodita male, ma c’è ancora rimedio, Signore, c’è rimedio, finché viviamo in questo esilio.

3. O fratelli, fratelli, figli di questo Dio! Coraggio! Coraggio! Sapete, infatti, come Sua Maestà dica che non appena ci pentiremo di averlo offeso, non si ricorderà più delle nostre colpe e cattiverie. O pietà davvero infinita! Che vogliamo di più? Chi non arrossirebbe a chiedere tanto? Questo è il momento di prendere quanto ci offre questo Signore misericordioso, Dio nostro. Poiché vuole la nostra amicizia, chi potrà rifiutarla a chi non rifiutò di spargere tutto il suo sangue e perdere la vita per noi? Quello che ci chiede è nulla, pensate! E adempierlo risponde al nostro primario interesse.

4. Oh, Dio mio, Signore! Che durezza! Che follia e che cecità! Se ci si angustia quando si perde qualcosa, un ago, uno sparviero da cui non ci viene altra soddisfazione che vederlo librarsi nell’aria, sembra impossibile non soffrire per la perdita di quest’aquila reale della maestà di Dio e di un regno il cui godimento non avrà fine! Cos’è mai questo? Che cos’è? Non riesco a capirlo. Guarite mio Dio, tanta demenza e cecità.

 

XV

1. Ahimè! ahimè, Signore, com’è lungo questo esilio! E come son grandi i patimenti che comporta vivere in esso con il desiderio di vedere il mio Dio! Signore, che farà un’anima chiusa in questo carcere? Oh, Gesù, quant’è lunga la vita dell’uomo, anche se si dice che è breve! È breve, sì, mio Dio, ai fini di guadagnare con essa una vita che non avrà termine, ma assai lunga per l’anima la cui aspirazione è trovarsi alla presenza del suo Dio. Che rimedio voi porgete a un tale tormento? Non ce n’è altro se non sopportarlo per amor vostro.

2. Oh, mio Dio, dolce riposo di coloro che vi amano! Non deludete i vostri amanti, perché per voi si accresce e si attenua il tormento causato dall’Amato all’anima che anela a lui. Desidero accontentarvi, Signore. So bene che nessuna creatura può contentare me. Stando così le cose, voi non condannerete il mio desiderio. Eccomi qui, Signore! Se è necessario vivere per servirvi in qualche cosa, non rifiuto nessuno di tutti i patimenti che possano sopravvenirmi quaggiù, come diceva san Martino, che vi amava tanto.

3. Ma, oh dolore, oh dolore, povera me! Egli, infatti, aveva opere da offrirvi ed io non ho che parole, non essendo capace d’altro! Possano, mio Dio, aver valore i miei desideri davanti alla vostra divina Maestà, e non vogliate guardare alla pochezza dei miei meriti. Fate che possiamo meritare tutti di amarvi, Signore! Giacché si deve vivere, si viva per voi, abbiano fine una buona volta i nostri desideri e i nostri interessi personali! Che vi è di più grande che meritare di contentarvi? O mia gioia e mio Dio, che farò per accontentarvi? Come sono miserabili i miei servizi, anche se volessi offrirne molti al mio Dio! Perché, dunque, rimanere in questa vita piena di miserie? Perché si compia la volontà del Signore. È forse possibile un maggior guadagno di questo, anima mia? Sii vigilante, attendi, perché non sai quando verrà il giorno né l’ora. Vigila attentamente: tutto, infatti, passa con rapidità, anche se l’impazienza del tuo desiderio rende dubbio ciò che è sicuro, e lungo un tempo breve. Bada che quanto più lotterai, tanto più dimostrerai l’amore che nutri per il tuo Dio, e più godrai col tuo Amato di una gioia e di una letizia senza fine.

 

XVI

1. Oh, mio vero Dio e Signore! È una grande consolazione per l’anima oppressa dalla solitudine a causa della lontananza da voi, sapere che siete in ogni luogo. Ma quando la forza dell’amore e i grandi impeti del suo dolore aumentano, a che giova questa considerazione, Dio mio? L’intelletto si turba e la ragione si ottenebra, diventando entrambi incapaci di percepire questa verità che né si può, pertanto, intendere né conoscere. L’anima si accorge solo di essere lontana da voi e rifiuta qualunque sollievo: infatti il cuore che arde d’amore non accetta consigli né conforti se non proprio da colui che l’ha ferita, in quanto solo da lui spera che possa essere guarita la sua pena. Quando voi volete, Signore, subito sanate la ferita che avete fatto. Prima che ciò avvenga, non c’è da aspettarsi salute né gioia, tranne quella che nasce dal soffrire per una così giusta causa.

2. Oh, vero Amante, con quanta pietà, con quanta dolcezza, con quanta letizia, con quanta generosità e con quali sublimi dimostrazioni d’amore guarite queste piaghe che voi avete procurato con le frecce del vostro stesso amore! Oh, mio Dio, sollievo di ogni dolore! Come sono insensata! Quali mezzi umani potrebbero esserci per guarire coloro che il fuoco divino ha reso infermi? Chi può sapere fin dove arrivi questa ferita, da che cosa sia venuta, e come si possa lenire un così atroce e delizioso tormento? Sarebbe assurdo che un male tanto prezioso potesse placarsi con mezzi così vili come sono quelli di cui dispongono gli uomini. Con quanta ragione la sposa esclama nel Cantico: Il mio Diletto a me, e io al mio Diletto, perché è impossibile che un tale amore abbia un’origine così vile come il mio.

3. Ma se il mio amore è vile, mio Sposo, come mai non si ferma su nessuna creatura per raggiungere solo il suo Creatore? Oh, mio Dio! Perché io al mio Diletto? Siete voi, mio vero amore, a dare inizio a questa guerra d’amore, perché altro non sembrano l’inquietudine e l’abbandono di tutte le potenze e dei sensi che escono per le piazze e per i borghi scongiurando le figlie di Gerusalemme di svelare dov’è il loro Dio. Cominciata questa battaglia, contro chi, Signore, combatteranno se non contro colui che si è reso padrone di questa fortezza dove essi prima dimoravano, cioè la parte superiore dell’anima. Se ne furono cacciati, fu unicamente perché riconquistassero il loro conquistatore? Stanchi ora della sua assenza, si danno per vinti; e così, rinunciando a combattere, combattono con miglior esito perché, arrendendosi, vincono il loro vincitore.

4. Oh, che meravigliosa battaglia, anima mia, hai sostenuto in questo tormento e come tutto si svolge testualmente così! Sì, il mio Amato a me, e io al mio Amato. E chi oserà, ora, intromettersi per dividere e spegnere due fuochi divampanti in tal modo? Sarebbe affaticarsi a vuoto, perché ormai sono divenuti un fuoco solo.

 

XVII

1. Oh, mio Dio, mia sapienza infinita, senza misura né limiti, e superiore a ogni angelica e umana intelligenza! Oh, Amore che mi ami più di quanto io stessa mi possa amare e intendere! Perché, Signore, voler desiderare più di quello che voi vorrete darmi? Perché voler stancarmi a chiedervi ciò che è ispirato dal mio desiderio, visto che voi già sapete dove va a finire tutto quel che può vagheggiare la mia mente e a cui può aspirare il mio cuore, mentre io non so come riuscire a trarre per me un giovamento? Se c’è una cosa da cui la mia anima pensa di guadagnare, essa sarà, invece, forse per me una perdita. Se vi prego di liberarmi da una sofferenza che deve proprio servire alla mia mortificazione, cosa vi chiedo! mio Dio? Se vi supplico di mandarmela, forse non è commisurata alla mia pazienza, ancora debole e incapace di sopportare un colpo così forte. E ammesso che la pazienza mi aiuti a sostenere la prova, ma non sia ancora ben salda nell’umiltà, può darsi che pensi d’aver fatto qualcosa, mentre siete voi a far tutto, mio Dio. Se voglio soffrire, non vorrei però che ciò fosse a scapito della reputazione, il che non mi sembra conveniente per il vostro servizio, in quanto, da parte mia, non vedo in me alcune senso di attaccamento all’onore. Può darsi che proprio per la stessa ragione per cui ritengo debba esserci una perdita, ci sia un maggior guadagno in vista di quello a cui aspiro, cioè servirvi.

2. Potrei aggiungere molte altre riflessioni per provare che non capisco me stessa. Ma, perché parlarne quando so che lo conoscete? Solo affinché, quando sento il peso della mia miseria e vedo ottenebrata la mia ragione, cerchi di ritrovarla qui, o mio Dio, in quel che ho scritto di mia mano. Molte volte infatti mi riconosco, mio Dio, così miserabile, debole e pusillanime da andare alla ricerca di quanto è accaduto alla vostra serva, colei che credeva d’aver ricevuto da voi favori tali da poter lottare contro tutte le tempeste di questo mondo. No, mio Dio, no! Nessuna fiducia, ormai, in ciò che può essere un mio desiderio personale. Vogliate voi per me tutto quel che vi piacerà volere; è quanto io voglio, perché il mio bene consiste unicamente nel farvi piacere. E se voi invece, Dio mio, voleste contentare me, adempiendo ogni richiesta ispirata dal mio desiderio, vedo che sarei perduta.

3. Com’è misera la sapienza dei mortali e incerta la loro provvidenza! Disponete voi, con la vostra, i mezzi necessari affinché la mia anima vi serva non come voglio io, ma come volete voi. Non castigatemi col darmi ciò che voglio o a cui aspiro, se il vostro amore (che in me viva sempre!) non lo desidera. Muoia ormai questo io, e ne viva in me un altro che è più grande di me e migliore per me di me stessa, affinché io possa servirlo. Egli viva e mi dia vita; egli regni e io sia la sua schiava; la mia anima non vuole altra libertà. Come potrà essere libero chi se ne sta lontano dall’Altissimo? Quale maggiore e più miserabile schiavitù di quella dell’anima libera dalla mano del suo Creatore? Felici coloro che, tenuti stretti dai benefici della misericordia divina come da saldi ceppi e catene, si vedranno prigionieri e impossibilitati a sciogliersene! L’amore è forte come la morte e duro come l’inferno. Oh, felice chi, sentendosi morto per mano sua, si vedrà scagliato in questo inferno divino; senza più speranza di poterne uscire, o, per meglio dire, senza timore di vedersene messo fuori! Ma, ohimè, Signore, finché dura questa vita mortale, quella eterna è sempre in pericolo!

4. Oh, vita nemica del mio bene, potesse essermi concesso di por fine al tuo corso! Ti sopporto perché ti sopporta Dio; provvedo al tuo sostentamento perché sei sua; non tradirmi né essermi ingrata. Malgrado tutto ciò, ahimè, Signore, com’è lungo il mio esilio! Il tempo è sempre breve per dedicarlo al guadagno della vostra eternità, ma assai lungo è anche un sol giorno o un’ora per chi ignora in cosa potrà offendervi e teme di farlo. Oh, libero arbitrio, così schiavo della tua libertà, se non sei inchiodato al timore e all’amore di chi ti ha creato! Oh, quando verrà quel felice giorno in cui ti vedrai annegato nell’oceano infinito della somma Verità, dove non sarai più libero di peccare, né vorrai esserlo, perché al sicuro da ogni miseria, naturalizzato con la vita stessa del tuo Dio!

5. Egli è beato perché si conosce, ama e gode di se stesso, senza poter fare altrimenti. Non ha, non può avere la libertà di dimenticare se stesso e cessare di amarsi, perché sarebbe, per lui, un’imperfezione. Anima mia, quando penetrerai a fondo questo sommo Bene, conoscerai quel che egli conosce e godrai di quanto è oggetto del suo godimento; allora comincerà il tuo riposo: una volta costatato il venir meno della tua incostante volontà, non ci saranno più cambiamenti. La grazia di Dio, infatti, avrà avuto tanto potere da renderti partecipe della sua divina natura con tale perfezione che, lungi dal desiderarlo, non potrai più dimenticarti del sommo Bene, né cessare di gioire di lui e del suo amore.

6. Beati coloro che sono scritti nel libro di questa vita! Ma se tu lo sei, anima mia, perché sei triste e mi conturbi? Spera in Dio al quale confesserò ancora una volta i miei peccati e di cui proclamerò le misericordie. Di tutto insieme comporrò un cantico di lodi con infiniti sospiri al mio Salvatore e al mio Dio. Può darsi che venga un giorno in cui glielo canti anche la mia gloria, senza che la mia coscienza sia contristata dalla compunzione, in quel luogo dove ormai avranno fine tutti i sospiri e i timori. Nel frattempo, la mia forza sarà nella speranza e nel silenzio. Preferisco vivere e morire sperando nella vita eterna e sforzandomi di conseguirla, piuttosto che possedere tutte le creature e tutti i loro beni destinati a perire. Non abbandonarmi, Signore; io spero in te perché la mia speranza non sia confusa. Ch’io ti serva sempre, e fa’ di me quel che vuoi!

 

 

Dall'Udienza Generale del 4 giugno 2008 di Papa Benedetto XVI

Fu uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente: Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.

Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla a noi.

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” - particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone.

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - è questa la sua espressione - servus servorum Dei. Questa parola da lui coniata non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

 

Regola pastorale

di san Gregorio Magno, Pontefice romano,

a Giovanni Vescovo della Città di Ravenna

 

Gregorio al reverendissimo e santissimo Giovanni,

fratello nell’episcopato

 

 

 

Carissimo fratello, con intenzione umile e benevola tu mi rimproveri di aver voluto sottrarmi al peso della cura pastorale cercando di nascondermi, ma perché non sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo scrivere in questo libro tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di averlo ottenuto.

La materia trattata in questo libro si divide in quattro parti, per accostare l’animo del lettore con ordinate argomentazioni, come i passi successivi di un cammino. Infatti occorre che chiunque sia chiamato al più alto grado del governo pastorale — quando gli eventi storici lo richiedono — valuti seriamente come vi giunge; e se vi giunge legittimamente consideri qual è la sua vita; e se la sua vita è buona, qual è il suo insegnamento; e se il suo insegnamento è corretto, egli deve essere quotidianamente consapevole, con ogni possibile considerazione, della propria debolezza; e così non avvenga che o la sua umiltà lo sottragga dall’accedere alla dignità o la sua condotta di vita contrasti con essa; la sua dottrina si allontani da una buona condotta di vita o la presunzione gli faccia esaltare la propria dottrina. Quindi innanzitutto sia il timore a moderare il desiderio; poi sia la condotta di vita a confermare un magistero che viene assunto da chi non lo cercava; quindi è necessario che quanto di bene si manifesta nel modo di vivere del Pastore si diffonda anche attraverso la sua parola. Resta infine che la considerazione della propria debolezza abbassi ai suoi occhi il valore di ogni opera buona che egli compie, affinché la gonfiezza dell’esaltazione non la cancelli agli occhi del Giudice occulto.

Molti però, che sono simili a me per ignoranza, mentre non sanno misurare se stessi, bramano di insegnare ciò che non hanno imparato e tanto più giudicano leggero il peso del magistero, quanto meno sanno valutarne la grandezza. Costoro si sentano biasimati fin dal principio di questo libro e poiché, indotti e precipitosi come sono, mirano ad occupare la rocca della dottrina, siano respinti dalla temerarietà della loro precipitazione fin dalla soglia del nostro discorso.

 

 

 

PARTE PRIMA

 

REQUISITI DEL PASTORE D’ANIME

 

 

1 — Gli ignoranti non osino accostarsi al magistero

 

Non c’è arte che uno possa presumere di insegnare se non dopo averla appresa attraverso uno studio attento e meditato. Quanta è dunque la temerarietà con cui gli ignoranti assumono il magistero pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti. Chi non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle viscere? E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non conoscono neppure le regole della vita spirituale ma non temono di professarsi medici dell’anima, mentre chi ignora la virtù terapeutica delle medicine si vergognerebbe di passare per medico del corpo. Ma poiché ormai per volontà di Dio ogni autorità del secolo presente si inchina con riverenza di fronte alla religione, non sono pochi coloro che dentro la Santa Chiesa aspirano alla gloria di una dignità dietro l’apparenza del governo delle anime. Aspirano a passare per maestri, bramano di superare gli altri e — come afferma la Verità — amano i primi saluti in piazza, i primi posti nelle cene, e le prime sedie nelle riunioni (cf. Mt. 23, 6-7). Essi sono tanto più incapaci di assolvere degnamente all’ufficio della cura pastorale che hanno assunto in quanto sono pervenuti al magistero dell’umiltà solo con l’orgoglio; giacché nell’insegnamento perfino la lingua si confonde quando si insegna qualcosa di diverso da ciò che si è imparato. Contro costoro il Signore si lamenta per mezzo del profeta dicendo: Da sé hanno regnato, non designati da me; sono divenuti principi ed io non l’ho saputo (Os. 8, 4). Infatti, coloro che, senza il sostegno di alcuna virtù, non chiamati per vocazione divina ma accesi dalla propria cupidigia non conseguono ma rapiscono il più alto grado del governo delle anime, regnano di proprio arbitrio, non per decisione del sommo reggitore. Tuttavia, il Giudice delle coscienze mentre li eleva non li riconosce, poiché certo nel suo giudizio di condanna egli ignora coloro che pure, nella sua permissione, tollera. Perciò egli dice a certuni che vanno da lui dopo aver compiuto addirittura dei miracoli: Allontanatevi da me operatori di iniquità, non so chi siete (Lc. 13, 27). E così viene aspramente rimproverata dalla voce della Verità la ignoranza dei Pastori, quando essa dice per mezzo del profeta: Perfino i pastori non hanno saputo comprendere (Is. 56, 11). E ancora il Signore li respinge dicendo: Pur avendo in mano la legge non mi hanno conosciuto (Ger. 2, 8). Dunque, la Verità si lamenta di non essere conosciuta da costoro e dichiara di non riconoscere il primato di chi non la conosce, giacché è certo che quanti non conoscono le cose del Signore, non sono conosciuti da lui, secondo la testimonianza di Paolo che dice: Se qualcuno poi ignora sarà ignorato (1 Cor. 14, 38). Naturalmente poi, a questa ignoranza dei Pastori corrispondono spesso i demeriti dei sudditi, perché quantunque sia tutto a loro proprio carico se i Pastori non possiedono il lume della conoscenza, tuttavia per un rigoroso giudizio accade che a causa della loro ignoranza inciampino anche coloro che li seguono. Di qui la Verità stessa dice nell’Evangelo: Se un cieco presta la sua guida a un altro cieco, cadono ambedue nella fossa (Mt. 15, 14). E il salmista, non esprimendo un desiderio del suo animo, ma nell’esercizio del suo ministero profetico, dichiara: Si oscurino i loro occhi perché non vedano, e piega sempre di più il loro dorso (Sal. 68, 24). Gli occhi sono chiaramente coloro che posti innanzi a tutti al grado sommo della dignità, hanno assunto il compito di fare da guide nel cammino; e quelli che al loro seguito aderiscono ad essi sono giustamente chiamati dorsi. Dunque, se gli occhi si oscurano, il dorso si piega: così quando coloro che guidano perdono la luce della conoscenza, quelli che seguono si curvano inevitabilmente sotto il peso dei peccati.

 

2 — Non occupino il posto del governo delle anime coloro che nel loro modo di vivere non adempiono a quanto hanno appreso con lo studio

 

Ci sono poi alcuni che investigano le regole della vita spirituale con esperta cura, ma poi calpestano con la loro condotta di vita ciò che riescono a comprendere con l’intelligenza: subito si mettono a insegnare ciò che hanno imparato con lo studio ma non con la pratica; e combattono con i loro costumi ciò che predicano con le loro parole. Così avviene che quanto il pastore cammina per terreni scoscesi il gregge che lo segue cade nel precipizio. Perciò il Signore si lamenta per mezzo del profeta contro la spregevole scienza dei Pastori, dicendo: Mentre voi bevevate acqua limpidissima, intorbidavate l’altra con i vostri piedi e le mie pecore si nutrivano di quanto voi avevate calpestato con i vostri piedi e bevevano l’acqua che i vostri piedi avevano intorbidato (Ez. 34, 18-19). I Pastori bevono acqua limpidissima quando attingono alle acque correnti della verità con retta intelligenza, ma è come intorbidare quella stessa acqua con i propri piedi il corrompere gli studi di una meditazione santa con una cattiva condotta di vita. Sono poi pecore che bevono l’acqua intorbidata dai piedi di quelli, i sudditi che non seguono le parole che ascoltano, ma imitano solo ciò che vedono, cioè gli esempi di una vita depravata. Infatti essi hanno sete di quanto viene loro detto con le parole, ma poi sono pervertiti dalle opere e allora è come se nei loro bicchieri bevessero fango perché le sorgenti si sono inquinate. Perciò è pure scritto per mezzo del profeta: I cattivi sacerdoti sono laccio di rovina per il mio popolo (cf. Os. 5,1; 9,8). E sempre dei sacerdoti dice ancora il Signore: Sono divenuti per la casa di Israele pietra di inciampo per l’iniquità (Ez. 44, 12). In verità nessuno nuoce di più nella Chiesa di chi portando un titolo o un ordine sacro conduce una vita corrotta, giacché nessuno osa confutare un tale peccatore e la colpa si estende irresistibilmente con la forza dell’esempio quando, a causa della riverenza dovuta all’ordine sacro, il peccatore viene onorato. Ma pur essendo indegnissimi, fuggirebbero la responsabilità di una colpa così grave se valutassero con attento orecchio del cuore la sentenza della Verità che afferma: Chi avrà scandalizzato uno solo di questi piccoli che credono in me è meglio per lui che gli si appenda una macina d’asino al collo e lo si getti nel profondo del mare (Mt. 18, 6). Dove la macina d’asino significa quel faticoso ritornare su se stessi della vita del secolo, e il profondo del mare indica la condanna eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità rovina gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato meglio per lui che lo avessero trascinato a morte le sue azioni terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa — come esempio da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo avrebbe tormentato una pena infernale comunque più tollerabile.

 

3 — Il peso del governo delle anime. Bisogna disprezzare le avversità temere la prosperi

 

Abbiamo voluto dimostrare in breve, con quel che abbiamo detto sopra, quanto sia grave il peso del governo delle anime, perché nessuno che non sia in grado di sostenerlo osi accostarsi temerariamente ai ministeri sacri e, per la bramosia di raggiungere il luogo della massima dignità, si assuma invece la guida della perdizione. Per questo Giacomo mette piamente in guardia dicendo: Non vogliate, fratelli miei, divenire maestri in molti (Giac. 3, 1). E perciò lo stesso Mediatore fra Dio e gli uomini rifuggi dall’assumere il regno sulla terra, lui che superando la scienza e la conoscenza anche degli spiriti celesti regna nei cieli prima dei secoli. Difatti è scritto: Gesù, dunque, sapendo che sarebbero venuti per rapirlo e farlo re, fuggì di nuovo sul monte, lui solo (Gv. 6, 15). Eppure chi avrebbe potuto regnare senza colpa sugli uomini come colui che avrebbe regnato, così., sulle sue creature? Ma poiché era venuto nella carne proprio per questo, non solo per redimerci con la sua passione ma anche per ammaestrarci con la sua vita e offrirsi come esempio per quelli che lo seguivano, perciò non volle divenire re, ma si avviò spontaneamente al patibolo della croce, fuggi la gloria della somma dignità che gli veniva offerta, ricercò la pena di una morte obbrobriosa. Ciò evidentemente perché noi sue membra imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere affatto i terrori della morte, ad amare le avversità per difendere la verità, a evitare con timore la prosperità, perché questa con la gonfiezza che l’accompagna corrompe il cuore, mentre le avversità lo purificano attraverso la sofferenza. Nella prosperità l’animo si innalza, ma nell’avversità, anche se prima si fosse innalzato, si prostra. Nella prosperità l’uomo dimentica ciò che è, ma nell’avversità anche non volendolo è richiamato quasi per costrizione a ricordarsene. Nella prosperità spesso anche il bene compiuto prima si corrompe, ma nell’avversità viene cancellato ciò che di male si è commesso anche nel corso di un lungo tempo. Infatti, per lo più sotto il magistero dell’avversità il cuore è come costretto dalla disciplina, ma se poi si innalza fino al più alto grado di governo, per l’esperienza della gloria si muta ben presto fino all’esaltazione. Così Saul, che in un primo tempo era fuggito per non essere fatto re considerandosene indegno (cf. 1 Sam. 10, 22), poi come ebbe assunto la guida del regno si gonfiò, e bramoso di essere onorato davanti al popolo, per non essere rimproverato pubblicamente, rinnegò perfino colui che l’aveva unto re (cf. 1 Sam. 15, 17-30). Così David, approvato quasi in ogni sua azione dal giudizio di Dio, appena non si senti più oppresso dalla persecuzione ruppe nella superba ferita del peccato (cf. 2 Sam. 11, 3 ss.) e divenne rigido e crudele nel volere la morte di un uomo nobile, mentre era stato molle e senza forza nel desiderio dissoluto di una donna. Lui che prima aveva saputo salvare piamente i malvagi imparò poi a desiderare l’uccisione anche dei buoni con fredda determinazione (cf. 2 Sam. 11, 15). Infatti una volta pur trovandosi nelle mani il suo persecutore non volle colpirlo, ma in seguito uccise un soldato devoto, con danno, inoltre, dell’esercito che già si trovava in difficoltà. E la colpa lo avrebbe certamente strappato e portato ben lontano dal numero degli eletti, se il castigo divino non lo avesse richiamato al perdono (cf. 2 Sam. 12).

 

4 — L’occupazione del governo delle anime per lo più dissipa l’unità dello spirito

 

Spesso le cure assunte col governo delle anime disperdono il cuore in diverse direzioni così che ci si ritrova incapaci di affrontare problemi singoli perché la mente confusa è divisa in molte occupazioni. Perciò un sapiente avvertito ammonisce: Figlio non applicarti a molte attività (Sir. 11, 10). E ciò per dire che la mente divisa in diverse operazioni non può raccogliersi pienamente nella considerazione esigente di ciascuna; e mentre è trascinata al di fuori da una cura prepotente, si svuota di quella unità dello spirito prodotta dall’intimo timore: diviene sollecita nella disposizione di cose esteriori, e ignara solamente di sé, sa pensare a molte cose ma non conosce se stessa. Infatti, quando si immerge più del necessario in occupazioni esterne è come se, distratta lungo un viaggio, si dimenticasse della meta cui era diretta e così, noncurante di attendere all’esame di se stessa, non considera neppure quali danni riceve da ciò e ignora l’entità del suo peccato. In effetti Ezechia non credette di peccare quando mostrò agli ospiti stranieri i depositi dei profumi (cf. 2 Re 20, 13), ma per questa azione che egli aveva stimato lecita dovette portare l’ira del Giudice nella condanna per i suoi discendenti (cf. Is. 39, 4-8). Accade spesso che molte azioni per sé lecite e tali che, quando sono compiute, riscuotono l’ammirazione dei sudditi, provochino però una esaltazione dell’animo anche nel solo pensiero, e questa, quantunque non si manifesti all’esterno con azioni inique, attira su di sé l’ira senza riserve del Giudice. Poiché è nell’intimo colui che giudica ed è l’intimo che è giudicato; e quando pecchiamo nel cuore ciò che compiamo in noi resta nascosto agli uomini ma il Giudice stesso è testimone del nostro peccato. Infatti il re di Babilonia non peccò di superbia solamente quando giunse a pronunciare parole superbe, poiché egli udì dalla bocca del profeta la sentenza della sua condanna quando ancora non si era esaltato con le sue parole (cf. Dan. 4, 16 ss.). Egli poi, in precedenza, aveva lavato la sua colpa quando aveva riconosciuto onnipotente il Dio che aveva offeso, predicandolo a tutte le genti che aveva sottomesse (cf. Dan. 3, 98-100); ma in seguito esaltato per l’affermazione del suo potere, compiaciuto di aver compiuto grandi cose, si antepose a tutti nel suo pensiero, e quindi si inorgoglì al punto di esclamare: Non è questa la grande Babilonia che io ho edificato come cosa del mio regno, merito della mia forza, gloria della mia maestà? (Dan. 4, 27) Furono certamente queste parole che dovettero sostenere apertamente la vendetta di quell’ira che l’intima esaltazione aveva acceso. Infatti il severo Giudice aveva veduto già da prima ciò che invisibilmente era in lui e che rimproverò poi pubblicamente con la punizione: lo trasformò in animale irrazionale, lo separò dal consorzio umano, lo associò per la sua mente sconvolta alle bestie della campagna, affinché per un giudizio evidentemente severo e tuttavia giusto, finisse col non essere più un uomo colui che si era stimato grande al di sopra degli uomini (cf. Dan. 4, 28-30). Così, proponendo questi esempi, non intendiamo disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore dalla brama di raggiungerlo, affinché gli imperfetti non osino impadronirsi della massima dignità del governo delle anime, né coloro che vacillano sul terreno piano si arrischino a porre il piede sul precipizio.

 

5 — Alcuni chiamati alla massima dignità del governo delle anime potrebbero giovare col loro esempio, ma rifiutano cercando la propria quiete

 

Ci sono in effetti alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e vengono esaltati per i loro grandi doni capaci di sostenere gli altri nell’esercizio della vita ascetica. Costoro sono puri per l’amore della castità, forti di quel vigore che è frutto dell’astinenza, sazi del delizioso nutrimento della dottrina, umili nella loro paziente longanimità, saldi della forza dell’autorità, benigni a motivo della loro pietà, rigorosi di quella severità che è propria della giustizia. Costoro però escludono per lo più anche se stessi da questi doni che non hanno ricevuto per sé soli ma anche per gli altri, se quando siano chiamati alla massima dignità del governo delle anime rifiutano di accettarla. E poiché pensano al loro guadagno e non a quello altrui, si privano proprio di quei doni che desiderano possedere a uso privato. Perciò infatti la Verità dice ai discepoli: Non può restare nascosta una città posta su un monte, né si accende una lampada e la si pone sotto un moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti coloro che sono in casa (Mt. 5, 15). Perciò dice a Pietro: Simone di Giovanni, mi ami? (Gv. 21, 17) E lui che subito aveva risposto che lo amava si sentì dire: Se mi ami, pasci le mie pecore (Gv. 21, 17). Se dunque la cura pastorale è testimonianza d’amore, chiunque ricco di virtù rifiuta di pascere il gregge di Dio ha in ciò stesso la prova che egli non ama il Pastore sommo. Perciò Paolo dice: Se Cristo è morto per tutti, dunque tutti sono morti, e se è morto per tutti resta che coloro che vivono non vivano pia per sé ma per colui che è morto per loro ed è risorto (2 Cor. 14, 15). Perciò ancora Mosè dice che un fratello che sopravvive al fratello morto senza figli ne sposi la moglie e generi figli a nome del fratello; e se rifiuterà di prenderla la donna gli sputi in faccia e il parente più prossimo di lei gli tolga un sandalo, e la sua abitazione sia detta casa dello scalzato (cf. Deut. 25, 5). Ora, il fratello morto è certamente colui che apparendo dopo la sua gloriosa risurrezione disse: Andate, dite ai miei fratelli (Mt. 28, 10). Egli è come morto senza figli, poiché non ha completato il numero dei suoi eletti, e allora al fratello superstite viene ordinato di ricevere la sua sposa.

Poiché è certamente cosa degna che la cura della Santa Chiesa venga imposta a chi più di ogni altro è in grado di governarla. E se egli non vuole, la donna gli sputa in faccia, giacché chiunque non ha cura di giovare agli altri coi doni che ha ricevuto, la Santa Chiesa gli rimprovera anche ciò che egli fa di buono ed è come se gli gettasse saliva in faccia. Ma egli è anche colui a cui viene tolto il sandalo da un piede così che la sua casa sia detta dello scalzato, poiché è scritto: Calzati i piedi per prepararsi al annunciare l’Evangelo della pace (Ef. 6, 15)Dunque proteggiamo ambedue i piedi coi sandali se ci prendiamo cura degli altri come di noi stessi; ma è come se perdesse con vergogna il sandalo da un piede colui che pensando alla propria utilità trascura quella del prossimo. Così, come abbiamo detto, ci sono alcuni ricchi di grandi doni i quali ardono dal desiderio della sola contemplazione e rifiutano di assoggettarsi all’utilità del prossimo attraverso il servizio della predicazione, perché amano la quiete appartata e aspirano alla meditazione in solitudine. Se si dovesse giudicarli con rigore sotto questo aspetto, essi sono responsabili nei confronti di tante anime, quante sono quelle cui avrebbero potuto giovare venendo a stare fra gli uomini. In effetti con quale pensiero colui che avrebbe potuto brillare nella sua dedizione a vantaggio del prossimo prepone il proprio ritiro alla utilità degli altri, quando lo stesso Unigenito del Sommo Padre, per giovare a molti, è uscito dal seno del Padre (cf. Gv. 1, 18; 8, 42; ecc.) per venire fra gente come noi?

 

6 — Coloro che fuggono il peso del governo delle anime per umiltà sono veramente umili quando non resistono al decreto divino

 

Ci sono poi alcuni che rifiutano solo per umiltà, per non essere cioè preferiti a coloro ai quali si stimano inferiori. La loro umiltà, se si circonda anche delle altre virtù, è certamente vera agli occhi di Dio, perché essa non si ostina a respingere ciò cui le viene ordinato di sottomettersi come cosa utile. Non è veramente umile cioè colui che capisce di dovere stare alla guida degli altri per decreto della volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza. Se invece è sottomesso alle divine disposizioni e alieno dal vizio dell’ostinazione ed è già prevenuto con quei doni coi quali può giovare agli altri, quando gli viene imposta la massima dignità del governo delle anime, egli deve rifuggire da essa col cuore, ma pur contro voglia deve obbedire.

 

7 — Si dà spesso il caso che alcuni aspirino lodevolmente all’ufficio della predicazione, e altri lodevolmente vi si lascino attirare costretti

 

Sebbene non di rado ci sia chi lodevolmente aspira all’ufficio della predicazione, c’è anche chi lodevolmente vi si lascia attirare se è costretto. Possiamo renderci conto facilmente di ciò se pensiamo all’opposto atteggiamento di due profeti: uno si offrì spontaneamente per essere mandato a predicare, l’altro pieno di timore si rifiutò. Isaia infatti si offri di propria iniziativa al Signore che chiedeva chi mandare, dicendo: Eccomi, manda me (Is. 6, 8). Geremia invece è mandato e tuttavia resiste umilmente per non esserlo, dicendo: Ah, ah, ah, Signore Dio, ecco non so parlare perché sono un ragazzo (Ger. 1, 6). Ecco, usci fuori una parola diversa dall’uno e dall’altro, ma essa non sgorgò da una diversa sorgente d’amore, giacché due sono i precetti della carità, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Isaia bramando di giovare al prossimo con la vita attiva aspira all’ufficio della predicazione; mentre Geremia desiderando di aderire sinceramente all’amore del Creatore attraverso la contemplazione oppone che egli non deve essere mandato a predicare. Pertanto l’uno aspirò lodevolmente a ciò di cui l’altro lodevolmente ebbe terrore: questo non voleva guastare, parlando, i frutti di una tacita contemplazione, quello non volle sentire, tacendo, i danni di un’attività nutrita solo di desiderio. Tuttavia bisogna penetrare sottilmente l’animo di ambedue e capire che chi rifiutò non resistette fino all’ultimo; e colui che volle essere mandato, prima si vide purificato dal carbone acceso dell’altare (cf. Is. 6, 6-7) a significare che nessuno osi accostarsi ai ministeri sacri senza essere stato purificato, o anche che colui che la grazia celeste ha scelto non contraddica superbamente sotto il pretesto dell’umiltà. Dunque, poiché è molto difficile che una persona qualsiasi possa riconoscere di essere stata purificata, è più che sicuro declinare l’ufficio della predicazione; tuttavia, come s’è detto, non bisogna insistere con ostinazione nel rifiutarlo quando si riconosce che è volontà celeste l’assumerlo. Si tratta di due disposizioni dell’animo a cui Mosè aderì mirabilmente poiché, dovendo essere guida di una moltitudine tanto grande, non volle ma obbedì (cf. Es. 3, 10 – 4, 18). Forse sarebbe stato superbo se avesse assunto la guida di una popolazione numerosissima senza trepidazione, e sarebbe ancora risultato superbo se avesse rifiutato di obbedire all’ordine del Creatore. Così, in ambedue i casi, egli fu insieme umile e soggetto, poiché misurando se stesso non volle essere capo del popolo e tuttavia acconsenti fidando sulle forze di colui che glielo ordinava. Da questo esempio si rendano conto certe persone irriflessive, di quanto è grande la loro colpa, se per il proprio desiderio non temono di essere preposti ad altri, quando — pur dietro l’ordine di Dio — uomini santi temettero di assumere la guida del popolo. Mosè trepida dietro l’invito del Signore, e un inetto qualunque anela ad un ufficio d’onore. Così, chi è spinto a cadere con forza sotto i propri pesi offre volentieri le sue spalle per caricarsi di quelli altrui: non ha la forza di sopportare il peso di cui è già carico e aumenta quel che porta.

 

8 — Alcuni bramano il potere e si appropriano di una affermazione dell’Apostolo ai fini della propria concupiscenza

 

Per lo più coloro che bramano il potere si appropriano della parola con cui l’Apostolo dice: Se qualcuno desidera l’episcopato desidera un buon ufficio (1 Tim. 3, 1), e l’adoperano ai fini della propria concupiscenza. Egli tuttavia pur lodando il desiderio volge subito in motivo di timore ciò che ha lodato, perché immediatamente aggiunge: Occorre però che il vescovo sia irreprensibile (1 Tim. 3, 2); e continuando poi a enumerare le virtù necessarie, chiarisce in che cosa consiste questa irreprensibilità. Incoraggia quanto al desiderio, ma incute timore col precetto come se dicesse apertamente: Lodo ciò che voi cercate, ma prima imparate bene che cos’è che cercate, perché se trascurate di misurare voi stessi, la vostra consapevolezza non appaia tanto più disonorevole, in quanto ha fretta di mostrarsi a tutti rivestita della dignità episcopale. Così, colui che fu grande maestro del ministero pastorale, da un lato spinge i suoi ascoltatori e incoraggia, dall’altro li trattiene col timore, per difenderli dalla superbia, con la descrizione della perfetta irreprensibilità, e per disporli alla vita che li attende lodando l’ufficio da loro richiesto. È da notare però che egli parlava così in un tempo in cui chiunque fosse a capo del popolo veniva condotto per primo ai supplizi del martirio. Allora sì era cosa lodevole aspirare all’episcopato, quando si sapeva con certezza che attraverso di esso si sarebbe giunti alle più gravi torture. Anche per questo il ministero dell’episcopato viene definito con l’espressione buon ufficio, quando è detto: Se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un buon ufficio (1 Tim. 3, 1). Pertanto, colui che cerca l’episcopato per la gloria di quell’onore e non per il buon ufficio di questo ministero, testimonia da sé, per se stesso, che non è l’episcopato ciò a cui egli aspira. In effetti, non solo egli non ama affatto l’ufficio sacro, ma non sa neppure che cosa sia, lui che anelando alla massima dignità del governo pastorale, nei pensieri nascosti della sua mente si pasce della sottomissione altrui, gode della lode rivolta a sé, esalta il suo cuore al pensiero dell’onore, esulta per l’abbondanza dei beni affluenti da ogni parte. Così si cerca il guadagno del mondo, proprio sotto l’apparenza di quella dignità attraverso la quale i guadagni del mondo si sarebbero dovuti distruggere. E quando la mente medita di impadronirsi del sommo grado dell’umiltà avendo di mira la propria esaltazione, muta e deforma nell’intimo ciò a cui aspira esteriormente.

 

9 — La mente di coloro che vogliono dominare spesso si lusinga con il finto proposito di compiere opere buone

 

Ma per lo più coloro che bramano di ricevere il magistero pastorale si pongono in animo anche il proposito di qualche opera buona, e quantunque nella loro aspirazione a quel magistero abbiano di mira la propria esaltazione, tuttavia considerano a lungo col pensiero le grandi cose che faranno e avviene che in essi tutt’altra cosa è ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò che la considerazione superficiale rappresenta al loro animo. Infatti, non di rado il pensiero mente a se stesso riguardo a sé e si immagina — quanto al bene operare — di amare ciò che di fatto non ama, e — quanto alla gloria del mondo — di non amare ciò che ama. E bramando il potere del primato, mentre lo cerca diviene timoroso verso di esso, ma quando l’ha ottenuto si fa audace. Infatti, finché è proteso ad esso, trepida di non arrivarci, ma una volta arrivato, immediatamente giudica che quanto ha ottenuto gli fosse dovuto di pieno diritto. E quando incomincia a godere mondanamente del primato ottenuto, si dimentica volentieri di tutto quanto aveva meditato di compiere con spirito religioso. Perciò è necessario che quando l’immaginazione va oltre i limiti di ciò che è praticamente realizzabile, subito l’attenzione della mente sia richiamata alle opere compiute in precedenza, perché ciascuno valuti quanto è stato capace di compiere da suddito e così si renda immediatamente conto se può, come prelato, compiere le opere buone che si è proposto. Perché colui che stando all’ultimo posto non ha cessato di insuperbire non è per nulla in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito al luogo più alto. Non sa fuggire la lode che gli viene ampiamente tributata, colui che ha imparato a bramarla quando ne era privo. Né può vincere la cupidigia colui che si dispone a provvedere a molti, mentre prima per sé solo non gli bastavano i propri beni. Pertanto ciascuno scopra se stesso dall’esame della sua vita passata perché nella sua brama di potere l’immaginazione non lo illuda. Del resto, per lo più al posto di governo si perde perfino l’uso del bene operare che si osservava in una vita tranquilla, giacché sul mare calmo anche un inesperto sa guidare diritta una nave, ma se il mare è mosso da ondate tempestose anche un marinaio esperto ci si trova in difficoltà. E che cosa è il culmine del potere se non una tempesta per la mente? In essa la navicella del cuore è agitata dal fluttuare dei pensieri, spinta incessantemente qua e là fino ad infrangersi per gli improvvisi eccessi nel parlare e nell’agire, come contro degli scogli. E così tra questi frangenti, quale via occorre seguire e quale linea tenere se non questa: che chi è ricco di virtù venga costretto ad accedere al governo delle anime, e chi è privo di virtù sia costretto a non accostarvisi? Se il primo resiste in modo assoluto, veda di non dover essere giudicato come colui che ha nascosto il denaro ricevuto dopo averlo avvolto in un fazzoletto (cf. Lc. 19, 20). Perché avvolgere il denaro nel fazzoletto significa nascondere i doni ricevuti, nell’ozio di una molle rilassatezza. D’altra parte, chi brama il governo delle anime badi che attraverso l’esempio di un agire perverso non si trovi ad essere di inciampo per coloro che vogliono entrare nel Regno; alla maniera dei farisei, i quali — secondo la parola del Maestro — non ci entrano loro né permettono che ci entrino gli altri (cf. Mt. 23, 13). Costui deve poi anche considerare che, quando il presule eletto assume la cura del popolo, è come un medico che si accosta ad un malato. Dunque, se nel suo agire sono ancora vive le passioni, con quale presunzione si affretta a medicare chi è stato percosso, colui che porta la propria ferita sul volto?

 

10 — Come deve essere chi si accosta al governo delle anime

 

Pertanto, in tutti i modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita, colui che morendo a tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. Per le sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma non deflette dalla più alta rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette nulla di illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri. Compatisce la debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per fatti passati. Si studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare, con le acque della dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre ancora tu parli, io dirò: Eccomi, sono qui (Is. 58, 9). Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo niente di lui. Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono per gli altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. Giacché sappiamo tutti molto bene che se chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di rovina per i sudditi.

 

11 — Com’è colui che non deve accostarsi al ministero

 

Ciascuno dunque misuri saggiamente se stesso, perché non osi assumere la funzione di governo a sua condanna se in lui regna ancora il vizio; e non aspiri a divenire intercessore per le colpe degli altri colui in cui permane la depravazione del suo peccato. Perciò viene detto a Mosè dalla voce celeste: Parla ad Aronne: chiunque appartenente a famiglie della tua discendenza avrà un difetto, non offrirà pani al Signore Dio suo né si accosterà per servirlo (Lev. 21, 17). Poi prosegue immediatamente: Se sarà cieco, zoppo, col naso troppo piccolo o troppo grande e storto, con una frattura a un piede o a una mano, sia gobbo o cisposo, con albugine nell’occhio, la scabbia, l’erpete nel corpo, l’ernia (Lev. 21, 18). È cieco chi non conosce la luce della contemplazione celeste, e avvolto dalle tenebre della vita presente, incapace di guardare con amore alla luce che deve venire, non sa dove dirigere i passi del suo operare. Perciò è detto nella profezia di Anna: Custodirà i passi dei suoi santi, e gli empi taceranno nelle tenebre (1 Sam. 2, 9). Zoppo, invece, è colui che vede con certezza dove deve dirigersi, ma per debolezza d’animo non sa mantenersi perfettamente sulla via della vita, che pure vede; e ciò perché i passi del suo operare non seguono efficacemente gli sforzi del suo desiderio, là dove esso mira, cioè a una condizione virtuosa a cui non sa innalzarsi la sua molle consuetudine di vita. Perciò infatti Paolo dice: Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie per i vostri passi, perché qualcuno zoppicando non erri ma piuttosto sia guarito (cf. Ebr. 12, 12-13). Ha il naso piccolo colui che non è adatto a osservare la misura della discrezione. In effetti, col naso distinguiamo odori gradevoli e sgradevoli, dunque è giusto rappresentare col naso la discrezione con la quale scegliamo le virtù e riproviamo i peccati. È perciò che si dice, in lode della sposa: Il tuo naso è come torre sul Libano (Cant. 7, 4), poiché è evidentemente con la discrezione che la Santa Chiesa scorge quali tentazioni procedono da singole cause e, come chi osserva dall’alto, riconosce le guerre dei vizi che stanno per sopravvenire. Ma ci sono alcuni che per non essere stimati troppo poco intelligenti si impegnano spesso più del necessario in certe analisi ricercate in cui poi falliscono per l’eccessiva sottigliezza. Perciò è detto anche: o col naso grande e storto. Questo infatti rappresenta la sottigliezza eccessiva del discernimento che, per essere cresciuto oltre il conveniente, confonde da se stesso il retto procedere della sua attività. Ha il piede o la mano fratturata colui che non sa percorrere in alcun modo la via di Dio ed è completamente escluso dalle buone opere, perché non ne partecipa neppure imperfettamente come lo zoppo, ma è del tutto estraneo ad esse. Gobbo, poi, è colui cui il peso delle sollecitudini terrene fa abbassare il capo affinché non si volga mai a guardare verso l’alto, ma sia attento solamente a ciò che viene calpestato nei luoghi più bassi. E se qualche volta gli avviene di sentire parlare dei beni della patria celeste, gravato com’è dal peso di una consuetudine perversa, non volge ad essi gli occhi del cuore, poiché colui che è tenuto curvo a terra dalla consuetudine delle cure terrene, non è capace di drizzare verso l’alto la sua meditazione. È di costoro che il salmista dice: Sono incurvato e umiliato in ogni tempo (Sal. 37, 7). Anche la Verità in persona rimprovera la loro colpa, dicendo: Il seme caduto fra le spine sono coloro che dopo avere udito la parola, se ne vanno e vengono soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non portano frutto (Lc. 8, 14).

Il cisposo è colui il cui ingegno è lucido e acuto per la conoscenza della verità, e tuttavia le sue azioni carnali lo oscurano. In effetti, negli occhi cisposi le pupille sono sane, ma le palpebre, malate per la continua secrezione di umore si gonfiano, e per la frequenza di questo deflusso si indeboliscono così che anche la acutezza della pupilla ne resta menomata. E ci sono alcuni la cui sensibilità resta ferita da una vita dedita ad attività carnali: la sottigliezza d’ingegno consentirebbe loro di scorgere ciò che è retto, ma essi sono oscurati dalla pratica di un agire depravato. Così è cisposo colui a cui la natura ha fatto acuta la sensibilità ma il suo comportamento corrotto la confonde. Ben vien detto loro, per mezzo dell’angelo: Ungi col collirio i tuoi occhi per vedere (Ap. 3, 18). Allora ungiamoci gli occhi col collirio per vedere e aiutiamo con la medicina di un buon operare l’acutezza del nostro intelletto, per conoscere lo splendore della vera luce. Ha l’albugine nell’occhio colui al quale l’accecamento, prodotto dalla sua presunzione di sapienza e di giustizia, non permette di vedere la luce della verità. Infatti, se la pupilla dell’occhio è nera, vede, ma se porta una macchia bianca, non vede nulla. Poiché è chiaro che, se l’uomo nella sua meditazione si riconosce stolto e peccatore, giunge all’esperienza della chiarezza interiore. Se invece egli si attribuisce la candida lucentezza della sapienza e della giustizia, si esclude da sé dalla conoscenza della luce divina; e tanto meno riesce a penetrare la chiarezza della vera luce, quanto più per la sua presunzione si esalta ai propri occhi. Come è detto di certuni: Dicendo di essere sapienti sono divenuti stolti (Rom. 1, 22). È poi affetto da scabbia persistente colui che è dominato da una incessante richiesta della carne. Infatti, nella scabbia è come se l’ardore delle viscere affiorasse sulla pelle, e con essa giustamente si designa la lussuria poiché se la tentazione del cuore si affretta a esprimersi negli atti, è appunto un ardore intimo che prorompe come scabbia della pelle, e ormai esteriormente copre il corpo di piaghe; poiché il piacere che non si sa reprimere nel pensiero, domina poi anche nell’azione. E Paolo si preoccupava di come togliere il prurito dalla pelle quando diceva: Non vi colga alcuna tentazione se non umana (Cor. 10, 13); come a dire: è certamente umano che il cuore sopporti una tentazione, ma è demoniaco, nella lotta con la tentazione, lasciarsi vincere da essa mettendola in opera. Similmente è come chi ha l’erpete nel corpo chiunque ha l’animo devastato dall’avidità, che se non è contenuta nelle piccole cose è inevitabile che si espanda oltre misura. L’erpete in effetti ricopre il corpo in modo indolore e, senza alcun fastidio di colui che ne è colpito, si ingrandisce deturpando il decoro delle membra; allo stesso modo l’avidità, mentre dà quasi l’impressione di procurare piacere a colui che ne è preso, di fatto gli piaga l’anima e mentre gli rappresenta al pensiero quanto può ancora giungere a possedere, lo accende alla discordia senza provocargli però dolore alla ferita, perché promette, all’animo che arde per essi, abbondanza di beni derivanti dalla colpa stessa. Ma il decoro deturpato delle membra significa che la bellezza delle altre virtù è corrotta a causa dell’avidità, e come l’erpete devasta tutto il corpo, così l’avidità distrugge l’animo con tutti gli altri vizi, secondo l’insegnamento di Paolo che dice: La cupidigia è radice di tutti i mali (cf. 1 Tim. 6, 10). E il malato di ernia è chi non pratica il vizio e tuttavia ne ha la mente gravata dal pensiero continuo e smodato; e se di fatto non è trascinato fino all’atto del peccato, tuttavia il suo animo gode del piacere della lussuria senza alcuno stimolo a resistergli. Si ha, come è noto, la malattia dell’ernia quando l’umore viscerale scende nelle parti virili che si gonfiano in modo certo molesto e indecoroso. Pertanto, con malato d’ernia, si intende colui che trascorrendo alla lascivia con ogni suo pensiero, porta nel cuore un peso vergognoso, e quantunque non esprima nell’atto questa depravazione, non riesce però a strapparsene con la mente; e non è capace di innalzarsi decisamente alla pratica delle buone opere perché è gravato di nascosto da questo peso turpe. Perciò, a chiunque sia gravato di qualcuno di questi vizi è proibito offrire pani al Signore, perché non possa in alcun modo sciogliere i peccati degli altri lui che è ancora preda dei propri. Dunque, poiché abbiamo indicato in breve in qual modo uno può accostarsi degnamente al magistero pastorale, e come lo debba temere chi ne è indegno, ora intendiamo mostrare in che modo, colui che vi sia pervenuto in modo degno, debba vivere in esso.

 

 

 

PARTE SECONDA

 

LA VITA DEL PASTORE

 

 

1 — Come si deve mostrare nell’esercizio del governo delle anime colui che vi sia giunto legittimamente

 

Il comportamento del presule deve essere di tanto superiore a quello del popolo, quanto la vita del pastore differisce, ordinariamente, da quella del gregge. Infatti è opportuno che egli si dia cura di misurare con sollecitudine quale necessità lo costringa ad una rigorosa rettitudine, perché è per lui che il popolo è chiamato gregge. Bisogna allora che egli sia puro nel pensiero, esemplare nell’agire, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola; sia vicino a ciascuno con la sua compassione e sia, più di tutti, dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore. Ma ora vogliamo riprendere in una trattazione più estesa queste qualità che abbiamo ristrette brevemente nell’enunciazione.

 

2 — La guida delle anime sia pura nel pensiero

 

La guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna immondezza contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia in grado di lavare anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità; perché bisogna che abbia cura di essere pulita la mano che si adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più sporco ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per mezzo del profeta: Purificatevi voi, che portate i vasi del Signore (Is. 52, 12). Infatti portano i vasi del Signore coloro che si assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la fedeltà della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca, legato con nastri, il razionale del giudizio (cf. Es. 28, 15), affinché il cuore del sacerdote non sia posseduto da pensieri oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla sapienza dello spirito: e non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che, stabilito come esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità della vita, quanta sapienza abbia nel cuore. E si ha cura di aggiungere che in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi; infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa meditare senza interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote procede in modo irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto, considera incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non oltrepassare il limite di un agire ordinato. Ed è anche appropriato il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il modo; e non cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore, e porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti al Signore, sempre (Es. 28, 30). Per il sacerdote, portare il giudizio dei figli di Israele sul petto davanti al Signore, significa trattare le cause dei sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice interiore, perché ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa come rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca l’ardore della correzione. E quando si mostra pieno di zelo contro i vizi altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia nascosta non contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi un’ira precipitosa. Ma considerando il sacro terrore che si deve a colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice, non si devono governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo oscurino sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di cose mondane. Tutte queste tentazioni non possono non assalire l’anima di chi governa, ma è necessario affrettarsi a lottare contro di esse per vincerle affinché, per il fatto che l’anima tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la sottometta con la mollezza del piacere e non la uccida con la spada del consenso.

 

3 — La guida delle anime sia sempre esemplare nel suo agire

 

La guida delle anime sia esemplare nel suo agire per potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il gregge che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con l’aiuto dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò è detto per mezzo del profeta: Sali su un monte eccelso, tu che evangelizzi Sion (Is. 40, 9). Cioè, chi pratica la divina predicazione deve mostrare che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi verso il meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli grida le verità celesti. Per questo, per la legge divina, nel sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra separata dal resto (cf. Es. 29, 22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli superi per le virtù della sua vita anche i sudditi che operano il bene come è superiore a loro, per la dignità dell’Ordine. A lui, poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte tenera del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal sacrificio impari ad immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non deve solamente meditare retti pensieri nel suo petto, ma invitare quanti lo osservano ad azioni elevate, indicate dalle spalle: non aspiri alla prosperità della vita presente, non tema le avversità, disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di terrore, ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al conforto della dolcezza interiore. E per questo la parola divina ordina pure che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo omerale (cf. Es. 29, 5), perché egli sia sempre difeso dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la prosperità affinché, secondo la parola di Paolo, avanzando con le armi della giustizia a destra e a sinistra (cf. Cor. 6, 7) e indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori, non pieghi né da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.

Non lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità, nessuna lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito, egli possa mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue spalle. Ed è anche giustamente prescritto che il velo omerale sia d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto tinto due volte e di bisso ritorto (cf. Es. 28, 8), per dimostrare di quante virtù debba risplendere il sacerdote. Ora, nell’abito del sacerdote, soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare principalmente una intelligenza sapiente. Ad esso si aggiunge il violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma si innalzi all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre si lascia prendere incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte, resti privo proprio dell’intelligenza della verità. All’oro e al violaceo si mescola pure la porpora, per indicare cioè che il cuore sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve reprimere anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi suoi costumi, l’abito del regno celeste. Di questa nobiltà dello spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale (1 Pt. 2, 9). E anche riguardo a questo potere di sottomettere i vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni che dice: Ma a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio (Gv. 1, 12). Ed è considerando la dignità di questa potenza che il salmista dice: Per me sono stati molto onorati i tuoi amici, o Dio, quanto è stato rafforzato il loro principato (Sal. 138, 17).

Poiché è certo che l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze principalmente quando, all’esterno, essi sono visibilmente sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo e alla porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. Pertanto, colui che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. Resta ancora però, senza dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza. Perciò si aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di un corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo omerale perché la castità è portata al candore perfetto della purezza quando la carne si affatica nell’astinenza. E quando, tra le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo omerale.

 

4 — La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio, utile con la sua parola

 

La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso, guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv. 10, 13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo del lupo. Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is. 56, 10). Per questo ancora, si lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez. 13, 5). Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio? Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al popolo che pecca: I tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano la tua iniquità per spingerti alla penitenza (Lam. 2, 14). È noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha compiuta ignora.

Perciò Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di confutare i contraddittori (Tit. 1, 9). Perciò viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca, perché è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7).

Perciò per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non cessare, leva la tua voce come una tromba (Is. 58, 1). E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido. Se dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti. Perciò viene ordinato a Mosè che il sommo sacerdote entrando nel tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. È scritto infatti: Perché si oda il suono quando entra e quando esce dal santuario in cospetto del Signore, e non muoia (Es. 28, 35). Così il sacerdote, che entra o che esce, muore se da lui non si ode suono, poiché attira su di sé l’ira del Giudice occulto se cammina senza il suono della predicazione. Inoltre, quei campanelli sono descritti come opportunamente inseriti nelle sue vesti, perché le vesti del sacerdote non dobbiamo intenderle altrimenti che come le sue buone opere, per testimonianza del profeta che dice: I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia (Sal. 131, 9). Pertanto, i campanelli sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita. Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità. Perciò infatti la Verità dice: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc. 9, 49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno, ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rom. 12, 3). Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Es. 28, 34). E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede? Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi discepoli: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi, come se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a conservare con attenta considerazione l’unità della fede. Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di servire utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita. Per cui è ben detto per mezzo di Mosè: L’uomo che soffre di flusso di seme, sarà immondo (Lev. 15, 2). Di fatto, la qualità del discorso udito è seme di quel pensiero che gli terrà dietro nella mente degli ascoltatori, poiché la parola, ricevuta attraverso l’orecchio, nella mente genera il pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo, il bravo predicatore è chiamato seminatore di parole (cf. Atti, 17, 18). Dunque, chi patisce flusso di seme è dichiarato impuro, perché chi è soggetto a una eccessiva loquacità si macchia con quel seme da cui — se l’avesse effuso in modo ordinato — avrebbe potuto generare nei cuori degli ascoltatori la prole del retto pensiero; ma se lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi emette il seme, non al fine di generare ma per l’impurità. Perciò anche Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regno, predica la parola, insisti opportunamente, importunamente (2 Tim. 4, 1-2); prima di dire importunamente premise opportunamente, perché è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in modo opportuno.

 

5 — La guida delle anime sia vicino ciascuno con la compassione sia più di tutti dedito alla contemplazione

 

La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda con desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto. Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.), e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa della fornicazione, ciascun uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio marito. Il marito dia alla moglie quanto le deve; e similmente, la moglie al marito (1 Cor. 7, 2). E poco dopo: Non privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e d’accordo, per attendere alla preghiera, e di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1 Cor. 7, 5). Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole negli altri. Perciò infatti dice: Chi è debole e io non sono debole? Chi patisce scandalo e io non brucio? (2 Cor. 11, 29). E perciò ancora dice: Con i Giudei sono divenuto come Giudeo (1 Cor. 9, 20). Evidentemente mostrava ciò non con la perdita della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia, così che trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente voluto fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se usciamo di mente è per Dio; se siamo sobri è per voi (2 Cor. 5, 13), poiché nella contemplazione egli sapeva salire oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare se stesso per condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12): a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Ugualmente Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure, quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e davanti all’arca del testamento consulta il Signore: certo per offrire un esempio alle guide delle anime perché, quando nelle decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza, ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore, se riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio, ricercheranno nel loro intimo le pagine della parola sacra. Perciò la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione della nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città opera i miracoli (cf. Lc. 6, 12): evidentemente per appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme. Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità tanto più potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le lacrime della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli. Per questo davanti alla porta del tempio c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la purificazione delle mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali sporgono con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re 7, 23-25). Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine dei Pastori, dei quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la Scrittura dice: Non mettere la museruola al bue che trebbia (1 Cor. 9, 9)? Di essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che li attende nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia quando essi con la loro paziente accondiscendenza dispongono il prossimo alla confessione purificatrice è come se portassero su di sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché chiunque si sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che il Pastore nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne diviene vittima egli stesso come senza dubbio resta inquinata quella medesima acqua del bacino, nella quale si purifica la moltitudine del popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro che si lavano, l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si deve temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più facilmente quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica della tentazione altrui.

 

6 — La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene; e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori

 

La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; così non si anteponga in nulla ai buoni, e quando la colpa dei malvagi lo esige, non esiti a riconoscere il potere del suo primato. In tal modo, lasciando da parte la dignità che riveste, si consideri uguale ai sudditi che vivono operando il bene, e verso i malvagi non tema di affermare i diritti della verità e della giustizia. Infatti, come ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia, lib. 21, cap. 10), è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura ma, variando l’ordine dei meriti, la colpa pospone gli uni agli altri. Però, anche la diversità che procede dal peccato è regolata dalla disposizione divina affinché, siccome non ogni uomo è in grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci siano alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che presiedono, in se stessi non debbono considerare il potere del proprio grado ma l’eguaglianza secondo natura; non godano dunque di governare sugli uomini ma di giovare loro. I nostri antichi padri, del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini; e quando il Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra, subito aggiunse: E terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra (Gen. 9, 1). Evidentemente, se viene prescritto che debba esserci questo terrore e tremore sugli animali della terra, viene senz’altro proibito che esso possa esercitarsi sugli uomini. L’uomo è stato preposto per natura agli animali bruti, non agli altri uomini; e perciò gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo devono temere; quindi voler essere temuto da un eguale corrisponde ad una esaltazione contro natura. E tuttavia è necessario che le guide delle anime incutano timore ai sudditi quando esse si accorgono che quelli non hanno alcun timore di Dio, affinché coloro che non hanno paura dei giudizi divini temano di peccare almeno per una paura umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri non insuperbiscono nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano la propria gloria ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per sé da coloro che conducono una vita malvagia è come se governassero animali e non uomini, perché è per quella parte di loro con cui si comportano da bestie che i sudditi debbono giacere persino prostrati dalla paura. Ma spesso chi guida delle anime, per il fatto stesso di essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di autorità per contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo più sono disposti a lodarlo anche quando dovrebbero disapprovarlo; allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da tutto ciò che gli viene elargito dal basso. Così, circondato all’esterno da grandissimo favore, si svuota interiormente della verità e dimentico della sua realtà profonda si disperde compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale quale è la sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo l’ordine naturale e si immagina di avere superato, anche per i meriti della propria vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo di un potere datogli in sorte. Si giudica più sapiente di tutti coloro dei quali si vede più potente. Nella stima che ha di se stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di guardare agli altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione di una, uguale natura. E così diviene simile a colui di cui è scritto: Vede ogni sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25), a colui cioè che aspirando a un luogo più elevato e disprezzando la comune vita degli angeli dice: Porrò la mia dimora presso l’Aquilone e sarò simile all’Altissimo (cf. Is. 14, 13-14). Pertanto egli scoprì dentro di sé, per mirabile giudizio divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era innalzato al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente Saul, dopo avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di superbia per l’altezza del suo potere; per l’umiltà fu scelto ma fu riprovato per la superbia, secondo la testimonianza del Signore che dice: Non ti costituii forse capo tra le tribù di Israele quando eri piccolo ai tuoi occhi? (1 Sam. 15, 17). Prima si era visto piccolo coi suoi occhi ma poi, sostenuto dalla sua potenza mondana, non si vedeva più piccolo. Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri poiché aveva un potere superiore a tutti, si stimava più grande di tutti. Ma come — mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso fu grande davanti a Dio, quando appari grande davanti a se stesso divenne piccolo davanti a Dio. Dunque accade spesso che l’animo si gonfia perché è grande il numero di coloro che gli sono soggetti e, adulato dalla sola altezza della sua potenza, esso si corrompe effondendosi nella superbia. Ma questa potenza, evidentemente, la regge bene chi sa tenerla in pugno e insieme combatterla; la regge bene chi sa, con essa, erigersi sopra le colpe, e con essa sa essere uguale agli altri. Infatti la mente umana spesso si esalta anche quando non si sostiene su alcun potere; quanto più si leverà in alto se le si aggiunge anche il potere. Però il potere può essere ben esercitato da chi sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere le tentazioni che esso ispira e, pur possedendolo, sa vedersi uguale agli altri e insieme sa anteporsi ai peccatori per lo zelo della punizione. E se consideriamo l’esempio del primo Pastore, possiamo riconoscere più pienamente in che cosa consiste questa discrezione. Infatti Pietro che pure teneva il primato nella Santa Chiesa, per volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una venerazione fuor di misura da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale gli si era umilmente prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui gli disse: Alzati, non farlo, sono un uomo anch’io (Atti, 10, 26). Quando però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf. Atti, 5, 5), mostrò subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente sugli altri. Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la somma autorità nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle riconoscere di fronte a fratelli buoni e attivi nel bene, per un onore che gli veniva tributato con trasporto. E in questo caso, la santità delle opere meritò di essere accolta in una comunione tra uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò l’esercizio del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi nel bene quando diceva: Non facciamo da padroni della vostra fede, ma siamo cooperatori della vostra gioia (Cor. 1, 23). E aggiunge subito: infatti voi state saldi nella fede (ibid.), come per spiegare quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo da padroni sulla vostra fede, perché voi state saldi nella fede; infatti noi siamo uguali a voi in ciò in cui riconosciamo che restate fermi. Ed era come non considerarsi preposto ai fratelli quando diceva: Siamo divenuti un bambino piccolo in mezzo a voi (1 Tess. 2, 7); e ancora: E noi vostri servi per Cristo (Cor. 4, 5). Ma quando scopri la colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si ricordò di essere maestro, dicendo: Che cosa volete? Devo venire da voi con la verga? (Cor. 4, 21). Colui che presiede regge bene il sommo potere quando domina sui vizi piuttosto che sui fratelli; ma quando i superiori correggono i sudditi peccatori è necessario che in virtù del loro potere attendano con sollecitudine a punire le colpe, per il dovere cui sono tenuti di conservare la disciplina. Tuttavia, per conservare l’umiltà, si riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi fratelli che vengono corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna che nella nostra tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le medesime persone che correggiamo. Infatti i loro vizi vengono puniti per mezzo nostro col rigore della disciplina, mentre in ciò che noi stessi commettiamo di male non siamo scalfiti neppure da una parola di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque tanto più obbligati presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso gli uomini. D’altra parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i sudditi davanti al giudizio divino in quanto Egli non lascia impunite qui le loro colpe. Così bisogna conservare l’umiltà nel cuore e la disciplina nelle opere. Ma detto questo, bisogna anche guardare saggiamente che le esigenze del governo non restino vanificate da una custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa più del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime restino ferme a quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista dell’utilità degli altri e conservino nell’intimo quella disposizione che le fa temere grandemente quanto alla stima di sé. Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di sobria spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono temere dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della loro umiltà. Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare all’esterno la loro potenza tanto più non cessino di provvedere a deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando che il pensiero ne sia tutto preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e non sia più in grado di tenere sottomessa quella potenza, alla quale si sottomette per libidine di dominio. Infatti, affinché l’animo del superiore non venga rapito dal compiacimento del suo potere fino all’esaltazione, un sapiente ha giustamente detto: Ti hanno stabilito guida, non ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro (Sir. 32, 1). Perciò anche Pietro dice: Non come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma fatti a forma del gregge (1 Pt. 5, 3). Perciò la Verità stessa invitandoci ai più alti meriti della virtù dice: Sapete che i capi delle nazioni le dominano e i grandi esercitano il potere su di loro. Non così sarà tra voi, ma chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e chi vorrà essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come il Figlio dell’uomo non è venuto a essere servito ma a servire (Mt. 20, 25). Di qui il senso delle parole che si riferiscono a quel servo esaltato per il potere ricevuto, ma poi lo attenderanno i supplizi: Che se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire; e incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli ubriachi; verrà il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti (Mt. 24, 48 ss.). Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col pretesto della disciplina muta il ministero del governo in esercizio di dominio. E tuttavia spesso si pecca gravemente se nei confronti dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza che la disciplina. Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire i figli peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna presso il severo Giudice (cf. 1 Sam. 4, 17-18); e perciò egli si sente dire dalla parola divina: Hai onorato i tuoi figli pia di me (1 Sam. 2, 29). E Dio rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non avete fasciato ciò che si era fratturato, non avete ricondotto ciò che era rigettato (Ez. 34, 4). Si riconduce chi è rigettato quando col vigore della sollecitudine pastorale si richiama alla condizione di giustizia chiunque è caduto nella colpa. E la fasciatura stringe la frattura quando la disciplina reprime la colpa, affinché la piaga non degeneri fino alla morte se non la stringe la severità del castigo. Ma spesso la frattura si fa più grave se viene fasciata senza precauzione e la ferita duole maggiormente se le bende la stringono in modo eccessivo. Perciò è necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il dovere della disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà. Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai sudditi madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva. Infatti, come abbiamo già detto nei Libri Morali (Moralia, lib. 20, cap. 8), sia la disciplina che la misericordia vengono meno se si esercita l’una senza l’altra; invece, nelle guide delle anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che provvede secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà. Ed è perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo semivivo viene condotto all’albergo dalla sollecitudine del Samaritano (cf. Lc. 10, 34) e gli vengono somministrati vino e olio nelle sue ferite, chiaramente perché, per esse, egli sperimenti la pungente disinfezione del vino e il conforto dell’olio che lenisce. È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio di curare le ferite somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore e attraverso l’olio la tenerezza della pietà, giacché col vino si purifica il putridume e con l’olio si nutre e si ristora per la guarigione. Così, bisogna mescolare la dolcezza con la severità; bisogna fare come un giusto contemperamento dell’una e dell’altra affinché i sudditi non restino esasperati da troppa asprezza e neppure infiacchiti da una eccessiva benevolenza. Ciò è ben rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la parola di Paolo — nella quale si trovano insieme alle tavole la verga e la manna (cf. Ebr. 9, 4); cioè, se nell’anima della buona guida spirituale, insieme alla scienza della Sacra Scrittura c’è la verga della correzione, ci sia anche la manna della dolcezza. Perciò dice David: La tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato (Sal. 22, 4), perché la verga ci colpisce e il bastone ci sostiene e se c’è la correzione della verga che ferisce ci sia anche la consolazione del bastone che sostiene. E così ci sia l’amore, non tale però che renda molli; ci sia il rigore non tale però che esasperi; ci sia lo zelo che tuttavia non infierisce oltre misura; ci sia la pietà che risparmia ma non più di quanto conviene; affinché nell’esercizio del governo, conciliando giustizia e clemenza, il superiore muova il cuore dei sudditi col timore ma usi con loro dolcezza, e con questa dolcezza li costringa al rispetto che il timore ispira.

 

7 — La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore

 

La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore, affinché, dedito alle attività esterne non venga meno alla vita spirituale oppure occupato solo in essa manchi di rendere quel che deve al prossimo nell’attività esterna. Accade spesso infatti che alcuni, dimentichi di essere stati preposti ai fratelli per le loro anime, si dedicano con ogni sforzo del cuore al servizio degli interessi secolari, e l’essere presenti a questi li fa esultare di gioia, e anche quando sono assenti anelano ad essi, giorno e notte, nell’agitazione di un pensiero inquieto. Quando poi, forse per una interruzione occasionale, sono quieti da essi, questa stessa quiete li affatica ancor peggio; infatti giudicano un piacere essere oppressi dall’attività e considerano una fatica non faticare in occupazioni terrestri. Così accade che, mentre godono di essere incalzati da inquietudini mondane, ignorano i beni interiori che avrebbero dovuto insegnare agli altri. Per cui sicuramente anche la vita dei sudditi intorpidisce poiché, mentre essi aspirano al progresso spirituale, inciampano contro l’esempio del superiore come contro un ostacolo che si trova lungo il cammino. Infatti quando la testa è malata anche le membra perdono vigore, e nella ricerca del nemico non serve che l’esercito segua con prestezza se la stessa guida del cammino perde la strada. Nessuna esortazione innalza gli animi dei sudditi e nessun rimprovero è castigo efficace contro le loro colpe, poiché sebbene colui che è preposto alle anime eserciti l’ufficio di giudice terreno, la cura del Pastore non è rivolta alla custodia del gregge e i sudditi non possono cogliere la luce della verità perché, quando interessi terreni occupano i sensi del Pastore, la polvere spinta dal vento della tentazione acceca gli occhi della Chiesa. Perciò il Redentore del genere umano, volendoci trattenere dalla ingordigia del ventre, dopo aver detto: Fate attenzione che i vostri cuori non siano gravati dalla gozzoviglia e dall’ubriachezza, subito aggiunse: o nelle preoccupazioni di questa vita; e poi ancora introduce il timore proseguendo con forza: che non vi sopravvenga improvviso quel giorno (Lc. 21, 34). E di quale venuta si tratti lo manifesta dicendo: Verrà infatti come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra (Lc. 21, 35). Quindi ancora dice: Nessuno può servire a due padroni (Lc. 16, 13). Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col mondo dichiarando o piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno che militi per Dio si immischi in affari secolari per potere piacere a colui che l’ha arruolato (2 Tim. 2, 4). Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere liberi da altri interessi e mostra loro come provvedere quando si tratti di cercare consigli, dicendo: Pertanto, se avrete delle liti riguardo a interessi secolari stabilite come giudici persone da niente nella Chiesa (Cor. 6, 4), perché all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non dotati di alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le necessità esterne. Perciò Mosè, che parla con Dio (cf. Es. 18, 17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno straniero, perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del popolo, e riceve subito il consiglio di stabilire altri al posto suo a dirimere le liti, per potere lui stesso più liberamente conoscere i misteri spirituali e insegnarli al popolo. Pertanto tocca ai sudditi svolgere le attività di grado inferiore, e alle guide delle anime meditare le verità somme affinché il darsi cura della polvere non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino Infatti, tutti coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun dubbio è il capo che deve provvedere dall’alto a che i piedi siano in grado di percorrere la via diritta e non si intorpidiscano nel procedere del viaggio, quando il corpo si incurva e il capo si piega verso terra. Ma con quale disposizione interiore colui che è preposto alle anime esercita sugli altri la dignità pastorale se lui stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe rimproverare negli altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della giusta retribuzione, minaccia per mezzo del profeta dicendo: E come il popolo così sarà il sacerdote (Os. 4, 9). E il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica un ufficio spirituale compie esattamente le stesse cose di coloro che vengono ancora designati dai loro interessi carnali. Vedendo questo, il profeta Geremia piange, con grande dolore ispirato dalla sua carità, e lo raffigura nella distruzione del tempio dicendo: Come si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida lucentezza, le pietre del santuario sono state disperse in capo a tutte le piazze (Lam. 4, 1). Che cosa si intende infatti con oro, che è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della santità? Che cosa si esprime con splendida lucentezza se non la riverenza che ispira la dignità religiosa amabile a tutti? Che cosa significano le pietre del santuario, se non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col nome di piazze, se non la larghezza della vita presente? Infatti nella lingua greca la larghezza è detta platos ed è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate così. Ma la Verità in persona dice: Larga e spaziosa è la via che porta alla perdizione (Mt. 7, 13). L’oro pertanto annerisce quando una vita che deve essere santa si contamina con attività terrestri. La splendida lucentezza si muta quando diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia, lascia il costume di una vita santa per immischiarsi in attività terrestri, la riverenza che egli ispirava, divenuta oggetto di disgusto, impallidisce agli occhi degli uomini come la vivezza di un colore alterato. E anche le pietre del santuario vengono sparse nelle piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa avrebbero dovuto attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari mondani. In effetti, le pietre del santuario erano fatte per comparire nell’interno del Santo dei Santi sulla veste del sommo sacerdote; ma quando i ministri della religione non sanno esigere, coi meriti della loro condotta di vita, l’onore dovuto dai sudditi al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono ornamento del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri, sono tutti presi dagli affari terreni. E occorre notare che non dice che sono sparsi nelle piazze, ma in capo alle piazze, poiché mentre si occupano delle cose del mondo aspirano ad apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie, per l’allettamento del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che viene attribuito alla santità. Del resto possiamo anche intendere senza difficoltà che le pietre del santuario siano invece quelle medesime con cui il santuario era stato costruito; in questo caso quelle pietre giacciono in capo alle piazze quando gli uomini insigniti degli ordini sacri si pongono con desiderio al servizio di affari mondani mentre prima sembrava che la loro gloria consistesse nel servizio delle cose sante. Così, gli affari mondani si devono assumere talvolta per esigenze di carità, ma non si devono mai ricercare con passione, per evitare che esse, gravando l’animo di chi le predilige, lo trascinino avvinto al proprio peso, dalle regioni celesti giù nel profondo. Ma si dà anche il caso che alcuni assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono in nulla le necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è necessario alla vita presente. Infatti la parola della dottrina non penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la raccomanda al suo cuore. E invece, il seme della parola germina facilmente quando la pietà di chi predica lo irriga nel petto di colui che ascolta. Perciò è necessario che la guida delle anime possa infondere le verità spirituali e anche provvedere alle necessità esteriori con una attenzione del pensiero che però non gli danneggi. Così, i Pastori siano ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi, purché in questo non tralascino di provvedere pure alla loro vita esteriore. Infatti, come abbiamo detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda alla predicazione che dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura dell’aiuto esterno. Perciò il primo Pastore ammonisce con sollecitudine dicendo: Scongiuro gli anziani che sono tra voi, io anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in futuro, pascete il gregge di Dio che è tra voi. Ed egli stesso spiega a questo punto quale pascolo intenda, se del cuore o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo non per costrizione ma spontaneamente, secondo Dio, non per turpe guadagno ma volontariamente (1 Pt. 5, 1). E certo, con queste parole, previene piamente i Pastori perché, mentre soddisfano l’indigenza dei sudditi, non uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e se per loro mezzo il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro stessi poi non rimangano digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa sollecitudine dei Pastori dicendo: Chi non ha cura dei suoi, soprattutto dei familiari, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1 Tim. 5, 8). E così, tra queste cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile attenzione che mentre si trattano affari esterni non se ne venga sommersi, privati dell’intimo fervore; poiché spesso, come abbiamo già detto, le guide delle anime piegano improvvisamente il loro cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda l’amore nel loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere nell’oblio, col pretesto di doversi occupare delle anime. Pertanto, la cura che pure si deve avere nei confronti dei bisogni materiali dei sudditi deve essere necessariamente contenuta entro certi limiti. Perciò si dice bene in Ezechiele: I sacerdoti non si radano il capo, né si tacciano crescere i capelli, ma li accorcino tagliandoli (Ez. 44, 20). Infatti sono giustamente chiamati sacerdoti coloro che presiedono ai fedeli per offrire loro una guida sacra. I capelli del capo sono i pensieri della mente volti a cure esteriori e finché nascono insensibilmente sul capo designano le cure della vita presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da una sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno. Dunque, poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto delle sollecitudini esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad esse con eccessiva passione, giustamente si proibisce ai sacerdoti di radersi il capo e di farsi crescere i capelli, affinché non taglino radicalmente da sé i pensieri che riguardano la vita materiale dei sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo da farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino i capelli tagliandoli, evidentemente nel senso che se pure, per quel che è inevitabile, possono nascere preoccupazioni di cure materiali, tuttavia esse devono essere tagliate ben presto perché non crescano smodatamente. Pertanto, quando la vita materiale viene protetta attraverso la pratica di una previdenza esteriore — e in più non è ostacolata dalla tensione spirituale, quando questa è illuminata — è allora che i capelli sul capo del sacerdote vengono conservati perché coprano la pelle, ma vengono tagliati perché non chiudano gli occhi.

 

8 — La guida delle anime, col suo zelo, non abbia di mira il favore degli uomini; e tuttavia sia attento a ciò che ad essi deve piacere.

 

Oltre a ciò, è pure necessario che la guida delle anime esplichi una vigile cura perché non la spinga la bramosia di piacere agli uomini, e quando si dedica assiduamente ad approfondire le realtà interiori o distribuisce provvidamente i beni esteriori, non cerchi di più l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle sue buone azioni sembra, estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo renda estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui che, attraverso le opere giuste che compie, brama di essere amato dalla Chiesa in luogo di Lui; ed è così reo di pensiero adultero, come il servo per mezzo del quale lo sposo manda doni alla sposa ed egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando l’amor proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina a una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore. Il suo spirito è portato alla mollezza dall’amor proprio quando, pur vedendo i sudditi peccare, non trova opportuno castigarli per non indebolire il loro amore verso di lui, e non di rado accarezza con le adulazioni quegli errori dei sudditi che avrebbe dovuto rimproverare. Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per teste di ogni età, per rapire anime (Ez. 13, 18). Porre cuscinetti sotto ogni gomito è confortare con blanda adulazione le anime che vengono meno alla propria rettitudine e si ripiegano nei piaceri di questo mondo. Ed è come accogliere su un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo di uno che giace, quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e gli si offrono le mollezze del favore, così che chi non è colpito da alcuna aspra contraddizione giaccia mollemente nell’errore. E le guide delle anime che amano sé stesse, senza alcun dubbio offrono di queste cose a coloro che temono gli possano nuocere nella loro ricerca della gloria mondana. Infatti esse opprimono con l’asprezza di un rimprovero sempre duro e violento quelli che vedono non avere alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai benignamente ma, dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza del loro potere. La parola di Dio li rimprovera giustamente dicendo per mezzo del profeta: Voi comandavate su di loro con austerità e con prepotenza (Ez. 34, 4). Infatti, amando più se stessi che il loro Creatore, si ergono contro i sudditi con tracotanza e non guardano a quello che hanno dovere di fare ma a ciò per cui hanno la forza; senza alcun timore del giudizio che seguirà, si gloriano sfrontatamente del loro potere temporale purché possano compiere con ogni licenza anche cose illecite e nessuno dei sudditi li contraddica. Pertanto, colui che desidera vivere perversamente, e che gli altri tuttavia ne tacciano, testimonia contro se stesso di desiderare che si ami lui più della verità, che non vuole venga difesa contro di lui. E non esiste certamente nessuno che viva in questo modo e, almeno entro un certo ambito, non pecchi. Vuole invece che si ami la verità più di lui, chi non vuol essere risparmiato da nessuno ai danni della verità. Perciò infatti Pietro riceve volentieri il rimprovero di Paolo (cf. Gal. 2, 11 ss.); perciò David ascoltò umilmente la correzione di un suddito (cf. 2 Sam. 11, 7 ss.); poiché le buone guide di anime non sanno amare se stessi di un amore particolare e considerano un umile ossequio, da parte dei sudditi, una parola ispirata da una libera purezza d’animo. Ma è soprattutto necessario che la cura del governo delle anime sia temperata da tanta sapiente moderazione che i sudditi possano esprimere con libera parola quanto hanno rettamente avvertito, anche se poi questa libertà non deve essere tale da erompere in superbia; perché non accada che se si concede ai sudditi una eccessiva libertà di parola, essi abbiano poi a perdere l’umiltà della vita. Bisogna pure sapere che è opportuno che le buone guide delle anime desiderino di piacere agli uomini, ma solo per attirare il prossimo all’amore della verità attraverso la dolcezza della stima che esse ispirano; non per desiderare di essere amate, ma per fare dell’amore di cui sono oggetto come una via attraverso la quale introdurre all’amore del Creatore i cuori di coloro che ascoltano. Poiché è difficile che, per quanto dica la verità, sia ascoltato volentieri, un predicatore che non è amato. Dunque, chi presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato; e tuttavia non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato come chi, nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a colui che per via del suo ufficio sembra servire. Ciò suggerisce bene Paolo quando ci manifesta gli aspetti nascosti della sua dedizione, dicendo: Come anch’io piaccio a tutti in ogni cosa (Cor. 10, 33). E tuttavia dice di nuovo altrove: Se piacessi ancora agli uomini non sarei servo di Cristo (Gal. 1, 10). Dunque, Paolo piace e non piace perché, nel suo desiderio di piacere, non cerca di piacere lui, ma che agli uomini piaccia la verità attraverso di lui.

 

9 — La guida delle anime deve essere attenta nella consapevolezza che non di rado i vizi si travestono da virtù

 

La guida delle anime deve anche sapere che non di rado i vizi si travestono da virtù Infatti spesso l’avarizia si nasconde sotto il nome di parsimonia e, al contrario, la prodigalità sotto l’appellativo di generosità. Spesso una accondiscendenza senza discrezione è considerata pietà, e un’ira sfrenata zelo virtuoso; spesso un’azione precipitosa passa per rapidità efficiente e la lentezza dell’agire per prudenza deliberata. Perciò è necessario che la guida delle anime discerna con vigile cura virtù da vizi, perché l’avarizia non si impadronisca del suo cuore ed egli si compiaccia di apparire parco nella sua amministrazione; oppure si vanti, magari con l’aria di commiserare la propria liberalità, quando c’è stato qualche sperpero per la sua prodigalità; o trascini all’eterno supplizio i sudditi rimettendo il peccato che avrebbe dovuto colpire; o colpendo con crudeltà il peccato, pecchi egli stesso più gravemente; o, tratti con leggerezza, con una fretta troppo anticipata, ciò che si sarebbe potuto trattare correttamente e con ponderazione o, differendo il compimento di una buona azione, ne converta in peggio il risultato.

 

10 — Quale debba essere la discrezione della guida delle anime nel correggere e nel dissimulare; nello zelo e nella mansuetudine

 

Bisogna pure sapere che occorre talvolta dissimulare con prudenza i vizi dei sudditi ma che pur dissimulandoli bisogna mostrare di conoscerli. Talvolta, colpe manifeste bisognerà tollerarle per un certo tempo, talvolta invece, quando sono nascoste, esaminarle diligentemente; talvolta riprenderle con dolcezza; talvolta al contrario rimproverarle con forza. Alcune in effetti, come abbiamo detto, bisogna dissimularle con prudenza e tuttavia mostrare di conoscerle, affinché il peccatore sapendo di essere noto come tale, e di essere tuttavia sopportato, arrossisca di aumentare quelle colpe che vede tollerate in silenzio nei suoi confronti, e fattosi giudice di se stesso si punisca, lui che la clemente pazienza della sua guida, per parte sua, scusa. È chiaro che con questa dissimulazione il Signore corregge la Giudea, quando dice per mezzo del profeta: Hai mentito e non ti sei ricordata di me né hai meditato in cuor tuo; perché io tacevo quasi come uno che non vede (Is. 57, 11). Dunque dissimulò le colpe e lo fece notare, in quanto tacque contro il peccatore ma non tacque il fatto stesso di avere taciuto. Alcune colpe manifeste, invece, bisogna tollerarle per un certo tempo; finché cioè l’opportunità della situazione non sia tale da consigliare un’aperta correzione. Infatti le ferite operate troppo presto si infiammano maggiormente, e se i medicamenti non vengono graduati in modo conveniente nel tempo, è chiaro che non rendono al medico la loro utilità. Ma quando il superiore deve cercare tempo per infliggere la correzione ai sudditi, è proprio sotto il peso di quelle colpe che si esercita la sua pazienza. Perciò dice bene il salmista: Sul mio dorso hanno fabbricato i peccatori (Sal. 128, 3). Poiché è sul dorso che portiamo i pesi, egli si lamenta che sul suo dorso i peccatori hanno fabbricato, come se dicesse apertamente: Porto addosso come un peso coloro che non posso correggere. Alcune colpe invece, che sono nascoste, vanno esaminate diligentemente perché, se se ne manifestano alcuni segni, la guida delle anime possa scoprire tutto ciò che si nasconde, chiuso, nell’animo dei sudditi e, presentandosi il momento della correzione, possa conoscere dai più piccoli segni di vizio le colpe maggiori. Perciò giustamente viene detto ad Ezechiele: Figlio dell’uomo, fora la parete. E subito il profeta prosegue: E quando ebbi forato la parete mi apparve una porta. E mi disse: Entra e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono qui. Ed entrato vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e di animali abominevoli e tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete (Ez. 8, 8-10). È chiaro che Ezechiele rappresenta le persone dei superiori, e la parete la durezza dei sudditi. E che cosa significa forare la parete se non aprire la durezza del cuore con penetranti indagini? Quando ebbe forato la parete apparve una porta, perché quando la durezza del cuore si spacca cedendo alle attente indagini o alle sapienti correzioni, è come se si mostrasse una porta dalla quale si vedono tutte le profondità dei pensieri in colui che viene ammonito. Per cui è ben detto ciò che segue quel punto: Entra e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono. Ed è uno che entra per vedere delle abominazioni, colui che, andando oltre certi segni che appaiono all’esterno, penetra i cuori dei sudditi in modo che gli risultino chiari tutti i loro pensieri illeciti. E quindi prosegue: Ed entrato vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e animali abominevoli. Nei rettili sono indicati i pensieri del tutto terreni, negli animali i pensieri già un poco sollevati da terra ma ancora alla ricerca di un compenso terreno.

Infatti i rettili aderiscono alla terra con tutto il corpo, mentre gli animali con gran parte del corpo sono sospesi da terra e tuttavia continuano a essere inclinati verso di essa per l’appetito della gola. Così i rettili sono oltre la parete, quando nella mente si rivolgono pensieri che non si innalzano mai dai desideri terreni. E ci sono pure animali oltre la parete, quando pensieri e meditazioni, sia pure giusti e onesti, sono tuttavia ancora asserviti a mire di guadagni e onori temporali: per sé, in effetti, sono già quasi elevati da terra ma si sottomettono ancora alle realtà più basse per la loro ambizione che è paragonabile a un desiderio di gola. Perciò ancora prosegue giustamente: E tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete. In effetti è scritto: E l’avarizia, che è schiavitù agli idoli (Col. 3, 5). Dunque è giusto che dopo gli animali si descrivano gli idoli, poiché sebbene alcuni si drizzino già da terra per l’agire onesto, tuttavia per la loro disonesta ambizione si riadagiano per terra. Ed è ben detto: Erano dipinti, perché, quando gli aspetti delle cose esterne vengono assorbiti interiormente, viene come dipinto nel cuore quello che si pensa e si delibera sulla base di quelle false immagini. Pertanto, occorre sottolineare che prima c’è il foro nella parete, quindi si vede la porta e infine viene manifestata la occulta abominazione. Ciò evidentemente perché in ciascuno si danno prima i segni esterni del peccato, quindi si mostra la porta dell’iniquità manifesta e infine si spalanca ogni male che si nasconde nell’intimo. Alcuni peccati però vanno ripresi con dolcezza; infatti, quando non si pecca per malizia ma solo per ignoranza o per debolezza, è assolutamente necessario che la stessa correzione del peccato sia temperata da grande moderazione: tutti, finché siamo in questa carne mortale, soggiacciamo alla debolezza della nostra natura corrotta, così ciascuno deve apprendere da se stesso come si debba essere misericordiosi nei confronti della debolezza altrui affinché, se si lascia trasportare a pronunciare parole di rimprovero troppo accese contro la debolezza del prossimo, non gli accada di apparire uno che si è dimenticato di sé. Perciò Paolo ammonisce giustamente: Se qualcuno sarà colto in qualche peccato, voi che siete spirituali istruite questo tale in spirito di mansuetudine, considerando te stesso perché anche tu non sia tentato (Gal. 6, 1); come se dicesse apertamente: Quando vedi qualcosa di spiacevole dovuto alla debolezza altrui, pensa a ciò che sei; perché nello zelo del rimprovero lo spirito si moderi, se teme anche per se stesso ciò che rimprovera ad altri. Altri peccati invece si devono rimproverare con forza, affinché chi ha commesso la colpa e non ne conosce l’entità la apprenda dalla bocca di colui che lo rimprovera. E se qualcuno è portato a considerare con leggerezza il male commesso, lo tema molto, al contrario, per la severità di chi glielo rimprovera aspramente. Ed è certamente dovere della guida delle anime mostrare con la predicazione la gloria della patria celeste, manifestare quanto son grandi le tentazioni dell’antico nemico, che si nascondono nel cammino di questa vita, e correggere con zelo grande e severo i peccati dei sudditi che non devono essere tollerati con leggerezza, perché non sia considerato lui stesso reo di tutte le colpe se il suo sdegno non si accende contro quelle. Perciò è ben detto in Ezechiele: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di Gerusalemme. E subito prosegue: E disporrai l’assedio contro di essa, edificherai le opere di difesa, costruirai un terrapieno, e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli arieti. E subito per sua protezione gli viene suggerito: E tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro fra te e la città (Ez. 4, 1-3). E di chi è figura il profeta Ezechiele se non dei maestri? Giacché gli vien detto: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di Gerusalemme. E in realtà i santi dottori si prendono un mattone quanto attirano a sé il cuore di terra degli ascoltatori per istruirli. E pongono davanti a sé quel mattone evidentemente nel senso di custodirlo con tutta la tensione dello spirito. E ricevono l’ordine di disegnare su di esso la città di Gerusalemme, perché predicando a cuori di terra pongono ogni loro cura a dimostrare quale sia la visione della pace celeste. Ma poiché invano si cerca di conoscere la gloria della patria celeste se non si conosce la grandezza delle tentazioni dell’astuto nemico che vi fanno irruzione, si prosegue opportunamente: Disporrai l’assedio contro di essa e edificherai le opere di difesa. E i santi predicatori indubbiamente dispongono un assedio intorno al mattone su cui è disegnata la città di Gerusalemme, quando dimostrano a un cuore terreno ma già in ricerca della patria celeste quanto essa sia soggetta nel tempo di questa vita agli assalti ostili dei vizi. Infatti quando si mostra in qual modo ciascun peccato insidia coloro che avanzano [nel cammino spirituale] è come se dalla voce del predicatore si disponesse un assedio intorno alla città di Gerusalemme. Ma poiché non solo devono risultare chiari gli assalti dei vizi ma anche come ci fortifichi la custodia delle virtù, giustamente si prosegue: Edificherai le opere di difesa. Queste difese, il predicatore santo le edifica quando dimostra quali virtù si oppongono a quei vizi. E poiché quando aumenta la virtù per lo più crescono le guerre della tentazione, si aggiunge giustamente ancora: E costruirai un terrapieno e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli arieti. Infatti costruisce un terrapieno, il predicatore, quando annuncia l’entità della tentazione crescente. Ed erige accampamenti contro Gerusalemme, quando predice le caute e quasi inavvertibili insidie dell’astuto nemico, alla onesta intenzione degli ascoltatori. E pone arieti intorno, quando fa conoscere gli aculei delle tentazioni, che ci circondano da ogni parte in questa vita e sono capaci di perforare il muro delle virtù. Ma quantunque la guida delle anime riesca a suggerire sottilmente tutte queste consapevolezze, se egli non arde di uno spirito di gelosia contro i peccati dei singoli, non si procura assoluzione in eterno; perciò, in quel luogo, ancora giustamente si prosegue: E tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro tra te e la città. Con teglia si intende l’ardore dello spirito, e con ferro la forza del rimprovero. Che cosa infatti fa ardere e tormenta il maestro con più acutezza che lo zelo di Dio? E Paolo, che bruciava per l’ardore di questa teglia diceva: Chi è infermo e io non sono infermo? Chi è scandalizzato e io non brucio? (2 Cor. 11,29) E poiché chiunque è acceso dallo zelo di Dio è custodito in eterno da una forte custodia, per non dovere essere condannato per la negligenza, è detto giustamente: La porrai come muro di ferro fra te e la città. Infatti, la teglia di ferro è posta come muro di ferro fra il profeta e la città, nel senso che, quando le guide delle anime manifestano un forte zelo, questo stesso zelo essi lo conservano come forte difesa fra sé e gli ascoltatori, affinché se saranno troppo indulgenti nella correzione non siano poi abbandonati alla vendetta [divina]. Soprattutto però bisogna sapere, che se l’animo del maestro si esaspera nel rimprovero, è molto difficile che egli una volta o l’altra non prorompa a dire qualcosa che non deve dire. E per lo più accade che, quando si corregge la colpa di sudditi con grande impeto, la lingua del maestro è trascinata ad eccedere nelle parole; e, quando il rimprovero è acceso oltre misura, il cuore dei peccatori si deprime fino alla disperazione. Perciò è necessario che quando il superiore si rende conto di avere colpito l’animo dei sudditi con eccessiva durezza, nella sua esasperazione, ricorra alla penitenza dentro di sé per ottenere perdono, col suo pianto, di fronte alla Verità, anche per ciò in cui pecca per eccessivo zelo. A ciò corrisponde, in figura, il precetto del Signore che per mezzo di Mosè dice: Se uno andrà con un suo amico nel bosco, semplicemente a tagliar legna, e gli sfuggirà di mano il manico della scure, e il ferro caduto dal manico colpirà l’amico e l’ucciderà; egli fuggirà in una delle città sopraddette e vivrà; perché non accada che il parente prossimo di colui di cui è stato sparso il sangue, spinto dal dolore, lo insegua, lo prenda e colpisca la sua vita (Deut. 19, 5-6). Dunque, noi andiamo nel bosco con l’amico ogni volta che ci disponiamo a ricercare i peccati dei sudditi, e tagliamo semplicemente legna quando recidiamo, con disposizione d’animo pietosa, i vizi dei peccatori. Ma quando il rimprovero si trascina fino a divenire più aspro del necessario, è allora che la scure sfugge di mano; e quando le parole della correzione si fanno troppo dure il ferro cade dal manico, per cui colpisce e uccide l’amico colui che, proferendo parole ingiuriose, spegne nel suo ascoltatore lo spirito di carità. Infatti l’animo di colui che subisce la correzione immediatamente precipita nell’odio se questo rimprovero va oltre i limiti. Ma è necessario che, chi colpisce incautamente la legna e uccide il prossimo, fugga verso tre città per vivere protetto in una di esse; perché colui che, voltosi a lacrime di penitenza, si nasconde sotto la speranza la fede e la carità nell’unità del sacramento non è considerato reo dell’omicidio commesso. E il parente prossimo dell’ucciso, quando lo troverà non lo ucciderà; perché quando verrà il severo Giudice, che si è unito a noi facendosi consorte della nostra natura, senza dubbio non perseguirà il reato della sua colpa col castigo poiché fede speranza e carità lo nascondono sotto il suo perdono.

 

11 — Quando la guida delle anime debba essere dedita alla meditazione della legge sacra

 

Ma tutto ciò si compie debitamente dalla guida delle anime se, animato dallo spirito del timore e dell’amore, ogni giorno con diligenza, medita i precetti della Parola sacra, affinché le parole della divina ammonizione ricostruiscano in lui la forza della sollecitudine e della previdente attenzione verso la vita celeste, che viene distrutta incessantemente dalla pratica della vita tra gli uomini. E chi, attraverso la comunione con le persone del mondo, è ricondotto alla vita dell’uomo vecchio, con il desiderio della comunione si rinnova a un amore incessante della patria spirituale. Infatti, nel parlare con gli uomini il cuore si disperde, e constatando con certezza che, spinto dal tumulto delle occupazioni esteriori, decade dalla sua condizione, deve avere una cura incessante di rialzarsi attraverso la dedizione allo studio [sacro]. Perciò Paolo ammonisce il discepolo preposto al gregge, dicendo: Fino alla mia venuta attendi alla lettura (1 Tim. 4, 13). Perciò David dice: Come amo la tua legge, Signore, tutto il giorno è la mia meditazione (Sal. 118, 97). Perciò il Signore dà ordine a Mosè a proposito del trasporto dell’arca, dicendo: Farai quattro anelli d’oro che porrai ai quattro angoli dell’arca, e farai delle stanghe di legno di acacia e le coprirai d’oro e le infilerai negli anelli ai lati dell’arca così che sia portata con quelle, che saranno sempre infilate negli anelli e non ne verranno mai estratte (Es. 25, 12 ss.). Che cosa è rappresentato dall’arca se non la Santa Chiesa? Si ordina poi che ad essa vengano aggiunti quattro anelli agli angoli, e ciò senza dubbio significa che essa, per il fatto che si estende dilatandosi nelle quattro parti del mondo, è annunciata cinta dei quattro libri del Santo Evangelo. E si fanno stanghe di legno di acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, pérché bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non imputridisce, i quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri, annuncino l’unità della Santa Chiesa portando l’arca come inseriti in quegli anelli, poiché portare l’arca con le stanghe significa, per i buoni maestri, condurre la Santa Chiesa alle rozze menti degli infedeli attraverso la predicazione. E le stanghe devono essere pure ricoperte d’oro, cioè i maestri mentre con i loro discorsi predicano agli altri devono risplendere anche loro per la luminosità della vita. E giustamente, riferendosi a loro si aggiunge: Le quali saranno sempre dentro gli anelli e non saranno mai estratte da essi, perché evidentemente è necessario che chi veglia all’ufficio della predicazione non cessi dall’amoroso studio della lettura sacra. E l’ordine che le stanghe siano sempre negli anelli è in vista dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca senza che si generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò significa che quando un Pastore viene interrogato dai sudditi riguardo a un qualche contenuto spirituale, è veramente vergognoso se egli si mette a cercare la risposta proprio quando deve risolvere una questione. Ma le stanghe sono inserite negli anelli perché i maestri che meditano sempre nel loro cuore la Parola sacra alzino l’arca del testamento senza indugi, e insegnino senza incertezze in qualunque necessità. Perciò dice bene il primo Pastore della Chiesa ammonendo gli altri Pastori: Pronti sempre a rispondere a chiunque vi chiede ragione della speranza che è in voi (1 Pt. 3, 15). Come se dicesse apertamente: Le stanghe non siano mai tolte dagli anelli affinché nessun indugio intralci il trasporto dell’arca.

 

 

 

 

PARTE TERZA

 

COME DEVE INSEGNARE E AMMONIRE I SUDDITI

UNA GUIDA DELLE ANIME

CHE HA BUONA CONDOTTA DI VITA

 

 

Prologo

 

Poiché abbiamo indicato come deve essere il Pastore, ora intendiamo dimostrare quale debba essere il suo insegnamento. Infatti, come insegnò molti anni prima di noi Gregorio di Nazianzo di venerabile memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo genere di esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di ciascuno, e spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri. Così accade non di rado che certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne uccidono altri o che un leggero fischio che acquieta i cavalli eccita i cagnolini; e una medicina che fa passare una malattia ne aggrava un’altra; e il pane che rinvigorisce le persone forti uccide i bambini piccoli. Dunque, il discorso di chi insegna deve essere fatto tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a quella che è la condizione propria dei singoli e tuttavia non decadere dal suo proprio genere che è di servire alla comune edificazione. Infatti che cosa sono le menti degli ascoltatori se non, per così dire, corde ben tese di una cetra che l’artista tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si accordi col canto?

E le corde danno un’armonia ben modulata, perché sono toccate da un unico plettro ma con vibrazioni diverse. Perciò il maestro per edificare tutti nell’unica virtù della carità deve toccare il cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un diverso genere di esortazione.

 

1 — Nell’arte della predicazione bisogna osservare una grande diversità di modi

 

Infatti deve essere diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne. Diversa l’ammonizione per i giovani e per i vecchi; per i poveri e per i ricchi; per gli allegri e per i tristi; per i sudditi e per i prelati; per i servi e per i padroni; per i sapienti di questo mondo e per gli incolti; per gli sfrontati e per i timidi; i presuntuosi e i pusillanimi; gli impazienti e i pazienti; i benevoli e gli invidiosi; i semplici e gli insinceri; i sani e i malati; coloro che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e quelli tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono; i taciturni e i chiacchieroni; i pigri e i precipitosi; i mansueti e gli iracondi; gli umili e gli orgogliosi; gli ostinati e gli incostanti; i golosi e i temperanti; quelli che distribuiscono per misericordia i propri beni, e coloro che fanno di tutto per rapire quelli degli altri; quelli che né rapiscono i beni altrui né elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò che hanno e tuttavia non desistono dal rapire i beni altrui; i litigiosi e i pacifici; i seminatori di discordia e gli operatori di pace; coloro che non intendono rettamente le parole della legge divina, e coloro che, invece, le intendono certo rettamente ma non ne parlano umilmente; coloro che sono in grado di predicare degnamente ma temono di farlo per eccessiva umiltà e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo; quelli che prosperano in tutto quel che desiderano nei beni temporali, e quelli che, pur accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa; quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale; quelli che hanno esperienza di unione carnale, e quelli che non l’hanno; quelli che piangono peccati di opere, e quelli che piangono peccati di pensiero; quelli che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono; quelli che addirittura lodano le azioni illecite che compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano; quelli che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e quelli che restano prigionieri della colpa con deliberazione; quelli che commettono frequentemente peccati, sia pure minimi, e quelli che si custodiscono dai piccoli ma talvolta’affondano nei più gravi; quelli che non incominciano neppure a fare il bene, e quelli che dopo averlo incominciato non lo portano a termine; coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e quelli che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi male di loro per certe loro azioni pubbliche. Ma non ci sarebbe alcuna utilità a passare in rassegna in una breve enumerazione tutte queste situazioni se non esponessimo anche, con la maggiore brevità possibile, i modi dell’ammonizione adatti a ciascuna di esse. Dunque deve essere diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole. Diverso deve essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché è la severità dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che dispone i secondi a un agire migliore. Poiché è scritto: Non sgridare un anziano ma pregalo come un padre (1 Tim. 5, 1).

 

2 — Come bisogna ammonire i poveri e i ricchi

 

Diverso è il modo di ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo offrire il sollievo della consolazione di fronte alla tribolazione, agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione. Al povero, il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché non sarai confuso. E non molto tempo dopo dice con dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta (Is. 48, 10). E ancora la consola dicendo: Ti ho scelto nel crogiolo della povertà (Is. 54, 4. 11). Paolo, al contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai ricchi di questo secolo ordina di non essere superbi e di non sperare nelle loro incerte ricchezze (1 Tim. 6, 17); dove occorre notare che il maestro dell’umiltà non dice: prega ma ordina, perché quantunque si debba usare misericordia alla debolezza, non si deve onore all’orgoglio. Dunque, ciò che è giusto dire a tali persone viene loro tanto più giustamente comandato quanto più esse si gonfiano nell’esaltazione del loro pensiero riguardo a realtà che passano. Di costoro il Signore dice nell’Evangelo: Guai a voi, ricchi, che avete la vostra consolazione (Lc. 6, 24). Poiché infatti essi ignorano in che cosa consistono le gioie eterne e si consolano con la ricchezza della vita presente. Bisogna allora offrire consolazione a coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri, che si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre insinuare il timore; affinché i poveri apprendano che possiedono ricchezze che non vedono e i ricchi sappiano che non possono conservare le ricchezze che vedono. Spesso tuttavia la qualità dei costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il ricco è umile e il povero orgoglioso. Subito allora la parola del predicatore deve adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior rigore l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli è stata imposta riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza accarezzi l’umiltà dei ricchi in quanto neppure la ricchezza che inorgoglisce li esalta. Tuttavia non di rado anche il ricco superbo deve essere placato con dolce esortazione, perché spesso dure ferite si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene loro incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania. Infatti bisogna penetrare senza negligenza il significato più profondo di ciò che accadeva quando lo spirito avverso invadeva Saul, e David calmava la sua follia con la cetra (cf. 1 Sam. 16, 23); giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio dei potenti? E a che cosa attraverso David se non all’umile vita dei santi? Dunque, quando Saul è afferrato dallo spirito immondo, la sua follia è moderata dal canto di David perché quando il sentimento dei potenti si muta in furore a causa dell’orgoglio, è opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente, dalla pacatezza del nostro parlare come dal dolce suono della cetra. Ma talvolta, quando si tratta di confutare dei potenti di questo mondo, occorre prima metterli alla prova usando delle similitudini come se si trattasse di affare che non riguarda loro; e quando avranno proferito una giusta sentenza come rivolta a un altro, allora con i modi opportuni bisogna colpirli direttamente con l’accusa della loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza mondana, non si erga contro chi lo rimprovera — poiché è col suo stesso giudizio che questi calpesta il suo collo superbo — ed esso non provi a difendersi in alcun modo, legato com’è dalla sentenza pronunciata con la sua stessa bocca. Perciò, infatti, il profeta Natan era venuto ad accusare il re con l’aria di chiedere un giudizio contro un ricco in difesa di un povero (cf. 2 Sam. 12, 1-15), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza e solamente dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé. E così l’uomo santo considerando insieme il peccatore e il re, secondo un mirabile procedimento, prima legò il re temerario attraverso la confessione quindi lo troncò con l’accusa; per un poco celò chi veramente cercava ma colpi improvvisamente colui che teneva stretto. Forse avrebbe agito su di lui con minore efficacia se fin dal principio del discorso avesse voluto colpire apertamente la colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il rimprovero che essa nascondeva. Era venuto come un medico da un malato, vedeva che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della pazienza del malato; pertanto, nascose il bisturi sotto la veste e trattolo improvvisamente lo conficcò nella ferita, perché il malato lo sentisse tagliare prima di vederlo e non si fosse rifiutato di sentirlo se l’avesse veduto in precedenza.

 

3 — Come bisogna ammonire gli allegri e i tristi

 

Diverso è il modo di ammonire gli allegri e i tristi. Agli allegri evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono dietro al castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno. Gli allegri imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono temere; i tristi ascoltino le gioie del premio che già possono pregustare. Ai primi, infatti, è detto: Guai a voi che ora ridete, poiché piangerete (Lc. 6, 25); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del medesimo maestro: Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la vostra gioia (Gv. 16, 22). Alcuni però non diventano allegri o tristi per le circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna certamente far conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi temperamenti sono più proclivi: infatti le persone allegre sono facili alla lussuria, le tristi all’ira. Perciò è necessario che ognuno consideri non solamente ciò che deve sostenere a causa del suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con peggiore pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve sopportare, si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale pensa di essere libero.

 

4 — Come bisogna ammonire i sudditi e i prelati

 

Diverso è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non esalti i secondi. Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano con moderazione. Infatti, per quanto si può anche intendere in modo figurato, ai sudditi viene detto: Figli, obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i prelati c’è il precetto: E voi, padri, non provocate all’ira i vostri figli (Col. 3, 20-21). I primi imparino come disporre il proprio intimo agli occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati. I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione che essi offrono ai loro sudditi. Perciò è necessario che si custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi esempi. Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda personalmente. I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati. Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza (Prov. 6, 6); ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio mio, ti sei impegnato per il tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Prov. 6, 1). Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va insegnando. E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole. Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque, fa’ quanto ti dico, figlio mio, e liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, corri, affrettati, sveglia il tuo amico, non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre (Prov. 6, 3-4). Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui presiede. Ed è detto bene: Non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre. Dare sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro. E le palpebre sonnecchiano quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia. Infatti, dormire profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per una specie di pigra noia dello spirito. Ma, sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più riconoscere il peccato commesso dai sudditi. Pertanto, bisogna ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali celesti (cf. Ez. 1, 18): quegli animali celesti che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e di fuori (cf. Ap. 6, 6). Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri. I sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali peggiori. Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. Ciò si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che Saul, il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo portava il peso della sua persecuzione — questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf. 1 Sam. 24, 4 ss.). Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e David, se non i buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. E tuttavia David ebbe timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono da ogni pestifera maldicenza non colpiscono la vita dei superiori, con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la loro imperfezione. E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro. Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore, per aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1 Sam. 24, 6). Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto rimproverarle. Se però qualche volta la lingua si lascia andare anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui che gliel’ha preposta. Perché quando pecchiamo contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha preposti. Perciò anche Mosè, quando venne a sapere che il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma contro il Signore (Es. 16, 8).

 

5 — Come bisogna ammonire i servi e i padroni

 

Diverso è il modo di ammonire i servi e i padroni. I servi, bisogna ammonirli a considerare sempre in se stessi l’umiltà della loro condizione; i padroni, a non dimenticare la propria natura per la quale sono creati uguali ai loro servi. I servi bisogna ammonirli a non disprezzare i loro padroni per non offendere Dio insuperbendo e contraddicendo alla sua disposizione; ma bisogna ammonire anche i padroni che, a loro volta, insuperbiscono contro Dio riguardo al suo dono se non riconoscono uguali a sé, per la comune natura, coloro che, per la loro condizione, tengono sottomessi.

I servi bisogna ammonirli a sapere di essere servi dei loro padroni; i padroni bisogna ammonirli a riconoscere di essere conservi dei loro servi. Agli uni infatti è detto: Servi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne (Col. 3, 22). E ancora: Coloro che sono sotto il giogo della servita giudichino i loro padroni degni di ogni onore (1 Tim. 6, 1); ma agli altri è detto: E voi, padroni, fate lo stesso con loro rinunciando a minacciarli, sapendo che il padrone vostro e loro è nei cieli (Ef. 6, 2).

 

6 — Come bisogna ammonire sapienti e incolti

 

Diverso è il modo di ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti. I sapienti, bisogna ammonirli a perdere la scienza di ciò che sanno; gli incolti invece, a desiderare di sapere ciò che non sanno. Negli uni la prima cosa da distruggere è il fatto che essi si giudicano sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare tutto ciò che si conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna superbia e con ciò è come se avessero preparato i loro cuori a ricevere quell’edificio. Coi sapienti bisogna affaticarsi perché divengano più sapientemente stolti: abbandonino la sapienza stolta ed imparino la sapiente stoltezza di Dio (cf. Cor. 1, 25); agli incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza. Infatti, ai primi è detto: Se qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo, diventi stolto per essere sapiente (Cor. 3, 18); e agli altri è detto: Non molti sapienti secondo la carne (1 Cor. 1, 26). E ancora: Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti (1 Cor. 1, 27). Per lo più ci vogliono ragionamenti per convertire i primi; per gli altri, molto spesso valgon meglio gli esempi. A quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle loro argomentazioni; per questi invece, in genere è sufficiente che conoscano azioni altrui degne di lode. Perciò il grande maestro, debitore verso i sapienti e verso gli insipienti (Rom. 1, 14), insegnando agli Ebrei, tra i quali alcuni erano sapienti e altri anche piuttosto rozzi, e parlando loro del compimento dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza con l’argomento: Quanto è antiquato e vecchio è presso alla morte (Ebr. 8, 13). Ma poi, rendendosi conto che alcuni si potevano trascinare solamente con la forza degli esempi, aggiunse nella medesima lettera: I santi sperimentarono schemi e battiture e inoltre catene e carcere, furono lapidati, segati, sottoposti a dure prove, uccisi di spada (Ebr. 11, 36-37). E ancora: Ricordatevi dei vostri superiori che vi hanno parlato la Parola di Dio e, considerando quale fu il termine della loro esistenza, imitatene la fede (Ebr. 13, 7). E così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e gli altri li persuadeva ad elevarsi a una vita superiore attraverso una dolce imitazione.

 

7 — Come bisogna ammonire gli sfrontati e i timidi

 

Diverso è il modo di ammonire gli sfrontati e i timidi. I primi, infatti, nulla vale a trattenerli dal vizio della sfrontatezza se non un duro rimprovero, mentre gli altri per lo più si dispongono al meglio con una esortazione moderata. Quelli non si accorgono di fare il male se non ricevono rimproveri da più parti; a convertire i timidi, per lo più è sufficiente che il maestro gli richiami alla mente con dolcezza le loro mancanze. Gli sfrontati, li corregge meglio chi li affronta con un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un miglior risultato se si sfiora appena ciò che in essi occorre rimproverare. Perciò il Signore, rimproverando apertamente il popolo sfrontato dei Giudei, dice: La tua fronte è divenuta come quella di una donna prostituta: non hai voluto arrossire (Ger. 3, 3). E di nuovo conforta colei che si vergogna, dicendo: Ti dimenticherai della vergogna della tua adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua vedovanza, perché sarà tuo Signore colui che ti ha fatta (Is. 54, 4-5). E Paolo sgrida apertamente anche i Galati che peccavano con sfrontatezza, dicendo: O Galati insensati, chi vi ha affascinato? (Gal. 3, 1) E ancora: Siete così stolti che dopo avere incominciato con lo spirito finite con la carne? (Gal. 3, 3). Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con compassione, dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente sono rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già li avevate ma eravate presi [da altro] (Fil. 4, 10). E così, col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più dolci copriva la negligenza degli altri.

 

8 — Come bisogna ammonire i presuntuosi e i pusillanimi

 

Diverso è il modo di ammonire i presuntuosi e i pusillanimi. Quelli infatti, sono molto sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri; questi invece, troppo consci della propria debolezza, per lo più si lasciano andare alla disperazione. I primi hanno una straordinaria altissima stima di tutto ciò che compiono; gli altri giudicano affatto spregevole ciò che fanno e perciò si scoraggiano e disperano. Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi, deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò in cui essi piacciono a se stessi, dispiacciono a Dio. È allora infatti che li correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che quel che credono di aver fatto bene è fatto male, così che proprio di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile turbamento. Spesso però, quando proprio non si rendono conto per nulla di peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se restano confusi per il rimprovero rivolto a un’altra colpa più manifesta scoperta in loro, così che da ciò di cui non sono in grado di difendersi riconoscano che non sostengono rettamente ciò che difendono. Perciò Paolo, rivolgendosi ai Corinzi che vedeva presuntuosamente gonfi gli uni verso gli altri dire che uno era di Paolo, l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di Cristo (cf. 1 Cor. 1, 12), tirò fuori quel peccato di incesto che era stato commesso presso di loro e restava impunito, dicendo: Si sente dire che si dà una fornicazione tra di voi, e una tale fornicazione quale non è ammissibile neppure fra i gentili, e cioè che uno abbia come sua la moglie di suo padre. E voi vi siete gonfiati e non avete fatto piuttosto lutto, perché fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una tale azione (1 Cor. 5, 1-2). Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra presunzione dite di essere di questo e di quello, voi che mostrate di non essere di nessuno per questa negligenza con cui vi siete sciolti da ogni legame? Al contrario, riconduciamo al bene i pusillanimi in modo più appropriato se ci informiamo indirettamente di qualche loro buona azione e, lodandola, li confortiamo nello stesso momento in cui li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché la lode ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal rimprovero della colpa. Spesso tuttavia otteniamo un risultato più utile con loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di bene; e se hanno compiuto qualche cosa di irregolare non glielo rimproveriamo come una colpa già commessa, ma ci limitiamo a distoglierli da quella come se dovessero ancora commetterla, affinché la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che approviamo, mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il rimprovero abbia maggiore efficacia presso di loro una esortazione riguardosa. Perciò il medesimo Paolo, vedendo che i Tessalonicesi fermi nella predicazione ricevuta erano turbati da un senso di paura come per una prossima fine del mondo, prima loda quanto scorge in loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni, rafforza la loro debolezza. Dice infatti: Dobbiamo ringraziare sempre Dio per voi, fratelli, come è degno, perché la vostra fede aumenta e abbonda in ciascuno di voi la carità vicendevole; così che noi stessi ci gloriamo per voi nelle chiese di Dio, per la vostra pazienza e la vostra fede (2 Tess. 1, 3-4). E dopo avere premesso queste lodi lusinghiere riguardo alla loro vita, poco dopo prosegue dicendo: Vi preghiamo tuttavia, fratelli, per la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro riunirci in Lui, che non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro sentire né spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata scritta da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente (2 Tess. 2, 1). Così, da vero maestro, fece in modo che prima si sentissero lodati per ciò che riconoscevano di sé, e quindi si sentissero esortati rispetto a ciò che dovevano seguire; affinché la lode premessa rafforzasse il loro spirito per accogliere senza turbamento la ammonizione che sarebbe seguita. E sebbene sapesse che essi erano turbati dal timore della prossima fine, non li rimproverava per questo, ma come se ignorasse addirittura la cosa, quasi non si fosse ancora data, li preveniva affinché non si turbassero. E questo perché, mentre per quel lieve cenno potevano credere che il loro maestro avesse addirittura ignorato questo aspetto in loro, temessero però sia di meritare il rimprovero sia di essere in ciò conosciuti da lui.

 

9 — Come si devono ammonire gli impazienti e i pazienti

 

Diverso è il modo di ammonire gli impazienti e i pazienti. Infatti, agli impazienti bisogna dire che trascurando di frenare la loro natura precipiteranno in molte azioni inique contro la loro stessa intenzione, perché evidentemente il furore spinge l’animo dove non desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne renda conto, provoca turbamenti, di cui poi egli si duole quando ne prende coscienza. Bisogna dire pure agli impazienti che quando agiscono come folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono conto delle proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute. Coloro che non contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò che forse avevano compiuto tranquillamente, e per un improvviso impulso distruggono tutto ciò che forse avevano costruito con lunga e provvida fatica. Per il vizio dell’impazienza si perde perfino la virtù, poiché è scritto: La carità è paziente (1 Cor. 13, 4). Pertanto, se non è paziente affatto non è carità. Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La scienza dell’uomo si apprende attraverso la pazienza (Prov. 19, 11); per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si dimostra paziente. E neppure può compiere con verità il bene a parole, se nella vita non sa sopportare in pace i difetti altrui. Inoltre, per questo vizio dell’impazienza lo spirito resta ferito dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non sopporta di essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto all’arroganza e, per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in mostra se stesso si gloria con l’ostentazione. Perciò sta scritto: È meglio il paziente dell’arrogante (Qo. 7, 9); poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi beni nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di qualche bene, anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure il più piccolo male.

Pertanto, poiché quando si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto di bene che si è compiuto, giustamente in Ezechiele si trova il precetto che sull’altare di Dio si faccia una cavità perché si conservino gli olocausti che vi stanno sopra (cf. Ez. 43, 13). Infatti se nell’altare non ci fosse la cavità i resti di quel sacrificio sarebbero dispersi dal vento. Ma che cosa dobbiamo intendere per altare di Dio se non l’anima del giusto che pone su di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha compiuto come sacrificio? E che cos’è la cavità dell’altare se non la pazienza dei buoni che umilia il loro spirito per sopportare le avversità e lo mostra come adagiato nel fondo di una fossa? Si faccia dunque una cavità nell’altare, affinché il vento non disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito degli eletti custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento dell’impazienza, anche ciò che di bene ha compiuto. Ed è giusto che quella medesima cavità, secondo quanto è descritto, sia di un solo cubito; poiché è naturale che se non si abbandona la pazienza si conserva la misura dell’unità. Per cui anche Paolo dice: Portate a vicenda i vostri pesi, e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). Poiché la legge di Cristo è la carità dell’unità che compiono solamente coloro i quali, anche quando portano grave peso, non trascendono. Ascoltino gli impazienti ciò che sta scritto: È meglio un paziente che un uomo forte, e chi domina il suo animo pia che un conquistatore di città (Prov. 16, 32). Vale meno infatti una vittoria contro delle città, giacché ciò che in questo caso si sottomette è qualcosa di esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la pazienza, poiché è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si sottomette se stessa quando la pazienza la spinge a frenarsi dentro di sé. Ascoltino gli impazienti ciò che la Verità dice ai suoi eletti: Nella vostra pazienza possederete le vostre anime (Lc. 21, 19). Infatti siamo stati creati in modo così mirabile che lo spirito possiede l’anima e l’anima possiede il corpo; ma all’anima è rifiutato il suo diritto di possedere il corpo se essa non è prima posseduta dallo spirito. Pertanto il Signore, insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha insegnato che la pazienza è custode della nostra condizione naturale. Perciò possiamo conoscere quanto sia grande la colpa dell’impazienza se per essa perdiamo perfino il possesso di ciò che siamo. Ascoltino gli impazienti ciò che ancora dice Salomone: Lo stolto sfoga tutto il suo animo, il sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire (Prov. 29, 11). Per l’impulso dell’impazienza avviene che tutto l’animo si sfoghi al di fuori, ed è naturale che l’agitazione lo riversi all’esterno poiché nessuna sapiente disciplina lo trattiene interiormente. Ma il sapiente attende e lo serba per l’avvenire. Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi subito, poiché anche dovendo sopportare preferisce trattenersi, tuttavia non ignora che tutto riceverà la giusta vendetta nell’ultimo giudizio. Al contrario, bisogna ammonire i pazienti a non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di fuori, per non corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di quel sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la colpa di questo dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma peccato di fronte all’esame divino, non divenga tanto peggiore proprio in quanto davanti agli uomini pretende di passare per virtù. Dunque bisogna dire ai pazienti che si studino di amare coloro che sono costretti a sopportare, perché se la pazienza non è accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si muti nella peggiore colpa dell’odio. Perciò Paolo, dopo avere detto: La carità è paziente, aggiunge subito: La carità è benigna (1 Cor. 13, 4), volendo mostrare chiaramente che essa non cessa di amare con benignità coloro che sopporta con pazienza.

Perciò il medesimo egregio maestro, esortando i discepoli alla pazienza con le parole: Ogni asprezza e ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi (Ef. 4, 31), come dopo averli già tutti ben disposti esteriormente, si rivolge al loro intimo e aggiunge: con ogni malizia; poiché, evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e l’ingiuria se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e invano si incide al di fuori dei rami il male se esso si conserva nell’intimo della radice, pronto a riaffiorare moltiplicato. Perciò la Verità stessa dice: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano (Lc. 6, 27-28). Dunque è virtù davanti agli uomini sopportare i nemici, ma davanti a Dio la virtù è amarli, poiché Dio accoglie soltanto quel sacrificio che la fiamma della carità accende davanti ai suoi occhi sull’altare delle buone opere. Perciò dice ancora ad alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché vedi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave nel tuo occhio? (Mt. 7, 3), significando che il turbamento dell’impazienza è la pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio. Infatti il soffio della tentazione agita il filo di paglia, ma la malizia consumata porta la trave quasi senza scosse. E giustamente in quel passo si prosegue: Ipocrita, getta via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per gettare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt. 7, 5), come se dicesse all’anima malvagia che si rode interiormente e all’esterno invece si mostra santa per la pazienza: prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e poi rimprovera agli altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i peccati altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito di simulazione. Suole anche accadere spesso alle persone pazienti che, proprio nel momento in cui o sopportano avversità o ricevono ingiurie, non si sentano spinte da nessun risentimento e mostrino così una pazienza tale che permette loro di conservare anche l’innocenza del cuore. Ma quando, passato un po’ di tempo, richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto sopportare, accendono in sé il fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per vendicarsi; e con questa intima ritrattazione mutano in malizia la mansuetudine che avevano conservato nella pazienza. Allora il maestro li soccorre ben presto se gli manifesta la causa di questo mutamento. Infatti l’astuto avversario muove guerra contro due tipi di persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per primo, l’altro lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria, resta poi vinto da colui che porta tranquillamente l’offesa ricevuta. Pertanto, vincitore del primo che è riuscito a soggiogare agitando il suo animo, si erge con tutta la sua potenza contro l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e vinca; ma poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso in cui riceveva l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e attaccando il suo pensiero con una suggestione segreta, cerca il tempo adatto per trarlo in inganno. Infatti ha perduto nel pubblico combattimento e arde di esercitare nascostamente le sue insidie. Così, nel tempo del riposo, ritorna all’animo del vincitore e gli richiama alla memoria le perdite materiali subite o le ferite delle ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli è stato inflitto glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta tristezza, che spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la vittoria, arrossisce di avere sopportato tranquillamente quelle offese, si duole di non averle ricambiate e cerca, se si offra l’occasione, di renderne di peggiori. A chi dunque sono simili costoro se non a quelli che per la loro forza riescono vincitori in campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano fare prigionieri dentro le mura della città? A chi sono simili se non a coloro che una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita, ma li uccide una leggera febbre recidiva? Così bisogna ammonire le persone pazienti a fortificare il loro cuore dopo la vittoria perché il nemico battuto in aperto combattimento non mediti di insidiare le mura del pensiero; e temano maggiormente la malattia che riprende a serpeggiare più insidiosamente, perché il nemico astuto non goda poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in quanto, ora calpesta i colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di lui.

 

10 — Come si devono ammonire i benevoli e gli invidiosi

 

Diverso è il modo di ammonire i benevoli e gli invidiosi. Bisogna ammonire i benevoli a gioire dei beni altrui così da desiderare di farli propri. Lodino con vero amore le azioni del prossimo così da moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta della vita presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza premio quanto pin ora, durante la gara, non hanno faticato; e, allora, non debbano guardare afflitti alle palme di coloro davanti alle cui fatiche, ora, persistono in ozio. Poiché pecchiamo gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di bene, ma non traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non imitiamo ciò che amiamo. Perciò alle persone benevole bisogna dire che se non si affrettano per nulla ad imitare il bene che approvano con la loro lode, a loro piace la santità delle virtù come agli stolti spettatori piace la vanità delle arti ludiche. Costoro infatti esaltano coi loro applausi le imprese di aurighi e di attori e tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere coloro che lodano. Li ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole, tuttavia evitano di piacere allo stesso modo.

Bisogna dire ai benevoli che quando guardano alle azioni del prossimo rientrino nel proprio cuore e non si vantino di azioni altrui; non lodino il bene mentre rifiutano di compierlo, pöiché tanto più gravemente devono essere colpiti dall’estremo castigo coloro a cui è piaciuto ciò che non hanno voluto imitare. Bisogna ammonire gli invidiosi a valutare attentamente la cecità di coloro che vengono meno per il successo degli altri e si struggono per la gioia altrui. Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri. Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza reciproca diventano una cosa sola (cf. 1 Cor. 12, 12-30). Per cui avviene che il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo dei piedi, l’ascolto delle orecchie serve alla bocca e la lingua che sta in bocca concorre con gli orecchi alla propria funzione; il ventre sostiene l’attività delle mani e le mani lavorano per il ventre. Pertanto, è dalla stessa condizione del corpo, che riceviamo ciò che dobbiamo conservare nel nostro agire. E così è troppo vergognoso non imitare ciò che siamo. È certamente nostro ciò che amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza fatica le opere della fatica altrui. E così bisogna dire agli invidiosi che quando non si custodiscono per nulla dall’invidia, sprofondano nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di lui è scritto: Per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo (Sap. 2, 24). Infatti, poiché egli aveva perduto il cielo, lo invidiò all’uomo appena creato, ed essendosi perduto lui volle accrescere la sua perdizione perdendo ancora altri. Bisogna ammonire gli invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le cadute per le quali cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non gettano via l’invidia dal cuore precipitano in una aperta iniquità di opere. Se infatti Caino non avesse invidiato il sacrificio gradito [a Dio] del fratello, non sarebbe giunto a spegnere la sua vita. Perciò è scritto: E il Signore riguardò ad Abele e ai suoi doni; ma non riguardò a Caino e ai suoi doni. E Caino si adirò fortemente e gli cadde il volto (Gen. 4, 4). E così, l’invidia per il sacrificio fu il germe del fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava fosse migliore di lui, affinché non fosse più in alcun modo. Bisogna dire agli invidiosi che mentre si consumano interiormente per questa peste essi uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro di sé. Perciò è scritto: La sanità del cuore è vita della carne, l’invidia è putredine delle ossa (Prov. 14, 30). Che cosa si intende per carne se non le azioni molli e deboli, e per ossa se non quelle forti? Eppure accade spesso che alcuni i quali appaiono deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza del cuore e altri invece si comportino in maniera forte agli occhi degli uomini e tuttavia nei confronti del bene altrui si consumino nell’intimo, per la peste dell’invidia. Pertanto è ben detto: La sanità del cuore è vita della carne, perché se si custodisce l’innocenza del cuore, anche se l’agire esterno talvolta è debole, prima o poi si irrobustisce. E si aggiunge correttamente: L’invidia è putredine delle ossa, perché per il vizio dell’invidia, agli occhi di Dio vanno perdute anche quelle azioni che agli occhi degli uomini sembrano da forti; infatti l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il deperire di certe cose anche forti.

 

11 — Come si devono ammonire i semplici e gli insinceri

 

Diverso è il modo di ammonire i semplici e gli insinceri.

I semplici bisogna lodarli perché si studino di non dire mai il falso, ma bisogna ammonirli che sappiano ogni tanto tacere il vero. Come il falso nuoce sempre a chi lo dice, così talvolta ad alcuni nuoce ascoltare la verità. Perciò il Signore, temperando il suo discorso col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho molte cose da dirvi ma ora non potete portarle (Gv. 16, 12). Pertanto bisogna ammonire i semplici a dire la verità badando sempre all’utilità allo stesso modo che sempre utilmente evitano l’inganno. Bisogna ammonirli ad aggiungere al bene della semplicità quello della prudenza, affinché abbiano quella sicurezza che viene dalla semplicità senza perdere quell’attenzione propria della prudenza. Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio che voi siate sapienti nel bene ma semplici nel male (Rom. 16, 19). Perciò la Verità stessa ammonisce i suoi eletti dicendo: Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe (Mt. 10, 16). Perché evidentemente nel cuore degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta la semplicità della colomba, e insieme la semplicità della colomba deve temperare l’astuzia del serpente, affinché essi non si lascino sedurre ad eccedere nell’esercizio della prudenza né, per la semplicità, divengano torpidi nell’uso dell’intelligenza.

Al contrario, bisogna ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia grave colpa la fatica di quella doppiezza, che essi sostengono. Infatti, per il timore di essere scoperti cercano sempre giustificazioni cattive e sono sempre agitati da sospetti che li rendono paurosi. Ma niente è più sicuro della purezza, a propria difesa; niente più facile a dirsi della verità. Infatti il cuore costretto a proteggere la propria falsità dura una pesante fatica, e perciò è scritto: La fatica delle loro labbra li ricoprirà (Sal. 139, 10). La fatica, che ora riempie e soddisfa, allora ricoprirà perché opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira fuori d’impaccio a prezzo di una leggera inquietudine. Perciò si dice in Geremia: Hanno insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si sono affaticati per commettere l’iniquità (Ger. 9, 5), come se dicesse apertamente: Coloro che potevano essere amici della verità senza fatica, si affaticano per peccare e mentre rifiutano di vivere semplicemente, si adoperano con tutte le loro forze per morire. Infatti, non di rado, se sono colti in fallo, mentre rifuggono dal farsi riconoscere quali sono, si nascondono sotto il velo della falsità e si affaccendano per giustificare ciò in cui stanno peccando e che è già apertamente visibile; così che spesso colui che ha cura di correggere le loro colpe, ingannato dalle nebbie di questa aspersione di falsità, ha quasi l’impressione di aver perduto di vista ciò che ormai teneva per certo a loro riguardo. Perciò all’anima che pecca e si giustifica si dice, per mezzo del profeta che rettamente la rappresenta nella Giudea: Là ebbe la sua tana il riccio (Is. 34, 15). Col nome di riccio si indica la doppiezza di una mente impura che si difende con astuzia, e ciò chiaramente perché il riccio, nel momento in cui viene preso, mostra tutto intero il corpo e si vedono capo e piedi, ma appena è stato preso si raccoglie tutto in una palla, tira dentro i piedi, nasconde il capo e di colpo scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre appena prima si mostrava tutto intero. Così certamente sono le anime insincere quando vengono sorprese nelle loro prevaricazioni. Infatti si vede il capo del riccio perché si vede quando il peccatore incomincia ad accostarsi alla colpa; si vedono i piedi del riccio perché si conoscono le tracce del peccato commesso. E tuttavia, con l’addurre subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira dentro i piedi, cioè nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il capo, perché con le sue mirabili difese dimostra di non avere neppure dato inizio a qualcosa di male, e resta come una palla in mano di chi lo tiene. Il quale improvvisamente non si ritrova più tutto quanto aveva già compreso di lui poiché ha di fronte un peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua coscienza; e lui stesso, che lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul fatto, tratto in inganno dai raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto intero lo ignora. Il riccio dunque ha una tana nei reprobi, esso che raccogliendosi in se stesso nasconde le doppiezze di un animo malizioso nelle tenebre della giustificazione. Ascoltino gli insinceri ciò che è scritto: Chi cammina nella semplicità, cammina con fiducia (Prov. 10.9); poiché la semplicità dell’azione è fiducia di una grande sicurezza. Ascoltino ciò che è detto dalla bocca del sapiente: Lo Spirito Santo fugge una dottrina di falsità (Sap. 1, 5). Ascoltino ciò che ancora è offerto dalla testimonianza della Scrittura: La sua conversazione è coi semplici (Prov. 3, 32). Infatti il conversare di Dio è il rivelare i suoi misteri ai cuori degli uomini attraverso l’illuminazione della sua presenza. Pertanto si dice che conversa coi semplici perché col raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i loro cuori che non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza. Il peccato delle persone doppie, poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano gli altri con l’azione doppia e perversa e insieme si gloriano come fossero più astuti di loro; e poiché non considerano la severità della retribuzione che riceveranno, esultano miseramente del proprio danno. Ma ascoltino come sopra di loro il profeta Sofonia stenda la forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il giorno del Signore, grande e terribile, giorno d’ira quel giorno, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di turbine, giorno di suono di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli elevati (cf. Sof. 1, 15-16; Gioe. 2, 2). Infatti, che cosa si intende per città fortificate se non gli animi sospettosi e sempre circondati di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene rimproverata la loro colpa respingono da sé i dardi della verità? E che cosa è indicato con angoli elevati (poiché negli angoli c’è sempre una doppia parete) se non i cuori insinceri? I quali mentre fuggono la semplicità della verità, per la stessa perversità della loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel che è peggio, per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro pensieri come avessero raggiunto l’apice della astuzia. Dunque il giorno del Signore, pieno di vendetta e di castigo, verrà sulle città fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira dell’ultimo giudizio distruggerà i cuori umani chiusi dalle difese contro la verità, e scioglierà le pieghe della loro doppiezza. Allora infatti cadranno le città fortificate perché saranno condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio. Allora crolleranno gli angoli elevati perché i cuori che si edificano, attraverso l’astuzia della falsità, saranno atterrati dalla sentenza di giustizia.

 

12 — Come si devono ammonire i sani e i malati

 

Diverso è il modo di ammonire i sani e i malati. Bisogna ammonire i sani a esercitare la salute del corpo a vantaggio della salute dello spirito perché, se piegano ad un uso malizioso la grazia della buona salute che hanno ricevuto, proprio per questo dono non diventino peggiori e meritino poi supplizi tanto più gravi quanto più ora essi non temono di usare male dei più larghi beni di Dio. Bisogna ammonire i sani che non disprezzino l’occasione di una salute da meritare per l’eternità, poiché è scritto: Ecco, ora è il tempo gradito, ecco ora il tempo della salvezza (2 Cor. 6, 2). Bisogna ammonirli che, se non vogliono piacere a Dio quando possono, può accadere che non lo possano quando lo vorranno troppo tardi. Da ciò infatti viene che poi la Sapienza abbandona coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto, dicendo: Vi ho chiamato e avete detto di no; ho teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei rimproveri; anch’io riderò nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che temevate (Prov. 1, 24 ss.). E ancora: Allora mi invocheranno e non ascolterò; si leveranno la mattina e non mi troveranno (Prov. 1, 28). Pertanto, quando si disprezzala salute del corpo ricevuta per operare il bene, ci si rende conto di quale grande dono fosse, quando la si è perduta; e alla fine si cerca senza frutto ciò che, concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto. Perciò è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non consegnare ad altri il tuo onore e i tuoi anni al crudele, perché non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui, e negli ultimi giorni tu pianga, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo (Prov. 5, 9 ss.). Chi sono infatti gli stranieri, per noi, se non gli spiriti maligni separati dalla sorte della patria celeste? E qual è il nostro onore se non l’essere creati a immagine e somiglianza del nostro Creatore, nonostante che siamo fatti di corpo e di fango? O chi altri è il crudele se non quell’angelo apostata, il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e, ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano? E così, consegna il suo onore agli stranieri colui che, fatto a immagine e somiglianza di Dio, amministra il tempo della sua vita coi piaceri che sono propri degli spiriti maligni. Consegna i suoi anni al crudele, chi dissipa il tempo di vita ricevuto, secondo la volontà dell’avversario signore del male. E qui bene si aggiunge: Perché non si riempiano gli stranieri della tua forza, e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui. Infatti chiunque si affatica, con la forza del corpo che ha ricevuto e la sapienza della mente che gli è stata assegnata, non a esercitare la virtù, ma a soddisfare i vizi, non accresce la propria casa con le sue forze, ma certamente — praticando sia la lussuria sia la superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il numero dei perduti — moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le azioni degli spiriti immondi. E poi opportunamente si aggiunge: E tu pianga, negli ultimi giorni, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo. Spesso, infatti, la salute del corpo che si è ricevuta viene dissipata coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la carne viene afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad uscire, si ricerca, quasi per vivere bene, quella salute perduta che si è goduta a lungo, male. E allora si lamentano gli uomini di non aver voluto servire Dio, quando ormai non possono più servire, per rimediare ai danni della propria negligenza. Per cui altrove è detto: Quando li uccideva, allora lo cercavano (Sal. 77, 34). Al contrario, bisogna ammonire i malati a sentirsi tanto più figli di Dio quanto più li castigano i colpi della correzione. Infatti, se Egli non avesse disposto di dare l’eredità a coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli attraverso le sofferenze. Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo dell’angelo: Io rimprovero e castigo quelli che amo (Ap. 3, 19). Perciò ancora è scritto: Figlio mio, non trascurare la correzione del Signore, non stancarti di essere rimproverato da lui. Poiché Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio che accoglie (Ebr. 12, 5-6). Perciò il salmista dice: Molte sono le tribolazioni dei giusti, ma da tutte li ha liberati il Signore (Sal. 33, 20). Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se sarò giusto non leverò la testa, sazio di tribolazione e di miseria (Giob. 10, 15). Bisogna dire ai malati che, se credono che sia loro la patria celeste, è necessario che patiscano fatiche in questa come in terra straniera. È per questo infatti che, per essere poste senza rumore di martelli nella costruzione del tempio del Signore, le pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro, nel tempio di Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto ciò che in noi è superfluo ora, lo tagli via la battitura, e allora, nell’edificio, ci tenga uniti la sola concordia della carità.

Bisogna ammonire i malati a considerare la durezza dei colpi con cui vengono castigati i figli carnali, e solamente in vista di eredità terrene. E perché allora ci è pesante la pena della correzione divina, per la quale si riceve una eredità che non andrà mai perduta e si evitano supplizi che dureranno sempre? Perciò infatti dice Paolo: Del resto, noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri secondo la carne, e rispettavamo; non obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e vivremo? Quelli invero ci educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve, ma questo ci educa per ciò che è utile a ricevere la sua santificazione (Ebr. 12, 9-10). Bisogna ammonire i malati a considerare quanta salute del cuore sia la sofferenza del corpo, la quale richiama la mente alla conoscenza di sé e restituisce il ricordo della propria debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo spirito, portato fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale condizione è soggetto proprio per quella carne colpita che deve sostenere. E ciò è rettamente rappresentato da Balaam (se effettivamente avesse voluto seguire obbediente la voce di Dio) proprio in quell’essere ritardato nel suo cammino. Infatti Balaam vuole giungere alla mèta che si è prefisso ma l’animale che egli guida ostacola il suo desiderio (cf. Num. 22, 23 ss.). In effetti, l’asina trattenuta dalla proibizione dell’angelo vede ciò che lo spirito dell’uomo non riesce a vedere, poiché spesso la carne resa tarda dalla sofferenza, con la percossa che patisce indica Dio allo spirito, mentre lo stesso spirito che governa la carne non lo vedeva; e così la carne [sofferente] trattiene l’ansietà dello spirito di colui che brama di progredire in questo modo, come di chi sta percorrendo un cammino, finché gli illumina l’invisibile che gli si oppone. Per ciò anche, per mezzo di Pietro, è ben detto: Ricevette la correzione della sua follia: un muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del profeta (2 Pt. 2, 15). E avviene che un uomo folle sia corretto da un giumento muto, quando una mente esaltata, si ricorda per l’afflizione della carne di quel bene dell’umiltà che avrebbe dovuto custodire. Ma Balaam non ottenne il dono di questa correzione proprio perché, andando per maledire, mutò le parole ma non la mente. Bisogna ammonire i malati a considerare quale grande dono sia la sofferenza del corpo, che scioglie i peccati commessi e impedisce quelli che si sarebbero potuti compiere e, prodotta da piaghe esterne, infligge ferite di penitenza all’animo colpito. Perciò è scritto: Il livido della ferita porta via il male, e così le piaghe nei recessi del ventre (Prov. 20, 30). Infatti il livido della ferita porta via il male perché il dolore delle percosse scioglie i pensieri e le azioni inique. Con la parola ventre si suole intendere la mente perché, come il ventre consuma i cibi, la mente meditando scioglie le preoccupazioni. E che la mente sia detta ventre, lo insegna il proverbio: Lo spirito dell’uomo è lampada del Signore, che scruta tutti i recessi del ventre (Prov. 20, 27); come se dicesse: l’illuminazione del soffio divino, quando viene nella mente dell’uomo, illuminandola, la mostra a se stessa, essa che prima della venuta dello Spirito Santo poteva portare pensieri cattivi e non sapeva pensare. Pertanto, il livido della ferita porta via il male e così pure le piaghe nei recessi del ventre, perché quando siamo percossi all’esterno, veniamo richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei nostri peccati, e riportiamo davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo compiuto di male; e ciò che patiamo di fuori ci procura maggiormente dolore nell’intimo per ciò che abbiamo fatto. Quindi avviene che più abbondantemente che le ferite aperte del corpo, ci lavi la piaga nascosta del ventre, perché la ferita nascosta del dolore sana la malizia del cattivo operare. Bisogna ammonire gli ammalati a conservare la virtù della pazienza, a considerare incessantemente quanto grandi mali il nostro Redentore sopportò da coloro che aveva creato. Egli sostenne i tanto volgari oltraggi della derisione e degli schemi, lui che rapisce ogni giorno le anime dei prigionieri dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi degli insultatori; lui che ci lava con l’acqua della salvezza non ritrasse la faccia dagli sputi dei perfidi; lui che con la sua intercessione ci libera dagli eterni supplizi, tollerò in silenzio le battiture; lui che ci assegna eterni onori tra i cori degli angeli, sopportò i pugni; lui che ci salva dalle punture dei peccati, non rifiutò di sottoporre il capo alle spine; lui che ci inebria in eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella sua sete; lui — che pure essendo uguale al Padre per la divinità, lo adorò per noi — adorato per irrisione, tacque; lui che prepara la vita ai morti, essendo lui stesso la vita, giunse fino a morire. Perché allora si giudica crudele che l’uomo sopporti castighi di Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali tanto grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni? O chi può esserci che, sano di mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che visse in questo mondo, senza peccato, non se ne andò da questo mondo senza castigo?

 

13 — Come si devono ammonire coloro che temono i castighi e coloro che li disprezzano

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che temono i castighi, e perciò conducono una vita innocente, e coloro tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono. A coloro che temono i castighi bisogna dire che né desiderino come gran cosa i beni temporali dei quali vedono godere anche i cattivi; né fuggano come intollerabili i mali presenti, poiché non ignorano che in questo mondo spesso essi colpiscono anche i buoni. Bisogna ammonirli, se desiderano veramente essere privi di mali, ad avere orrore degli eterni supplizi; non restino però in questo timore dei supplizi, ma nutrendosi di carità crescano fino alla grazia dell’amore, poiché sta scritto: La carità perfetta caccia il timore (1 Gv. 4, 18). Ed è ancora scritto: Non avete ricevuto spirito di servitù ancora per il timore, ma spirito di adozione a figli nel quale gridiamo: Abbà, Padre (Rom. 8, 15). Perciò il medesimo maestro dice ancora: Dove è lo Spirito del Signore, là c’è la libertà (Cor. 3, 17). Dunque, se è il terrore della pena che trattiene dal commettere il male, non è certo la libertà di spirito a possedere l’animo di colui che è atterrito. Infatti, se non temesse la pena non c’è dubbio che commetterebbe la colpa. E così il cuore, legato dalla schiavitù della paura, ignora la grazia della libertà, poiché il bene si deve amare per se stesso e non sono le pene che devono spingere a compierlo. Infatti, chi fa il bene perché teme il male dei castighi, vorrebbe solo che non esistesse ciò che teme per potere osare di compiere ciò che è lecito. Da cui risulta più chiaramente che si perde l’innocenza davanti a Dio poiché si pecca di desiderio davanti ai suoi occhi. Al contrario, coloro che neppure i castighi trattengono dall’iniquità, vanno colpiti con rimprovero tanto più aspro quanto maggiore è l’insensibilità del loro indurimento. Spesso infatti occorre respingerli, pur senza disprezzo, e lasciare che la disperazione incuta il terrore e quindi subito l’ammonizione li riporti alla speranza. Così, bisogna pronunciare severamente contro di loro le sentenze divine, perché siano richiamati alla coscienza di sé dalla considerazione del supplizio eterno. Ascoltino che si è compiuto contro di loro ciò che sta scritto: Se pestassi lo stolto nel mortaio come grani d’orzo sotto i colpi del pestello, non verrebbe tolta da lui la sua stoltezza (Prov. 27, 22). Contro costoro il profeta si volge con lamenti al Signore, dicendo: Li hai stritolati ed hanno rifiutato di accogliere la correzione (Ger. 5, 3). Ed è ciò che dice il Signore: Ho ucciso e distrutto questo popolo e tuttavia non si sono ritratti dalle loro vie (Ger. 15, 7). E poi di nuovo dice: Il popolo non è ritornato a colui che lo percuote (Is. 9, 13). Quindi, con la voce dei castigatori, il profeta si lamenta dicendo: Abbiamo curato Babilonia ma non è guarita (Ger. 51, 9). Si intende che Babilonia viene curata e tuttavia non guarisce, quando il cuore turbato dal cattivo operare ode le parole della correzione, ne riceve i castighi e tuttavia trascura di ritornare al retto cammino della salvezza. Perciò il Signore rimprovera il popolo di Israele prigioniero e tuttavia non convertito dalla sua iniquità, dicendo: La casa di Israele si è mutata per me in scoria: tutti costoro sono rame stagno ferro e piombo dentro la fornace (Ez. 22, 18). Come se dicesse apertamente: Volli purificarli col fuoco della tribolazione e cercai di farli diventare oro e argento, ma mi sono riusciti rame stagno ferro e piombo, perché anche nella tribolazione si sono buttati nei vizi e non nella virtù. Rame, perché quando lo si percuote dà suono più ampio degli altri metalli; pertanto colui che sotto i colpi che riceve rompe nel suono della mormorazione risulta rame dentro la fornace. Lo stagno, invece, trattato con arte, prende l’aspetto dell’argento e pertanto, chi nella tribolazione non si astiene dal vizio della simulazione diventa stagno nella fornace. Chi insidia alla vita del prossimo si serve del ferro, e così è ferro nella fornace chi, pure nella tribolazione, non perde la malizia di nuocere. E c’è anche il piombo che è il più pesante degli altri metalli; e nella fornace si rivela piombo colui che è tanto oppresso dal peso del suo peccato che, anche posto nella tribolazione non si solleva dai suoi desideri terreni. Perciò ancora è scritto: Con molta fatica si sudò e non usci da essa tutta la sua ruggine, neppure col fuoco (Ez. 24, 12). Cioè, ci invia il fuoco della tribolazione per purgarci dalla ruggine dei vizi, che è in noi; ma non perdiamo la ruggine neppure col fuoco quando, pure tra i castighi, non ci asteniamo dal vizio. Perciò il profeta dice ancora: Invano li ha fusi il fonditore: le loro malizie non si sono consumate (Ger. 6, 29). Ma bisogna anche sapere che spesso, quando persistono a non correggersi nella durezza dei castighi, bisogna blandirli con una dolce ammonizione, perché non di rado sono le parole miti e le carezze che trattengono dalle azioni inique quelli che non si lasciano correggere dalle punizioni, come anche spesso certi malati, che una forte bevanda medicinale non riesce a curare, vengono risanati da acqua tiepida; e alcune ferite che non possono curarsi incidendo, guariscono con impacchi di olio. Così il duro diamante che non resta minimamente scalfito dal ferro, diviene molle nel leggero sangue di capri.

 

14 — Come bisogna ammonire i taciturni e i chiacchieroni

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che tacciono troppo e coloro che sono sempre pronti a parlare molto. Bisogna suggerire a coloro che parlano troppo poco che, mentre vogliono fuggire — in modo poco avvertito — certi vizi, restano nascostamente implicati in vizi peggiori. Spesso infatti, frenando la lingua oltre misura, devono portare in cuore un eccessivo peso di parole, e così, tanto più i pensieri ribollono nella mente quanto più li costringe la custodia forzata di un silenzio privo di discernimento, e si espandono tanto più ampiamente quanto più si giudicano al sicuro perché non si mostrano fuori, a chi potrebbe riprenderli. Perciò spesso la mente monta in superbia e disprezza come deboli coloro che sente parlare; ma mentre chiude la bocca del suo corpo, non si rende conto di quanto si apre ai vizi col suo insuperbire. Infatti comprime la lingua e innalza il pensiero e mentre non considera affatto la sua malizia, dentro di sé accusa tutti tanto più liberamente quanto più lo fa in segreto. Perciò bisogna ammonire coloro che tacciono troppo, ad adoperarsi con sollecitudine a conoscere non solo come si debbano mostrare al di fuori, ma anche come si debbano disporre interiormente così da temere di più l’occulto giudizio divino in seguito ai loro pensieri che il rimprovero del prossimo in seguito ai loro discorsi. Infatti è scritto: Figlio mio, fa’ attenzione alla mia sapienza e piega l’orecchio alla mia prudenza per custodire i pensieri (Prov. 5, 1). Poiché niente in noi è più instabile del cuore, che si allontana da noi ogni qual volta è trascinato via sull’onda dei cattivi pensieri. Perciò infatti il salmista dice: Il mio cuore mi ha abbandonato (Sal. 39, 13). E perciò, ritornando in se stesso dice: Il tuo servo ha trovato il suo cuore per pregarti (2 Sam. 7, 27). Pertanto, il cuore solito a disperdersi, si ritrova quando il pensiero è frenato dalla vigilanza. Spesso poi, quando coloro che tacciono troppo patiscono qualche ingiustizia, cadono in un dolore tanto più aspro quanto meno parlano del dolore che devono sopportare; perché se dicessero tranquillamente la sofferenza che è stata loro inflitta, il dolore uscirebbe dalla coscienza. Infatti le ferite chiuse fanno soffrire di più e quando il pus che infiamma dentro viene espulso, il dolore si apre alla guarigione. Pertanto, coloro che tacciono più del conveniente devono sapere che non è bene aumentare la forza del dolore tra le sofferenze che sopportano, per il fatto di trattenersi dal parlare. Bisogna ammonirli a non tacere al prossimo, se lo amano come se stessi, ciò di cui giustamente lo rimproverano, giacché con la medicina della parola si concorre alla salute di ambedue: si frena dalla cattiva azione colui che la compie (cf. Lev. 19, 17), e con l’apertura della ferita si allevia la fiamma del dolore di colui che la sostiene. Infatti, coloro che si volgono a guardare i peccati del prossimo e poi trattengono la lingua nel silenzio, è come se, viste delle ferite, sottraessero ad esse il medicamento, e divengono doppiamente causa di morte in quanto non hanno voluto curare l’infezione come avrebbero potuto. Dunque, bisogna frenare la lingua con discrezione e non legarla indissolubilmente, poiché sta scritto: Il sapiente tacerà fino al tempo opportuno (Sir. 20, 7); nel senso cioè che, quando vede l’opportunità, tralasciata la censura del silenzio, dicendo quanto è conveniente si adopera per l’utilità. E ancora sta scritto: C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare (Qo. 3, 7). Cioè bisogna calcolare con discrezione l’alternarsi dei momenti diversi, perché la lingua non scorra inutilmente sulle parole quando dovrebbe invece trattenersi; o non si trattenga pigramente quando potrebbe utilmente parlare. Ciò che ben considera il salmista dicendo: Poni, Signore, una custodia alla mia bocca e una porta intorno alle mie labbra (Sal. 140, 3). Infatti non chiede che gli sia posta una parete davanti alla bocca, ma una porta che, evidentemente, si apre e si chiude; perciò anche noi dobbiamo imparare con prudenza il momento opportuno perché la voce apra la bocca con discrezione, e ancora il momento opportuno perché il silenzio la chiuda. Al contrario, bisogna ammonire coloro che sono sempre pronti a parlare molto, che siano pronti a rendersi conto di quanto vengon meno alla loro rettitudine col diffondersi in tante parole. Giacché la mente umana è come l’acqua, che quando è trattenuta si raccoglie verso l’alto poiché tende a risalire là di dove è scesa, ma lasciata andare viene meno perché si sparge inutilmente nei luoghi più bassi. Infatti, ogni volta che la mente si dissipa in vane parole fuori dalla censura del proprio silenzio, è condotta fuori di sé come per tanti rivoletti. Perciò non è più capace di rientrare in se stessa, alla conoscenza di sé, perché dispersa nelle molte parole si chiude fuori dal nascondimento dell’intima meditazione; e si scopre tutta alle ferite del nemico insidioso perché nessuna protezione la circonda e la custodisce. Perciò è scritto: Come una città aperta e senza giro di mura, così è l’uomo che non può trattenere il suo animo quando parla (Prov. 25, 28); giacché la città della mente non possiede il muro del silenzio ed è aperta alle frecce del nemico, e quando si butta fuori di se stessa attraverso le parole, si mostra tutta all’avversario. Ed egli la espugna senza fatica tanto più in quanto anche lei stessa, che viene vinta, combatte contro di sé col suo continuo parlare. Ma per lo più, poiché la mente negligente è spinta a cadere per gradi, se trascuriamo di guardarci dalle parole oziose, giungiamo a quelle dannose; così che, prima si gode a parlare degli altri, poi si morde la vita di coloro di cui si parla, con la detrazione, e infine la lingua rompe fino alle aperte offese. E di qui si seminano le provocazioni, nascono le risse, si accendono le fiamme dell’odio, si estingue la pace dei cuori. Perciò, bene è detto per mezzo di Salomone: Chi lascia andare l’acqua, dà principio alle contese (Prov. 17, 14). Lasciare andare l’acqua significa abbandonare la lingua allo sproloquio. Al contrario, è detto ancora in senso buono: Le parole che procedono dalla bocca dell’uomo sono acque profonde (Prov. 18, 4). Pertanto, chi lascia andare l’acqua dà principio alle contese perché chi non frena la lingua dissipa la concordia. E perciò in senso inverso è detto: Chi impone silenzio allo stolto, mitiga le ire (Prov. 26, 10). Che poi colui il quale è dedito alle chiacchiere non possa mantenere la rettitudine della giustizia, lo attesta il profeta che dice: L’uomo linguacciuto non va diritto sulla terra (Sal. 139, 12). Perciò, pure Salomone dice ancora: Nel molto parlare non mancherà il peccato (Prov. 10, 19). Perciò Isaia dice: Il silenzio è coltivazione della giustizia (Is. 32, 17), significando chiaramente che la giustizia dell’animo resta desolata se non la risparmia il parlare smodato. Perciò Giacomo dice: Se qualcuno pensa di essere religioso e non tiene a freno la sua lingua ma seduce il suo cuore, la sua religione è vana (Giac. 1, 26). Perciò dice ancora: Ognuno sia pronto ad ascoltare ma lento a parlare (Giac. 1, 19). E di nuovo, definendo la potenza della lingua, dice: È un male irrefrenabile, piena di veleno mortifero (Giac. 3, 8). Perciò la Verità stessa ci ammonisce dicendo: Di ogni parola oziosa che avranno detto, gli uomini dovranno rendere conto il giorno del giudizio (Mt. 12, 36). Ed è oziosa ogni parola che non sia giustificata da una ragionevole necessità o dall’intenzione di una pia utilità. Se dunque si esige il rendiconto di una parola oziosa, pensiamo quale pena attenda il molto parlare in cui si pecca anche con parole che arrecano danno.

 

15 — Come si devono ammonire i pigri e i precipitosi

 

Diverso è il modo di ammonire i pigri e i precipitosi. I primi bisogna persuaderli a non perdere quei beni di cui differiscono l’adempimento; gli altri invece bisogna ammonirli che, col prevenire incautamente, per la loro fretta, il tempo di fare certe opere buone, rischiano di mutarne i meriti. E così bisogna inculcare nei pigri che ciò che speso non vogliamo fare al momento opportuno mentre lo possiamo, poco dopo, quando lo vorremmo, non ne siamo più in grado; poiché la stessa pigrizia della mente, se non viene accesa e stimolata da un ardore appropriato, viene uccisa del tutto, quanto al desiderio delle buone opere, da un torpore sotterraneo e crescente. Perciò è detto apertamente per mezzo di Salomone: La pigrizia fa venire sonno (Prov. 19, 15). Il pigro infatti, nella rettitudine del suo sentire, si può dire che veglia, nonostante il torpore del suo non far nulla; ma si dice che la pigrizia fa venire sonno, perché, se si cessa dalla pratica del bene operare a poco a poco si perde anche la vigilanza del retto sentire. Perciò giustamente prosegue: E l’anima indolente soffrirà la fame (Prov. 19, 15). Infatti, poiché non si dirige verso l’alto col suo sforzo, con la trascuratezza di sé, si espande verso il basso, nei suoi desideri; e non essendo costretta dal vigore di interessi elevati, è ferita dalla fame di una bassa cupidigia, così che quanto più trascura di legarsi alla disciplina tanto più si dissipa, affamata, nei desideri dei piaceri. Perciò ancora dal medesimo Salomone è scritto: Ogni ozioso vive nei desideri (cf. Prov. 21, 26). Perciò la Verità stessa ci annuncia che quando uno spirito immondo è uscito da una casa questa è pura, ma se quando quello ritorna essa è vuota, viene poi occupata da spiriti tanto più numerosi (cf. Mt. 12, 44). Spesso il pigro, mentre trascura di fare le cose necessarie, alcune se le immagina difficili e altre le teme infondatamente; e trovata la scusa con cui giustificare il suo timore, pretende di dimostrare che il suo dormire in ozio non è ingiustificato. A lui bene viene detto per mezzo di Salomone: Il pigro non ha voluto arare per il freddo; dunque in estate andrà a mendicare, e non gliene daranno (Prov. 20, 4). Il pigro non ara per il freddo quando, costretto dal sonno della pigrizia, trascura di fare le opere buone che deve; non ara per il freddo quando tralascia di fare cose importanti per timore di piccoli mali in contrario. Ed è ben detto: In estate andrà a mendicare e non gliene daranno, infatti chi ora non fatica nelle buone opere, quando il sole del giudizio apparirà più bruciante, in quella estate, mendicherà senza ricevere nulla perché invano andrà a questuare all’ingresso del Regno. E di nuovo per mezzo del medesimo Salomone si dice giustamente a costui: Chi bada al vento non semina; e chi considera le nubi non miete (Qo. 11, 4). Che cosa si esprime col vento se non la tentazione degli spiriti maligni? E che cosa con le nubi, che sono mosse dal vento, se non le ostilità di uomini iniqui? Evidentemente, le nubi sono spinte dai venti perché gli uomini iniqui sono eccitati dal soffio degli spiriti immondi; pertanto, chi bada al vento non semina, e chi considera le nubi non miete mai, perché chi teme la tentazione degli spiriti maligni e chi teme la persecuzione di uomini iniqui né semina il grano delle buone opere né taglia i covoni della santa retribuzione. Al contrario, i precipitosi che prevengono il tempo delle buone azioni, ne pervertono il merito e spesso cadono nel male perché non hanno alcun discernimento del bene. Essi non indagano quale sia il momento giusto di compiere qualcosa, ma per lo più se ne rendono conto solo quando l’hanno fatta, con l’accorgersi che così non avrebbero dovuto farla. Ad essi, come a chi ascolta, viene detto da Salomone: Figlio, non fare nulla senza consiglio, e dopo che l’hai fatto non ti pentirai (Sir. 32, 24). E ancora: Le tue palpebre precedano i tuoi passi (Prov. 4, 25). Le palpebre precedono i passi quando retti consigli prevengono il nostro agire. Chi infatti trascura di considerare in precedenza ciò che prevede di fare, drizza i suoi passi, chiude gli occhi e giunge al termine del suo cammino, ma non si fa precedere dalle sue stesse previsioni e perciò cade a terra più rapidamente, perché non fa attenzione, attraverso la palpebra del consiglio, a dove deve mettere il piede dell’opera.

 

16 — Come si devono ammonire i mansueti e gli iracondi

 

Diverso è il modo di ammonire i mansueti e gli iracondi. Spesso infatti, quando i mansueti hanno qualche responsabilità di guida, soffrono di una certa lentezza di decisione unita alla loro mitezza; e per lo più, per via di una pacatezza eccessivamente rilassata, addolciscono oltre il necessario il vigore della severità. Al contrario, gli iracondi, quando ricevono posti di governo, quanto più si lasciano travolgere dall’impeto dell’ira all’esagitazione della mente, tanto più turbano anche la vita dei sudditi disperdendone la tranquillità e la pace. Quando il furore li spinge a trascendere inconsideratamente, ignorano ciò che fanno nell’impeto dell’ira e anche il male che nell’impeto dell’ira ricevono da se stessi. Spesso però, ciò che è più grave, giudicano lo stimolo della propria ira zelo di giustizia; e quando il vizio passa per una virtù, senza timore si accumula colpa su colpa. Infatti, spesso, i mansueti intorpidiscono per la noia della rilassatezza; e gli iracondi peccano per zelo di rettitudine. Pertanto, per i primi, si tratta di un vizio che nascostamente si aggiunge a una virtù; agli altri invece, il proprio vizio appare come virtù ardente. Dunque, bisogna ammonire quelli a fuggire ciò che hanno presso di sé, e questi a badare a ciò che hanno in sé; quelli discernano ciò che non hanno, questi ciò che hanno: i mansueti abbraccino la sollecitudine; gli iracondi bandiscano l’agitazione. Bisogna ammonire i mansueti che si studino di avere spirito di emulazione per la giustizia; e gli iracondi ad aggiungere la mansuetudine a questo medesimo spirito che essi credono di possedere. Perciò infatti lo Spirito Santo ci si è mostrato come colomba e come fuoco, per presentarci tutti quelli che riempie, mansueti per la semplicità della colomba e ardenti per il fuoco dello zelo. Pertanto, non è pieno dello Spirito Santo né colui che, tranquillo della sua mansuetudine, tralascia il fervore dello zelo, né colui che ancora per l’ardore dello zelo, perde la virtù della mansuetudine. Ma forse ci spieghiamo meglio se portiamo come esempio il magistero di Paolo, il quale, a due discepoli, forniti di non diversa carità, dà tuttavia consigli diversi, per la predicazione. Infatti, ammonendo Timoteo dice: Confuta, esorta e rimprovera con ogni pazienza e dottrina (2 Tim. 4, 2); ammonisce anche Tito dicendo: Di’ queste cose ed esorta e confuta con ogni autorità (Tit. 2, 15). A che cosa si deve che egli applichi tanto sapientemente la sua dottrina che, nel proporla, ad uno consiglia l’autorità e all’altro la pazienza, se non al fatto che conosceva lo spirito più mansueto di Tito e quello un poco più fervido di Timoteo? Perciò infiamma quello, con l’amore dello zelo e modera questo, con la dolcezza della pazienza: aggiunge ciò che manca all’uno e toglie ciò che è di troppo nell’altro; si sforza di stimolare il primo e di frenare il secondo, e come grande agricoltore della Chiesa che ha ricevuto, annaffia alcuni rami perché crescano, e altri che vede crescere più del normale li pota affinché non accada che, o non crescendo non portino frutto o crescendo eccessivamente perdano quello che hanno già dato. Ma è molto diversa l’ira che accompagna l’emulazione per la giustizia, dall’ira che turba un cuore agitato e senza pretesto di giustizia. Nel primo caso, infatti, essa si estende disordinatamente a ciò che è doveroso, nell’altro invece si accende sempre indebitamente. Perciò bisogna sapere che gli impazienti differiscono dagli iracondi in ciò, che quelli non sopportano ciò che viene loro imposto da altri; questi invece sono loro a provocare ciò che gli altri devono sopportare. Infatti gli iracondi, spesso, assalgono anche coloro che si ritirano, provocano occasioni di risse, godono di affaticarsi in contese. Costoro tuttavia si correggono meglio se ci si tira indietro nell’eccitazione della loro ira, perché in quel momento ignorano ciò che viene detto loro, ma ritornati in sé, accolgono tanto più liberamente le parole di esortazione quanto più arrossiscono di essere stati sopportati in pace. Giacché, qualunque cosa giusta si dica a una mente ebbra di furore, le parrà sempre sbagliata. Perciò anche, a Nabal ubriaco, Abigail tacque lodevolmente la sua colpa che, altrettanto lodevolmente, gli disse solo quando egli ebbe smaltito il vino (cf. 1 Sam. 25, 37); e perciò egli poté conoscere il male che aveva compiuto e che non gli fu detto quando era ubriaco. Quando però gli iracondi assalgono gli altri in modo che essi non possano in alcuna maniera ritirarsi, bisogna affrontarli non con aperto rimprovero ma usando verso di loro il riguardo di un certo cauto rispetto. Cosa che si intende meglio con l’esempio di Abner. Di lui, quando Asael lo inseguiva con violenza precipitosa e incauta, è scritto: Abner parlò ad Asael dicendo: Ritirati, non inseguirmi che io non sia costretto a trafiggerti in terra. Ma quello disprezzò l’avvertimento e non volle ritirarsi. Allora Abner lo colpi con la parte posteriore della lancia, nell’inguine, e lo trafisse e mori (2 Sam. 2, 22-23). E di chi è figura Asael se non di coloro che quando il furore li coglie con violenza, li trascina a precipizio? Costoro sono da evitare tanto più cautamente nell’impeto dell’ira in quanto ne sono anche trascinati come folli; perciò anche Abner — che nella nostra lingua significa lucerna del padre — fugge; perché la lingua dei maestri, che indica la luce celeste di Dio, quando vede la mente di qualcuno portata per i precipizi del furore, e trascura di restituire le frecce delle sue parole contro l’irato, è come chi non vuol ferire il suo persecutore.

Ma quando gli iracondi non si acquietano con alcun ragionamento e, come Asael non cessano di perseguitare e comportarsi da pazzi, è necessario che coloro i quali cercano di trattenere i furiosi, non si erigano anch’essi con furore, ma mostrino tutta la possibile tranquillità; facciano cioè qualche sottile osservazione che colpisca indirettamente l’animo di colui che infuria. Perciò anche Abner, quando ristette contro colui che lo inseguiva, non lo trapassò con la lancia diritta ma rovesciata; poiché percuotere con la punta corrisponde ad affrontare d’impeto con un aperto rimprovero; invece, ferire con la parte posteriore della lancia vale toccare tranquillamente il furioso con qualche argomento e vincerlo quasi risparmiandolo. Asael tuttavia cadde subito perché le menti eccitate, mentre sentono che si ha riguardo per loro, toccate con tranquillità nell’intimo dalla ragionevolezza delle risposte, cadono improvvisamente da quello stato di esaltazione a cui si erano innalzati. Così, coloro che sotto un leggero colpo piombano dall’impeto del loro ardore, sono come chi muore quasi senza ricevere ferita di spada.

 

17 — Come si devono ammonire gli umili e gli orgogliosi

 

Diverso è il modo di ammonire gli umili e gli orgogliosi. Ai primi bisogna suggerire quanto sia vera quella superiorità che possiedono nella speranza; gli altri bisogna persuaderli quanto nulla valga la gloria temporale che essi, pur tenendola stretta, non possiedono. Ascoltino gli umili quanto è eterno ciò a cui aspirano e quanto è transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino quanto è passeggero ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono. Ascoltino gli umili, dalla maestra voce della Verità: Chi si umilia sarà esaltato (Lc. 18, 14); ascoltino gli orgogliosi: Chi si esalta sarà umiliato (Lc. 18, 14). Ascoltino gli umili: L’umiltà precede la gloria (Prov. 15, 33); ascoltino gli orgogliosi: Lo spirito si esalta prima della rovina (Prov. 16, 18). Ascoltino gli umili: A chi volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme le mie parole? (Is. 66, 2); ascoltino gli orgogliosi: Perché insuperbisce la terra e la cenere? (Sir. 10, 9). Ascoltino gli umili: Dio volge lo sguardo alle cose umili (Sal. 137, 6); ascoltino gli orgogliosi: e conosce da lontano le alte (Sal. 137, 6). Ascoltino gli umili: Poiché il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire (Mt. 20, 28); ascoltino gli orgogliosi: poiché la superbia è l’inizio di ogni peccato (Sir. 10, 15). Ascoltino gli umili: poiché il nostro Redentore umiliò se stesso fatto obbediente fino alla morte (Fil. 2, 8); ascoltino gli orgogliosi ciò che è scritto del loro capo: Egli è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25). Dunque, la superbia del diavolo fu l’occasione della nostra perdizione, e l’umiltà di Dio fu trovata argomento della nostra redenzione. Infatti il nostro nemico, creatura come tutte, volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro Redentore, pur rimanendo grande su tutte,. si degnò di diventare piccolo fra tutte. Si dica dunque agli umili che nel loro abbassarsi si elevano alla somiglianza di Dio; si dica agli orgogliosi che con il loro innalzarsi cadono ad imitazione dell’angelo apostata. Perciò, che cosa c’è di più basso dell’orgoglio, che nel tendersi al di sopra di sé si allontana dalla misura della vera altezza? E che cosa è più sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi fino al fondo si unisce al suo Creatore, il quale rimane al di sopra dell’altezza più eccelsa? C’è tuttavia dell’altro che in essi si deve valutare con prudenza, poiché spesso alcuni restano ingannati dalla apparenza di umiltà e altri peccano per ignoranza del proprio orgoglio. Spesso infatti ad alcuni che si stimano umili si unisce un timore che non deve essere portato a uomini; mentre non di rado l’affermazione di una propria franchezza accompagna gli orgogliosi; e così, quando bisogna rimproverare certi vizi altrui, i primi tacciono per timore, e tuttavia pensano di tacere per umiltà; i secondi invece parlano con l’impazienza dell’orgoglio e si immaginano di parlare mossi da una libera rettitudine. Dunque, la colpa della paura, sotto l’apparenza dell’umiltà, trattiene quelli dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto l’immagine di uno spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio spinge questi a fare rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel che devono. Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non essere franchi di quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di quanto è opportuno, affinché i primi non voltino in difesa della giustizia l’esercizio della superbia, e i secondi, quando si applicano a sottomettersi agli uomini più del necessario, non siano spinti a rispettare anche i loro vizi. Bisogna però considerare che spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se mescoliamo le correzioni con qualche incoraggiamento di lode. Infatti, bisogna riconoscere altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire almeno quelle che potrebbero esserci; solo allora si deve togliere quanto c’è in loro di male che a noi dispiace, quando cioè è stato fatto precedere il ricordo delle loro cose buone e che ci piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a un ascolto placato. Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con mano leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le frustate; e a un bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza del miele perché ciò che deve giovare alla salute non debba essere gustato proprio col sapore di un’aspra amarezza; e invece, mentre il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore mortifero viene espulso con l’amarezza. Pertanto, nell’accusa rivolta agli orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché con l’accoglimento degli elogi che amano, essi accettino insieme le correzioni che odiano. Ma spesso possiamo persuadere meglio e più utilmente gli orgogliosi, se facciamo passare il loro progresso piuttosto come pin vantaggioso per noi che per loro, se chiediamo che il loro miglioramento si compia più per noi che per loro stessi. Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la propria condiscendenza giovi ad altri. Perciò Mosè che aveva Dio come guida e attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria, volendo allontanare il suo parente Hobab dalla consuetudine pagana e sottometterlo alla signoria di Dio onnipotente, [lo pregò dicendo]: Noi partiamo per il luogo che il Signore ci darà; vieni con noi affinché ti facciamo del bene perché il Signore ha promesso dei beni a Israele. Ma poiché quello gli rispose: Non verrò con te ma ritornerò alla terra dove sono nato, aggiunse subito: Non ci abbandonare, perché tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo porre l’accampamento e sarai nostra guida (Num. 10, 29 ss.). Certo l’ignoranza riguardo al viaggio non angustiava l’animo di Mosè, lui che la conoscenza della divinità aveva dilatato alla scienza della profezia; che la colonna precedeva all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione assidua con Dio istruiva, all’interno, su ogni cosa. Ma evidentemente, da uomo avveduto, che stava trattando con un ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto per poterglielo dare: cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere guida alla vita. E agi in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si sentiva considerato necessario; ma proprio nello stimarsi come colui che precede chi lo esorta, di fatto obbediva alle sue parole.

 

18 — Come si devono ammonire gli ostinati e gli incostanti

 

Diverso è il modo di ammonire gli ostinati e gli incostanti. Ai primi bisogna dire che essi si stimano più di quello che sono e perciò non acconsentono ai consigli altrui; i secondi bisogna convincerli che poiché si disprezzano e non hanno alcuna considerazione di sé, i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano il loro giudizio a seconda dei momenti. A quelli bisogna dire che se non si stimassero migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla propria decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque l’attenzione del proprio animo a ciò che sono, il vento dell’instabilità non li trascinerebbe per tanta diversità di posizioni. A quelli è detto per mezzo di Paolo: Non siate prudenti presso voi stessi (Rom. 12, 6). Al contrario, questi si sentono dire: Non facciamoci portare in giro da ogni vento di dottrina (Ef. 4, 14). Di quelli, per mezzo di Salomone è detto: Mangeranno il frutto della loro via e si sazieranno dei loro consigli (Prov. 1, 31). Di questi, ancora lo stesso scrive: Il cuore degli stolti sarà mutevole (Prov. 15, 7). Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel bene operare. Ma il cuore degli stolti è mutevole perché mostrandosi vario nell’instabilità, non rimane mai ciò che è stato prima. E poiché certi vizi, come ne generano altri da se stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto più riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più asciughiamo la fonte stessa della loro amarezza. E in effetti, l’ostinazione è generata dalla superbia, l’incostanza dalla leggerezza. Perciò bisogna ammonire gli ostinati a riconoscere l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di lasciarsi vincere dai giusti consigli di altri, interiormente non siano tenuti prigionieri dalla superbia. Bisogna ammonirli a considerare che il Figlio dell’uomo, che ha sempre una sola volontà col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la nostra volontà, dice: Non cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che mi ha mandato (Gv. 5, 30). Egli che, per meglio raccomandare la grazia di questa virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio, dicendo: Io non posso fare nulla da me stesso, ma come ascolto giudico (Gv. 5, 30). Dunque, con quale coscienza l’uomo disdegna di sottostare alla volontà altrui, quando il Figlio di Dio, e dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua potenza, afferma di non giudicare da se stesso? Al contrario, bisogna ammonire gli incostanti a rafforzare la loro mente con la fermezza Infatti essi inaridiscono in sé i frutti della mutevolezza, se prima strappano dal cuore la radice della leggerezza, perché si costruisce un edificio stabile quando si provvede prima un luogo solido in cui porre le fondamenta. Pertanto, se prima non si provvede a togliere la leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza del pensiero. Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando dice: Ho forse usato della leggerezza? Oppure penso secondo la carne così che in me ci siano il si e il no? (2 Cor. 1, 17). Come se dicesse apertamente: Non sono mosso dal vento della instabilità perché non soggiaccio al vizio della leggerezza.

 

19 — Come si devono ammonire gli intemperanti nel cibo e i parchi

 

Diverso è il modo di ammonire i golosi e i temperanti. Infatti nei primi il vizio è accompagnato dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza dell’operare e dalla lussuria; agli altri si unisce spesso l’impazienza e spesso anche la superbia. Infatti, se la loquacità smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si dice che banchettava splendidamente ogni giorno non sarebbe stato arso più gravemente nella lingua. Infatti dice: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a bagnare la punta del suo dito nell’acqua, per dare sollievo alla mia lingua, perché sono tormentato in questa fiamma (Lc. 16, 24). Con queste parole, certamente si mostra che banchettando ogni giorno, aveva peccato più frequentemente con la lingua, egli che pur ardendo tutto cercava refrigerio soprattutto per essa. E ancora l’autorità della Sacra Scrittura attesta che la leggerezza dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo: Il popolo si sedette per mangiare e bere, e si alzò per divertirsi (Es. 32, 6). E spesso la voracità trascina costoro fino alla lussuria, perché quando il ventre si distende nella sazietà, si eccitano gli stimoli della libidine. Perciò all’astuto nemico, che apri la sensualità del primo uomo alla bramosia del frutto e la strinse poi col laccio del peccato, è detto dalla voce divina: Striscerai sul petto e sul ventre (cf. Gen. 3, 14), come se gli venisse detto apertamente: dominerai suoi cuori umani coi pensieri cattivi e la golosità. Che poi la lussuria tenga dietro ai golosi, lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è manifesto denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi distrusse le mura di Gerusalemme (cf. 2 Re, 25, 10. LXX). Infatti il principe dei cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da parte dei cuochi, perché possa riempirsi di cibi nel piacere. Le mura di Gerusalemme poi, sono le virtù dell’anima innalzate verso il desiderio della pace celeste. Pertanto il principe dei cuochi abbatte le mura di Gerusalemme, perché mentre il ventre si distende per la ingordigia, le virtù dell’anima vengono distrutte dalla lussuria. Al contrario, se per lo più, la impazienza non scuotesse le menti dei temperanti dalla loro tranquillità, Pietro non direbbe: Sforzatevi di unire la virtù alla vostra fede, e alla virtù la scienza e alla scienza la temperanza; per aggiungere subito oculatamente: e alla temperanza la pazienza (2 Pt. 1, 5). Ammoni cioè i temperanti ad avere quella pazienza che sapeva mancare loro. E ancora: se la colpa della superbia non trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non avrebbe detto affatto: Chi non mangia non giudichi chi mangia (Rom. 14, 3). E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza, aggiunse: Tutte cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro religiosità umiltà e austerità del corpo, ma non hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne (Col. 2, 23). In ciò va notato che nella sua argomentazione, il predicatore egregio accosta alla scrupolosità un certo aspetto di umiltà, poiché quando il corpo viene indebolito più del necessario dall’astinenza, si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per questa umiltà si insuperbisce gravemente nell’intimo. E se non fosse vero che l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio per la virtù dell’astinenza, il fariseo non avrebbe enumerato con diligente presunzione questa virtù fra i suoi grandi meriti, dicendo: Digiuno due volte la settimana (Lc. 18, 12). Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre sono dediti al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della lussuria, e vedano con quanta forza, attraverso il mangiare, li insidiano la loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre servono con la mollezza il ventre non si trovino crudelmente stretti nei lacci dei vizi. Infatti, tanto più ci si allontana dal secondo genitore quanto più, col tendere la mano ad uso smodato del cibo, si ripete la caduta del primo genitore. Ma al contrario, bisogna ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi ancora peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito erompa nell’impazienza. Poiché la vittoria sulla carne non costituisce più una virtù, se lo spirito si lascia vincere dall’ira. Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo corrompe, e il bene della astinenza si perde quanto meno si custodisce dai vizi spirituali. Perciò giustamente è detto per mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni si manifestano le vostre volontà (cf. Is. 58, 3 - LXX). E poco dopo: Voi digiunate nelle liti e nelle risse e fate a pugni (cf. Is. 58, 4). La volontà si riferisce alla gioia e il pugno all’ira. Invano dunque si prostra il corpo con l’astinenza, se il cuore, abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi. E ancora, bisogna ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre intatta, senza credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa presso il Giudice occulto, perché se si dovesse credere che in essa ci sia gran merito, il cuore non si esalti nell’orgoglio. Perciò infatti è detto per mezzo del profeta: È forse questo il digiuno che ho scelto? Spezza invece il tuo pane a chi ha fame e conduci a casa tua i pellegrini bisognosi (Is. 58, 5.7). In ciò dunque bisogna considerare come viene stimata piccola la virtù dell’astinenza, che non si raccomanda se non per la presenza di altre virtù. Perciò Gioele dice: Santificate il digiuno (Gioe. 1, 14). Infatti, santificare il digiuno significa mostrare a Dio una astinenza del corpo resa degna per l’aggiunta di altre virtù. Bisogna ammonire i temperanti a tenere presente che essi offrono un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che sottraggono al proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi. Bisogna sapientemente ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del profeta, dicendo: Quando digiunavate e piangevate, il quinto e il settimo mese, per questi settant’anni, forse facevate un digiuno per me? E quando avete mangiato e bevuto, non avete mangiato forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? (Zac. 7, 5 s.). Infatti non si digiuna per Dio ma per sé, quando ciò che in certi tempi si sottrae al ventre, non lo si distribuisce ai bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo di nuovo al ventre in altri momenti. E così, affinché la golosità non faccia decadere gli uni dalla stabilità dello spirito, e la mortificazione della carne non faccia inciampare gli altri con l’orgoglio, ascoltino i golosi dalla bocca della Verità: Badate a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni di questo mondo (Lc. 21, 34). E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E sopravvenga improvviso su di voi quel giorno. Infatti sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra (Lc. 21, 35). E i temperanti ascoltino: Non ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo (Mt. 15, 11). Ascoltino i golosi: Il cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi: ma Dio distruggerà questi e quello (Cor. 6, 13). E ancora: Non in gozzoviglie e ubriachezze (Rom. 13, 13). E ancora: Il cibo non ci raccomanda a Dio (Cor. 8, 8). Ascoltino i temperanti: Perché tutto è puro per i puri; ma per i corrotti e gli infedeli niente è puro (Tit. 1, 15). Ascoltino i golosi: Loro dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro vergogna (Fil. 3, 19). Ascoltino i temperanti: Alcuni si allontaneranno dalla fede (1 Tim. 4, 1); e poco dopo: Alcuni proibiscono di sposarsi, vogliono che ci si astenga dai cibi, che Dio ha creato perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e da coloro che hanno conosciuto la verità (1 Tim. 4, 3). Ascoltino i golosi: È bene non mangiare carne e non bere vino, né ciò, per cui il tuo fratello si scandalizza (Rom. 14, 21). Ascoltino i temperanti: Prendi un poco di vino per via dello stomaco e delle tue frequenti debolezze (1 Tim. 5, 23). Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare disordinatamente i cibi della carne e gli altri non osino condannare ciò che essi non desiderano e tuttavia è stato creato da Dio.

 

20 — Come si devono ammonire coloro che distribuiscono i propri beni e coloro che rapiscono quelli altrui

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che già elargiscono i propri beni con misericordia, e coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri. I primi infatti bisogna ammonirli a non innalzarsi con pensiero superbo su coloro a cui elargiscono i beni terreni, e non si stimino migliori perché vedono gli altri sostenuti coi loro mezzi. Infatti il padrone di una casa terrena, nel distribuire i ruoli e i servizi dei servi, stabilisce questi a governare e quelli a essere governati dagli altri. Ordina ai primi di provvedere il necessario ai secondi, e a questi di prendere ciò che hanno ricevuto da quelli. E tuttavia spesso coloro che governano, dispiacciono al padrone di casa, e restano invece nella sua grazia coloro che sono governati. Coloro che sono dispensatori si trovano a meritare la sua ira; gli altri, che sottostanno alla distribuzione fatta dai primi, restano senza ricevere danno. Dunque, bisogna ammonire coloro che già dispensano con misericordia ciò che possiedono, a riconoscersi come posti dal Padrone celeste a dispensare aiuti temporali, e a offrirli tanto più umilmente quanto più capiscono che quel che dispensano è roba altrui. E quando considerano di essere stati costituiti nel servizio di coloro cui elargiscono i beni ricevuti, la superbia non esalti il loro animo, ma lo trattenga invece il timore. Perciò è necessario che badino con grande cura a non distribuire in modo indegno i beni che gli sono stati affidati, e a darne così a chi non devono darne, o a non darne affatto a chi devono qualcosa; a dare molto a chi devono dar poco, o a darne poco a chi devono dar molto; a disperdere inutilmente, per precipitazione, ciò che distribuiscono o a tardare a dare a chi chiede, affliggendolo così in modo colpevole. Non si insinui qui l’intenzione di ricevere gratitudine; e il desiderio di una lode passeggera non estingua lo splendore del donare. L’offerta del dono non sia accompagnata da una opprimente tristezza, ma neppure l’animo di chi offre si rallegri più del conveniente; e quando avranno compiuto tutto per bene, non attribuiscano nessun merito a se stessi così da perdere, tutto in una volta, quanto di bene hanno compiuto. Infatti, per non attribuire a sé la virtù della propria liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Se qualcuno esercita un ufficio, lo faccia secondo la capacità che Dio gli comunica (1 Pt. 4, 11). Per non gioire smodatamente delle proprie beneficenze, ascoltino ciò che è scritto: Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare (Lc. 17, 10). E perché la tristezza non guasti la liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Dio ama chi dà con gioia (2 Cor. 9, 7). Affinché non cerchino una lode passeggera in cambio del dono, ascoltino ciò che è scritto: Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt. 6, 3), cioè: a un dono fatto con intenzione pia, non si mescoli la gloria della vita presente, e il desiderio della lode non tocchi un’azione giusta. Affinché non cerchino il contraccambio della grazia fatta, ascoltino ciò che è scritto: Quando fai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici o i tuoi fratelli o i parenti o i vicini ricchi, perché non avvenga che essi ti ricambino l’invito e tu ne abbia il compenso; invece, quando fai un pranzo, invita i poveri, i malati, gli zoppi, i ciechi; e sarai beato perché loro non hanno da restituirti (Lc. 14, 12 ss.). E affinché non si tardi a dare ciò che va dato in fretta, ascoltino ciò che è scritto: Non dire al tuo amico: Va’ e ritorna e domani ti darò, quando puoi dare subito (Prov. 3, 28). Affinché, sotto il pretesto della liberalità, non dissipino inutilmente ciò che possiedono, ascoltino ciò che è scritto: Sudi, l’elemosina nella tua mano. E perché non diano poco là dove è necessario molto, ascoltino ciò che è scritto: Chi semina con parsimonia, mieterà pure con parsimonia (2 Cor. 9, 6). Affinché, dove basta poco non offrano molto, e poi loro stessi, non potendo in alcun modo sopportare l’indigenza, erompano nell’impazienza, ascoltino ciò che è scritto: Non perché ci sia sollievo per gli altri e tribolazione per voi, ma perché nell’uguaglianza, la vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, e la loro abbondanza venga a supplire la vostra indigenza (2 Cor. 8, 13-14). Infatti, quando l’animo di chi dà non sa sopportare l’indigenza, se si priva di molto cerca un’occasione di impazienza contro se stesso. Poiché prima bisogna predisporre l’animo alla pazienza e solo allora distribuire molto o anche tutto, perché non vada perduta la mercede della liberalità prestata; e la mormorazione che inoltre si aggiungerebbe non faccia perire più gravemente l’anima per il fatto che non si riesce a sopportare in pace l’improvviso bisogno. Affinché non avvenga che non diano nulla affatto a coloro cui qualcosa, anche poco, bisogna dare, ascoltino ciò che è scritto: Da’ a chiunque ti chiede (Lc. 6, 30). Ma affinché non diano, anche poco, a chi non debbono assolutamente nulla, ascoltino ciò che è scritto: Da’ al buono e non accogliere il peccatore: fa’ il bene all’umile e non dare all’empio (Sir. 12, 5-6). E ancora: Poni il tuo pane e il tuo vino sul sepolcro del giusto, e non mangiarne né berne insieme con i peccatori (Tob. 4, 18). Infatti offre ai peccatori il suo pane e il suo vino colui che dà sussidi agli iniqui perché sono iniqui; perciò anche parecchi ricchi di questo mondo, mentre i poveri di Cristo sono afflitti dalla fame, mantengono con effusa liberalità gli istrioni. Chi invece dà il suo pane a un povero, anche peccatore, non perché è peccatore ma perché è uomo, evidentemente non mantiene un peccatore ma un povero giusto, poiché in lui non ama la colpa ma la. natura. Bisogna ammonire coloro che già distribuiscono i propri beni con misericordia, ad attendere con gran cura, mentre le elemosine redimono i peccati commessi, a non commetterne degli altri; e non stimino venale la giustizia di Dio così da pensare di poter peccare impunemente proprio mentre si preoccupano di distribuire denari per i peccati. Infatti l’anima vale più del cibo e il corpo più del vestito (Mt. 6, 25); chi allora dà cibo o vestito ai poveri, ma si macchia con l’iniquità dell’anima o del corpo, ha offerto ciò che vale di meno alla giustizia e ciò che vale di più al peccato; infatti, a Dio ha dato i suoi beni, e al diavolo se stesso. Al contrario, bisogna ammonire coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri, ad ascoltare con sollecitudine quanto dice il Signore venendo al giudizio. Infatti dice: Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero pellegrino e non mi avete accolto, nudo e non mi avete coperto, infermo e in carcere e non mi avete visitato (Mt. 25, 42-43). E ad essi, subito prima dice: Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli (Mt. 25, 41). Ecco, quelli non ascoltano affatto questa sentenza perché abbiano commesso rapine e ogni genere di violenze, ma tuttavia vengono abbandonati al fuoco dell’eterna geenna. Da ciò bisogna dedurre quanto sarà grande la pena che colpirà coloro che rapiscono i beni altrui, se vengono colpiti con una punizione tanto grande coloro che semplicemente conservano troppo gelosamente i propri. Valutino con quale peccato li avvince il bene rapito se quello che non è stato semplicemente partecipato sottopone a una tale pena. Valutino che cosa meriti una ingiustizia inferta, se è degno di così grande castigo l’avere mancato di offrire pietà. Quando si propongono di rubare i beni altrui, ascoltino ciò che è scritto: Guai a colui che moltiplica i beni non propri: fino a quando accumula contro di sé denso fango? (Ab. 2, 6). Per un avaro, cioè, accumulare il peso di denso fango significa accumulare guadagni terrestri col peso del peccato. Quando bramano di dilatare sempre più l’ampiezza della loro abitazione, ascoltino ciò che è scritto: Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campi a campi fino ai confini del paese. Forse abitate solo voi in mezzo alla terra? (Is. 5, 8). Come se dicesse apertamente: Fin dove volete estendervi, voi che, in questo mondo che è di tutti, non potete avere altri partecipi della vostra fortuna? In effetti voi opprimete i vostri vicini, ma trovate sempre contro chi farvi valere per estendervi. Quando anelano ad aumentare il loro denaro, ascoltino ciò che è scritto: L’avaro non si riempie col denaro e chi ama le ricchezze non trarrà frutto da esse (Qo. 5, 9). Certo ne trarrebbe frutto se volesse distribuirle bene senza amarle, ma chi le conserva con amore le abbandonerà assolutamente senza frutto. Quando ardono di riempirsi di tutte le ricchezze insieme, ascoltino ciò che è scritto: Chi ha fretta di arricchirsi non sarà senza colpa (Prov. 28, 20); infatti è certo, che chi aspira ad aumentare le sue ricchezze, trascura di evitare il peccato e, catturato come un uccello, mentre fissa avidamente l’esca di beni terreni, non si accorge da quale laccio di peccato resta strangolato. Quando desiderano guadagni di qualsiasi genere, del mondo presente, e ignorano i danni che dovranno patire in quello futuro, ascoltino ciò che è scritto: L’eredità per la quale ci si affretta in principio, alla fine non avrà benedizione (Prov. 20, 21). Cioè, da questa vita noi traiamo inizio per giungere a ottenere benedizione alla fine; pertanto, chi ha fretta di ereditare in principio, taglia via da sé la sorte della benedizione alla fine. Poiché, mentre per il peccato di avarizia bramano di moltiplicare qui i loro beni, là resteranno diseredati del patrimonio eterno. Quando o ambiscono a molti beni o possono raggiungere tutto quanto hanno ambito, ascoltino ciò che è scritto: Che cosa giova all’uomo se guadagna tutto il mondo ma reca danno alla sua anima? (Mt. 16, 26). È come se la Verità dicesse apertamente: Che cosa giova all’uomo raccogliere tutto quello che esiste fuori di lui, se danna questa sola cosa che è lui stesso? Tuttavia spesso si corregge più rapidamente l’avarizia degli uomini rapaci, se nelle parole di chi li ammonisce si dimostra quanto sia fugace la vita presente; se si richiama la memoria di coloro che a lungo hanno cercato di arricchire in questa vita e tuttavia non poterono restare a lungo a godere delle ricchezze ottenute, poiché la morte improvvisa, di colpo e tutto in una volta, ha portato via tutto ciò che, non di colpo né tutto in una volta, la loro iniquità aveva messo insieme; ed essi non solamente lasciarono qui le ricchezze rubate, ma condussero con sé, al giudizio, le accuse di rapina. Ascoltino dunque gli esempi offerti da costoro, che senza dubbio loro stessi condannano a parole, affinché quando queste parole di condanna rientrano nel loro cuore, arrossiscano almeno di imitare coloro che giudicano.

 

21 — Come bisogna ammonire coloro che non bramano i beni altrui, ma si tengono i propri e coloro che pur distribuendo i propri, rapiscono tuttavia quelli degli altri

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri; e coloro che distribuiscono i beni che hanno e tuttavia non desistono di rapire quelli altrui. Bisogna ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri, a sapere che quella terra dalla quale sono stati presi è comune a tutti gli uomini e perciò produce anche i mezzi di sopravvivenza a tutti allo stesso modo. Pertanto vanamente si considerano innocenti coloro che rivendicano ad uso privato il dono comune di Dio; i quali, quando non distribuiscono ciò che hanno ricevuto, operano in qualche modo l’assassinio del prossimo; perché quasi ogni giorno ne uccidono tanti, quanti sono i poveri che muoiono mentre essi nascondono presso di sé quegli aiuti che erano loro. Infatti, quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene; e assolviamo piuttosto a un debito di giustizia più che compiere opere di misericordia. Perciò la Verità stessa parlando di nome non bisogna ostentare la misericordia, dice: Badate di non fare la vostra giustizia davanti agli uomini (Mt. 6, 1). E a ciò si accorda pure il salmista che dice: Disperse, diede ai poveri, la sua giustizia rimane in eterno (Sal. 111, 9). Infatti, dopo avere nominato la liberalità esercitata verso i poveri, preferisce chiamarla giustizia e non misericordia, poiché è certamente giusto che quanto viene distribuito dal comune Signore, chiunque ne riceve lo usi a vantaggio comune. Perciò anche Salomone dice: Chi è giusto darà e non cesserà (Prov. 21, 26). Bisogna anche ammonirli a stare molto attenti che l’agricoltore esigente si lamenta contro il fico che non dà frutto perché, oltre a ciò, tiene occupato il terreno. Il fico, cioè, tiene il terreno occupato senza frutto quando l’animo degli avari conserva inutilmente ciò che avrebbe potuto giovare a molti. Il fico occupa senza frutto il terreno quando lo stolto opprime con l’ombra della pigrizia un luogo che un altro sarebbe stato in grado di sfruttare col sole delle buone opere. Costoro tuttavia spesso sogliono dire: Usiamo ciò che ci è stato dato e non cerchiamo la roba d’altri, e se non agiamo in modo degno di una ricompensa di misericordia, tuttavia non commettiamo nulla di male. E pensano così perché evidentemente chiudono l’orecchio del cuore alle parole celesti; infatti neppure il ricco dell’Evangelo, che vestiva di porpora e di bisso e banchettava splendidamente ogni giorno (cf. Lc. 16, 19 ss.), aveva rapito i beni altrui, ma è dimostrato che egli aveva usato dei propri senza frutto; e dopo questa vita lo accolse la geenna vendicatrice, non perché aveva compiuto qualcosa di illecito, ma perché si era dato tutto alle cose lecite con uso smodato. Bisogna ammonire questi avari a rendersi conto che la prima offesa la fanno a Dio, poiché a colui che dà loro tutto, essi non rendono alcun sacrificio di misericordia. Perciò il salmista dice: Non darà a Dio la sua espiazione né il prezzo del riscatto della sua anima (Sal. 48, 8-9). Infatti dare il prezzo del riscatto è rendere una buona opera alla grazia che ci previene. Perciò Giovanni esclama: La scure è ormai alla radice dell’albero. Ogni albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco (Lc. 3, 9). Dunque, coloro che si giudicano innocenti perché non rubano i beni altrui, faranno bene a prevedere il colpo della scure vicina e a rigettare il torpore di una improvvida sicurezza, affinché, mentre trascurano di portare il frutto di buone opere, non vengano tagliati via del tutto dalla presente vita, come da una rigogliosa radice. Al contrario, bisogna ammonire coloro che distribuiscono ciò che hanno e poi non cessano di rapire i beni altrui, a non aspirare di apparire sommamente munifici e così divenire peggiori sotto l’apparenza del bene. Costoro infatti, distribuendo senza discrezione i propri beni, non solo, come abbiamo già detto, cadono nella mormorazione dell’impazienza, ma poi, costretti dal bisogno, ripiegano fino all’avarizia. Che cosa c’è dunque di più infelice dell’animo di coloro per i quali l’avarizia nasce dalla liberalità e la messe dei peccati è come avesse il suo seme nella virtù? Così bisogna innanzi tutto ammonirli a sapere conservare con raziocinio i propri beni e quindi a non ambire a quelli degli altri; se infatti la colpa non viene bruciata alla radice proprio nel suo stesso espandersi, la spina dell’avarizia, diffondendosi per i rami, non si secca mai. Pertanto si toglie l’occasione di rubare, se in precedenza si stabiliscono con chiarezza i limiti del diritto di possedere. Allora solo, coloro che sono stati così ammoniti, ascoltino in che modo devono distribuire, secondo misericordia, ciò che possiedono; cioè, quando avranno imparato a non mescolare il bene della misericordia con la malizia del furto, giacché essi ricercano poi, con la violenza, ciò che hanno elargito con la misericordia. Ma altra cosa è fare misericordia per i peccati e altra peccare per fare misericordia; che, fra l’altro, non si può nemmeno più chiamare misericordia, poiché non può dare dolce frutto l’albero che diviene amaro per il veleno di una radice pestifera. È perciò, infatti, che per mezzo del profeta il Signore rimprovera gli stessi sacrifici dicendo: Io, il Signore, che ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio (Is. 61, 8). Perciò ancora disse: Abominevoli sono i sacrifici degli empi, che vengono offerti dal delitto (Prov. 21, 27). Poiché essi spesso sottraggono anche ai poveri ciò che offrono a Dio. Ma con quanto biasimo li rifiuti, il Signore lo dimostra dicendo, per mezzo di un sapiente: Chi offre un sacrificio con le sostanze dei poveri è come uno che immola un figlio alla vista di suo padre (Sir. 34, 24). Infatti, che cosa può esserci di pila insopportabile che la morte del figlio davanti agli occhi del padre? Si manifesta così con quanta ira sia riguardato questo sacrificio che viene paragonato al dolore di un padre privato del figlio. E tuttavia spesso pesano quel che danno, ma omettono di considerare quel che rubano. Contano quel che danno come fosse una paga, ma rifiutano di pesare attentamente le colpe. Ascoltino pertanto ciò che è scritto: Chi ha raccolto le paghe le ha messe in un sacchetto bucato (Ag. 1, 6), poiché si vede, quando si mette il denaro in un sacchetto bucato, ma non si vede quando lo si perde. Pertanto, coloro che guardano a quanto elargiscono, ma non considerano quanto rapiscono, mettono le paghe in un sacchetto bucato, perché certamente le accumulano guardando alla speranza di ricompensa cui si affidano; ma senza guardare le perdono.

 

22 — Come bisogna ammonire i litigiosi e i pacifici

 

Diverso è il modo di ammonire i litigiosi e i pacifici. Infatti, i litigiosi bisogna ammonirli a sapere con assoluta certezza che, per quanto grandi siano le virtù di cui abbondano, non di meno non possono diventare spirituali, se trascurano di restare uniti al prossimo nella concordia. Poiché è scritto: Frutto, poi, dello spirito è carità, gioia, pace (Gal. 5, 22). Dunque, chi non ha cura di conservare la pace, rifiuta di portare il frutto dello spirito. Perciò Paolo dice: Dal momento che ci sono fra voi gelosie e contese, non siete carnali? (1 Cor. 3, 3). Perciò di nuovo dice pure: Cercate la pace con tutti e una vita santa senza la quale nessuno vedrà Dio (Ebr. 12, 14). Perciò ancora ammonisce dicendo: Solleciti a conservare l’unità dello spirito: nel vincolo della pace: un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza della vostra chiamata (Ef. 4, 3-4). Dunque, non si giunge all’unica speranza della chiamata se non si corre verso di essa con l’animo unito al prossimo. Ma spesso ci sono alcuni che, quanto più sono i doni particolari che ricevono, tanto più insuperbiscono perdendo il dono più grande che è quello della concordia; come sarebbe uno che soggioga la propria carne più degli altri, frenando la gola, e trascuri di andare d’accordo con coloro a cui è superiore nell’astinenza. Ma chi separa l’astinenza dalla concordia, consideri ciò che dice il salmista: Lodatelo col timpano e il coro (Sal. 150, 4). Infatti il timpano suona per la percussione di una pelle secca, invece nel coro le voci concordano tutte insieme; e così chi affligge il corpo ma abbandona la concordia, loda certo Dio col timpano, ma non lo loda col coro. Spesso, poi, una maggiore scienza, mentre innalza certuni, li divide dalla comunione con gli altri, e in un certo senso, quanto più sanno, tanto più diventano incapaci della virtù della concordia.

Dunque, costoro ascoltino che cosa dice la Verità in persona: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc. 9, 49). La sapienza, cioè, non è un dono di virtù, ma causa di condanna. Infatti, quanto più uno è sapiente, tanto più gravemente pecca, e perciò meriterà il supplizio senza possibilità di scusa, perché, se avesse voluto, con la sua prudenza avrebbe potuto evitare il peccato. A costoro è detto giustamente per mezzo di Giacomo: Che se avete zelo amaro e ci sono contese nel vostro cuore, non gloriatevi e non dite menzogne contro la verità. Questa non è sapienza che scende dall’alto, ma è sapienza terrena, animale, diabolica. Invece, la sapienza che è dall’alto, innanzitutto è pudica, quindi pacifica (Giac. 3, 14-15.17). Pudica, cioè, perché è casta nell’intendere, e pacifica perché non si separa affatto con l’esaltazione dalla comunione col prossimo. Bisogna ammonire i litigiosi a conoscere che non immolano alcun sacrificio di opere buone a Dio, per tutto il tempo in cui non concordano nella carità col prossimo. Infatti, è scritto: Se mentre offri il tuo dono all’altare ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia là il tuo dono e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi vieni a offrire il tuo dono (Mt. 5, 23-24). Da questo precetto, bisogna considerare di chi sia la offerta che viene respinta e quanto sia intollerabile la colpa che viene così indicata. Infatti, se tutti i peccati vengono cancellati per il bene compiuto in seguito, consideriamo quanto sia grande il peccato della discordia, che se non viene distrutto radicalmente non permette al bene di seguirlo. Bisogna ammonire i litigiosi, se distolgono gli orecchi dai precetti celesti, ad aprire gli occhi del cuore a considerare come si comportano le creature degli ordini più bassi; come gli uccelli di una stessa specie, volando tutti insieme non si lasciano, gli uni con gli altri; e come gli animali, che pure sono senza intelligenza, pascolano a gruppi. Poiché, se guardiamo con attenzione, la natura irrazionale nell’accordo con se stessa indica quanto sia grande il peccato che la natura razionale commette con la discordia; poiché questa, con l’applicazione della ragione, ha perduto ciò che quella custodisce per istinto naturale. Bisogna, al contrario, ammonire i pacifici, a non amare più del necessario la pace che possiedono, così da non aspirare a raggiungere quella eterna. Spesso infatti la tranquillità esteriore tenta più gravemente l’attenzione degli animi così che quanto meno moleste sono le condizioni in cui essi si trovano, tanto meno amabili divengono quelle cui sono chiamati; e quanto più dilettano le presenti, tanto meno si ricercano le eterne. Per cui, la Verità stessa, distinguendo la pace terrena da quella celeste e volendo eccitare i discepoli, dalla pace presente a quella eterna, dice: Lascio a voi la pace, vi do la mia pace (Gv. 14, 27). Lascio, cioè, la pace transitoria e do quella durevole. Se dunque il cuore si fissa in quella pace che è stata lasciata, non perviene mai a quella che deve essere data. Pertanto bisogna conservare la pace presente in modo da amarla e insieme disprezzarla, affinché, se la si ama smodatamente, l’animo dell’amante non sia colto in peccato. Perciò bisogna anche ammonire i pacifici, a non rinunciare a rimproverare i cattivi costumi degli uomini, per un eccessivo desiderio di assicurarsi una pace umana, così che, consentendo ai peccatori, non si distacchino dalla pace del loro Creatore; e mentre temono all’esterno gli improperi degli uomini, non siano colpiti dalla rottura dell’alleanza interiore. Che cos’è infatti una pace passeggera se non un’impronta della pace eterna? Che cosa ci può essere di più stolto che amare delle impronte sulla polvere e non amare la persona che ve le ha impresse? Perciò David, stringendosi tutto alla alleanza della pace interiore, afferma di non conservare la concordia coi malvagi dicendo: Non odio forse, Dio, quelli che ti odiano, e non mi struggo sopra i tuoi nemici? Li odio di un odio perfetto, sono divenuti miei nemici (Sal. 138, 21-22). Infatti, odiare i nemici di Dio con odio perfetto significa amare che essi esistano e rimproverare ciò che essi fanno; perseguire i costumi dei cattivi e giovare alla loro vita. Bisogna dunque considerare con quanta colpa si conserva la pace coi malvagi, se ci si acquieta nella rinuncia a riprenderli, dal momento che un profeta così grande offre come un sacrificio a Dio il fatto di avere eccitato contro di sé, per Dio, l’inimicizia degli empi. Perciò si dice che la tribù di Levi, impugnate le spade, percorrendo tutto l’accampamento, poiché non volle risparmiare i peccatori che meritavano di essere colpiti, consacrò la mano di Dio (cf. Es. 32, 27 ss.). Perciò Finees, disprezzando il favore di uomini peccatori, colpi coloro che si univano con le madianite e con la sua ira placò l’ira del Signore (cf. Num. 25, 9). Perciò la Verità stessa dice: Non pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace ma la spada (Mt. 10, 34). Infatti, quando incautamente stringiamo amicizia coi malvagi, ci leghiamo alle loro colpe. Perciò Giosafat che è esaltato con tanti elogi riguardo alla sua vita passata, quasi in punto di morte viene rimproverato per la sua amicizia col re Achab; a lui infatti è detto dal Signore, per mezzo del profeta: Hai portato aiuto all’empio e ti sei unito, per l’amicizia, con coloro che odiano il Signore; perciò meriteresti l’ira del Signore, ma in te sono state trovate opere buone perché hai tolto i boschi sacri dalla terra di Giuda (2 Cr. 19, 2-3). Quanto più la nostra vita concorda per l’amicizia coi perversi tanto phi, solo per questo, essa si distingue ormai da colui che è sommamente giusto. Bisogna ammonire i pacifici di non temere di turbare la propria pace temporale, se ricorrono a parole di correzione. E ancora bisogna ammonirli a conservare interiormente con intatto amore la medesima pace che esteriormente si turba per la voce alzata nell’invettiva. David mostra di avere saggiamente conservato ambedue quando dice: Con coloro che odiano la pace ero pacifico, quando parlavo con loro mi facevano guerra senza motivo (Sal. 119, 7). Ecco, quando parlava gli facevano guerra; e tuttavia anche così era pacifico, perché né cessava di rimproverare coloro che infuriavano né tralasciava di amare coloro che rimproverava. Perciò anche Paolo dice: Se è possibile, per quanto sta in voi, abbiate pace con tutti gli uomini (Rom. 12, 18). Volendo esortare i discepoli ad avere pace con tutti, premise: Se è possibile, e aggiunse: per quanto sta in voi. Poiché era difficile che potessero essere in pace con tutti se avessero dovuto rimproverare delle cattive azioni. Ma quando, per il nostro rimprovero, la pace esteriore resta turbata nei cuori dei malvagi, è necessario che essa si conservi inviolata nel nostro cuore. Perciò dice giustamente: per quanto sta in voi, come se dicesse: Poiché la pace consiste nel consenso di due parti, se essa viene cacciata da coloro che sono rimproverati, sia conservata tuttavia integra nel cuore di voi che rimproverate. Perciò lo stesso, di nuovo, ammonisce i discepoli dicendo: Se qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo con questa lettera, notatelo, e non mescolatevi con lui, affinché resti confuso (2 Tess. 3, 14). E subito aggiunge: E non consideratelo come nemico ma correggetelo come un fratello (2 Tess. 3, 15); come se dicesse: Sciogliete la pace esterna con lui, ma quella interiore riguardo a lui custoditela nel fondo del cuore, affinché il vostro dissenso ferisca il cuore del peccatore in modo che, tuttavia, non si allontani dai vostri cuori la pace che non avrete rinnegato.

 

23 — Come si devono ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace

 

Diverso è il modo di ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace. I primi bisogna ammonirli a riconoscere di chi sono seguaci, poiché è dell’angelo apostata che sta scritto, quando fu seminata la zizzania tra il buon seme: Un nemico ha fatto questo (Mt. 13, 28). E di un suo membro è anche detto, per mezzo di Salomone: L’apostata, uomo inutile, avanza con volto maligno, fa cenno con gli occhi, stropiccia col piede, parla col dito, con cuore malvagio concepisce il male, e in ogni tempo semina discordie (Prov. 6, 12). Ecco, chiama prima apostata colui che vuole chiamare seminatore di discordie, perché, se per la perversione del cuore non fosse caduto prima, interiormente, dal cospetto del Creatore — allo stesso modo dell’angelo insuperbito — non sarebbe poi uscito a seminare discordie all’esterno, lui che bene viene descritto come chi fa cenno con gli occhi, parla con le dita e stropiccia col piede. Poiché è all’interno, la custodia che conserva l’ordinato comportamento esterno delle membra. Ma chi ha perduto l’equilibrio dell’animo si abbandona, al di fuori, a movimenti scomposti, e con la mobilità esteriore indica come nessuna radice lo tenga saldo interiormente. Ascoltino i seminatori di discordie ciò che è scritto: Beati gli operatori di pace poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt. 5, 9), e traggano da ciò, inversamente, la conclusione che, se saranno chiamati figli di Dio coloro che operano la pace, sono senza dubbio figli di Satana coloro che la turbano. Ma tutti coloro che, a causa della discordia, si separano dalla pianta verde dell’amore, inaridiscono. E quantunque essi producano frutti di buone opere nelle loro azioni, questi non valgono assolutamente nulla perché non nascono dall’unità della carità. Perciò considerino, i seminatori di discordie, in quanti molteplici modi peccano, loro che, nel commettere una sola azione malvagia, di fatto sradicano dai cuori umani tutte insieme le virtù. Ma poiché nulla è più prezioso per Dio della virtù dell’amore, niente è più desiderabile dal diavolo che la distruzione della carità. Dunque, chiunque seminando discordie uccide l’amore del prossimo, serve come familiare al nemico di Dio perché, sottraendo ai cuori feriti la virtù, per la cui perdita egli cadde, taglia ad essi la via dell’ascesi spirituale. Al contrario, bisogna ammonire gli operatori di pace a non trarre con leggerezza il peso di un’azione così importante, quando non conoscano le persone tra cui debbono stabilire la pace. Infatti, come è molto dannoso che non ci sia pace tra i buoni, cos’ è dannosissimo che ci sia pace tra i cattivi. Pertanto, se la malizia dei malvagi li unisce nella pace, certo la loro forza si accresce di cattive azioni, perché quanto più concordano nel male tanto più vigorosamente si buttano ad affliggere i buoni. Perciò infatti la voce divina parlando contro gli strumenti di quel dannato, cioè contro i predicatori dell’Anticristo, dice al beato Giobbe: Le membra della sua carne congiunte fra loro (Giob. 41, 14). Perciò dei suoi satelliti si dice, sotto l’immagine delle squame: Una si congiunge all’altra e neppure un soffio passa fra di esse (Giob. 41, 7). Poiché i seguaci di quello, quanto meno sono divisi tra di loro dall’ostilità, frutto della discordia, tanto più gravemente si uniscono per la strage dei buoni. Dunque, colui che unisce gli iniqui, facendo pace fra loro, dispensa forze all’iniquità, poiché perseguitando i buoni unanimemente, li affliggono ancor peggio. Perciò l’egregio predicatore, prigioniero per la grave persecuzione di Farisei e Sadducei, vedendoli pericolosamente uniti contro di sé, curò di dividerli fra di loro, quando gridò dicendo: Fratelli, io sono Fariseo figlio di Farisei e vengo giudicato riguardo alla speranza nella risurrezione dei morti (Atti, 23, 6). E poiché i Sadducei negavano la risurrezione dei morti e la speranza in essa, mentre i Farisei ci credevano, secondo i precetti della parola divina, si creò una divisione nell’unanimità dei persecutori, e per questa Paolo usci illeso da quella turba che prima, unita, lo aveva ferocemente stretto. Pertanto bisogna ammonire coloro che si applicano a ristabilire la pace, ad infondere innanzitutto nei cuori dei malvagi l’amore della pace interiore, perché poi la pace esteriore possa giovare a loro, così che il riceverla, mentre il loro cuore è intento alla esperienza della pace intima, valga a non trascinarli al male; e mentre guardano avanti, verso la pace celeste non si servano in alcun modo di quella terrena per divenire peggiori. Ma quando i malvagi sono tali che non sono capaci di nuocere ai buoni, anche se lo desiderano, è certo che tra costoro occorre stabilire la pace terrena anche prima che essi siano in grado di conoscere quella celeste, affinché coloro che la malizia della propria empietà esaspera contro l’amore di Dio, divengano mansueti almeno per l’amore del prossimo; e passino, come partendo da ciò che è vicino, a qualcosa di migliore, cioè ascendano a quella pace del Creatore che è loro lontana.

 

24 — Come si devono ammonire gli ignoranti nella dottrina sacra e i dotti che però non sono umili

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che non intendono rettamente le parole della legge sacra e coloro che certo le intendono rettamente ma non ne parlano umilmente. I primi vanno ammoniti a considerare che essi mutano, per sé, un sanissimo bicchiere di vino in un bicchiere di veleno, e con un ferro da chirurgo, si feriscono con una ferita mortale, quando con esso uccidono ciò che in loro è sano, mentre avrebbero dovuto tagliare ciò che è malato. Bisogna ammonirli a considerare come la Sacra Scrittura sia per noi quale lampada posta nella notte della vita presente (cf. Sal. 118, 105), ma se essi non intendono rettamente le sue parole è come se quelle si oscurassero perdendo la loro luce. Certo non sarebbe un errore intenzionale a trascinarli a una comprensione distorta, se prima non li avesse gonfiati la superbia. Infatti, considerandosi più sapienti degli altri, rifiutano con disprezzo di seguirli sulla via di una migliore comprensione, e per estorcere, all’autorità dell’opinione del volgo, il nome di scienza per il proprio insegnamento, si danno un gran daffare a demolire le rette interpretazioni di altri e a rafforzare i propri errori.

Perciò giustamente si dice per mezzo del profeta: Sventrarono le donne incinte in Galaad per allargare i loro territori (Am. 1, 13). Infatti con Galaad si intende il «cumulo della testimonianza», e poiché tutta insieme, la congregazione della Chiesa, attraverso la confessione [dei suoi membri], serve alla testimonianza della verità, non è senza senso che per Galaad si intenda la Chiesa che, per bocca di tutti i fedeli, attesta ciò che è vero riguardo a Dio. Per donne incinte si intendono le anime che in virtù dell’amore divino, concepiscono la comprensione della Parola e giungono al compimento del tempo sono pronte a partorire, con la manifestazione delle opere, quella comprensione che avevano concepita. E dilatare il proprio territorio significa estendere la fama della propria opinione. Dunque, sventrarono le donne incinte in Galaad per allargare il proprio territorio, poiché evidentemente gli eretici uccidono, con una predicazione perversa, i cuori dei fedeli che già avevano concepito una qualche comprensione della verità, e diffondono la fama di una loro scienza. Con la spada dell’errore squarciano i cuori dei piccoli, già gravidi della concezione della Parola, e creano, per il proprio errore, la opinione di dottrina. Dunque, quando ci sforziamo di istruire costoro perché non errino col pensiero, è necessario che prima li ammoniamo a non cercare una gloria vana. Infatti, se si strappa la radice dell’esaltazione, di conseguenza i rami della dottrina depravata inaridiscono. Bisogna ammonirli anche che, col generare errori e discordie, non mutino in sacrificio a Satana proprio quella legge di Dio data precisamente per impedire sacrifici a Satana. Perciò attraverso il profeta il Signore si lamenta dicendo: Ho dato loro frumento, vino e olio, e per loro ho moltiplicato argento e oro che hanno usato per Baal (Os. 2, 8).

Dunque, riceviamo frumento dal Signore quando in espressioni oscure, tolta la copertura della lettera, attraverso il midollo dello spirito, cogliamo l’intimo della legge. Il Signore poi ci offre il suo vino quando ci inebria con l’alta predicazione della sua Scrittura. E ci dà pure il suo olio quando, con precetti più aperti, dispone con dolce leggerezza la nostra vita. Moltiplica l’argento, quando ci amministra parole piene della luce della verità. E ci arricchisce pure d’oro quando irraggia il nostro cuore con la percezione del sommo fulgore. Tutte queste cose gli eretici le offrono a Baal, poiché, con la comprensione corrotta, pervertono ogni cosa nei cuori dei loro ascoltatori. E col frumento di Dio, col vino e l’olio e ugualmente l’argento e l’oro, immolano un sacrificio a Satana, poiché piegano parole di pace all’errore che genera discordia. Perciò bisogna ammonirli a considerare che quando, con animo perverso, creano discordia, per giusto giudizio di Dio, sono loro stessi a morire uccisi da parole di vita. Al contrario, bisogna ammonire coloro che intendono, certo rettamente, le parole della legge, ma non ne parlano umilmente, ad esaminare se stessi alla luce dei discorsi sacri, prima di proporli agli altri, perché non accada che nel perseguire le azioni altrui, trascurino se stessi; e mentre intendono rettamente ogni cosa della Sacra Scrittura non tralascino di fare attenzione solamente a ciò che in essa si dice contro coloro che si esaltano. Poiché è disonesto e ignorante, il medico che desidera curare la ferita altrui e ignora quella di cui egli stesso soffre. Pertanto, coloro che non predicano umilmente le parole di Dio, bisogna certamente ammonirli — quando si applicano a medicare i malati — a esaminare anzitutto il veleno della peste che portano addosso, affinché mentre curano gli altri non muoiano loro. Bisogna ammonirli a considerare che lo spirito con cui parlano non contrasti con la santità della Parola, e non accada che nella loro predicazione dicano una cosa e ne mostrino un’altra. Ascoltino dunque ciò che è scritto: Se uno parla, siano come discorsi di Dio (1 Pt. 4,11). Pertanto perché coloro che pronunciano parole che non sono loro proprie, se ne vantano come se fossero loro? Ascoltino ciò che sta scritto: Parliamo come da Dio, di fronte a Dio, in Cristo (Cor. 2, 17). Infatti parla da Dio, di fronte a Dio, colui che capisce di avere ricevuto da Dio la parola della predicazione e cerca, con essa, di piacere a Dio e non agli uomini. Ascoltino ciò che è scritto: È abominazione del Signore ogni arrogante (Prov. 16, 5). Poiché, evidentemente, mentre cerca la propria gloria nella parola di Dio, usurpa il diritto di colui che la dà, e non teme di posporre alla lode di sé colui dal quale ha ricevuto proprio ciò che viene lodato. Ascoltino ciò che viene detto al predicatore per mezzo di Salomone: Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che sgorga dal tuo pozzo; le tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze. Abbile tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te (Prov. 5, 15-17). Dunque, il predicatore beve acqua dalla sua cisterna, quando rientrando nel suo cuore ascolta, lui per primo, ciò che dice. Beve l’acqua che scorre dal suo pozzo, se viene irrigato dalla sua parola. Ed è ben detto ciò che si aggiunge: Le tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze (Prov. 5, 16); poiché è giusto che beva lui, prima, e poi predicando faccia rifluire sugli altri. Infatti, fare scorrere le fonti al di fuori significa infondere esteriormente agli altri la forza della predicazione. Dividere poi le acque nelle piazze corrisponde a dispensare il divino discorso ad un grande numero di ascoltatori a seconda della qualità di ciascuno. E poiché per lo più, mentre la parola di Dio si diffonde e giunge a conoscenza di molti, si insinua il desiderio di una gloria vana, dopo che è stato detto: Dividi le acque sulle piazze, giustamente si soggiunge: abbila tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te. Chiama cioè stranieri gli spiriti maligni dei quali, per mezzo del profeta si dice, con la voce di un uomo nella tentazione: Stranieri sono insorti contro di me e dei forti hanno cercato la mia vita (Sal. 53, 5). Dice dunque: Dividi le acque nelle piazze e tuttavia abbile tu solo; come se dicesse apertamente: È necessario che tu serva esteriormente la predicazione in modo da non unirti, attraverso l’esaltazione, agli spiriti iniqui e da non ammettere, nel ministero della parola divina, i tuoi nemici coane tuoi partecipi. Pertanto, dividiamo l’acqua nelle piazze e tuttavia la possediamo da soli, quando esteriormente diffondiamo ampiamente la predicazione e tuttavia non aspiriamo affatto ad ottenere la lode degli uomini attraverso di essa.

 

25 — Come bisogna ammonire coloro che rifiutano l’ufficio della predicazione per eccessiva umiltà e coloro che se ne impadroniscono con fretta precipitosa

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che, pur essendo in grado di predicare degnamente, temono di farlo per eccessiva umiltà, e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo. Infatti, coloro che potrebbero predicare utilmente ma ne rifuggono per umiltà eccessiva bisogna ammonirli, a dedurre da esempi di minor conto, l’entità di quel che essi trascurano affatto in cose di maggior conto. Se infatti essi nascondessero, a dei prossimi bisognosi, del denaro in loro possesso, ne faciliterebbero senz’altro la rovina. Vedano allora con quale colpa si legano, dal momento che, sottraendo a dei fratelli peccatori la parola della predicazione, nascondono medicine di vita ad anime che stanno morendo. Perciò dice bene un sapiente: Sapienza nascosta e tesoro non visto, quale utilità in ambedue? (Sir. 20, 32). Se la fame sfinisse la popolazione ed essi custodissero nascosto del frumento, sarebbero senza dubbio autori di morte. Considerino dunque con che pena meritano di essere colpiti loro, che, mentre le anime muoiono di fame della Parola, non distribuiscono il pane della grazia ricevuta. Perciò bene è detto per mezzo di Salomone: Chi nasconde il grano sarà maledetto tra i popoli (Prov. 11, 26); poiché nascondere il grano significa trattenere presso di sé le parole della predicazione santa. Una tale persona viene maledetta tra i popoli perché per la ‘sola colpa del silenzio, viene condannata in proporzione a quella che sarà la pena di molti, che avrebbe potuto correggere.

Se ci fosse chi conosce bene l’arte medica e vedesse una ferita da incidere e tuttavia ricusasse di farlo, peccherebbe certamente come responsabile della morte del fratello solo per pigrizia. Vedano dunque quanto sia grande la colpa in cui si avvolgono, coloro che mentre riconoscono le ferite dei cuori trascurano di curarle col taglio delle parole. Perciò è anche ben detto per mezzo del profeta: Maledetto chi tiene lontano la sua spada dal sangue (Ger. 48, 10), poiché tener lontano la spada dal sangue corrisponde a trattenere la parola della predicazione dall’uccidere la vita carnale. E di questa spada di nuovo è detto: E la mia spada mangerà le carni (Deut. 32, 42). Costoro dunque, quando nascondono presso chi sé la parola della predicazione, ascoltino con terrore le divine. sentenze pronunciate contro di loro. Ascoltino che colui, il quale non volle commerciare il talento, lo perdette insieme con la sentenza di condanna (cf. Mt. 25, 24 ss.). Ascoltino come Paolo tanto più si considerò puro del sangue dei suoi prossimi, quanto più non li risparmiò dal colpire i loro vizi dicendo: Affermo davanti a voi, oggi, che sono puro del sangue di tutti: infatti non mi sottrassi dall’annunziarvi ogni consigliò di Dio (Atti, 20, 26-27). Ascoltino ciò che Giovanni ammonisce con voce angelica, quando è detto: Chi ascolta dica: Vieni (Ap. 22, 17); certo, perché colui nel quale si insinua una voce interiore chiami altri e trascini là, dove egli stesso è rapito, affinché non trovi le porte chiuse, nonostante sia stato invitato, se si avvicina a mani vuote a colui che lo chiama. Ascoltino Isaia, il quale, poiché aveva taciuto dal ministero della parola, illuminato dalla luce celeste, con grande voce di pentimento, rimprovera se stesso dicendo: Guai a me, perché ho taciuto (Is. 5, 5). Ascoltino ciò che è promesso per mezzo di Salomone, cioè che sarà moltiplicata la scienza della predicazione in colui che avendola già ottenuta non si trattiene da essa per il vizio della indolenza. Dice infatti: L’anima che benedice sarà impinguata e chi inebria è lui pure inebriato (Prov. 11, 25). Infatti, chi benedice esteriormente predicando, accoglie la pinguedine della crescita interiore; e mentre non cessa di inebriare l’animo degli ascoltatori col vino della Parola, cresce a sua volta inebriato dalla bevanda del dono così moltiplicato. Ascoltino ciò che David offri in dono a Dio, poiché non nascose la grazia della predicazione che aveva ricevuto, dicendo: Ecco, non terrò chiuse le mie labbra, Signore, tu lo sai: non ho nascosto nel mio cuore la tua giustizia, la tua verità e la tua salvezza ho proclamato (Sal. 39, 10-11). Ascoltino ciò che si dice nel colloquio dello sposo con la sposa: Tu che abiti nei giardini, gli amici [ti] ascoltano; fammi udire la tua voce (Cant. 8, 13). È la Chiesa che abita nei giardini, e conserva le pianticelle ben coltivate delle virtù per un rigoglio interiore. E gli amici che ascoltano la sua voce sono gli eletti e coloro che desiderano la parola della sua predicazione. Ed anche lo sposo desidera di udire quella voce, poiché anch’egli anela alla sua predicazione attraverso le anime dei suoi eletti. Ascoltino come Mosè, vedendo che Dio era adirato col popolo e ordinando di dare il via alla vendetta, con la spada, dichiarò che erano dalla parte di Dio coloro che senza esitazione avrebbero colpito il delitto dei peccatori, dicendo: Se uno è del Signore, si unisca a me; ponga ogni uomo la spada sulla sua coscia: andate e tornate da porta a porta attraversando l’accampamento nel mezzo e ciascuno uccida il fratello e l’amico e il suo prossimo (Es. 32, 27). Porre la spada sulla coscia è anteporre l’amore della predicazione ai piaceri della carne, poiché, quando uno desidera di parlare di cose sante, bisogna che abbia cura di sottomettere le suggestioni illecite. Andare, poi, da una porta all’altra è passare col rimprovero da un vizio all’altro, poiché da essi entra la morte per l’anima. Attraversare il campo nel mezzo significa vivere nella Chiesa con tanto disinteresse che colui il quale rimprovera le colpe dei peccatori non si deve piegare a favorire alcuno. Perciò giustamente si aggiunge: L’uomo forte uccida il fratello, l’amico e il suo prossimo. Cioè, uccide il fratello, l’amico, il prossimo, colui che quando scopre qualcosa degno di punizione, non risparmia dalla spada del rimprovero neppure coloro che ama per legame di parentela. Se dunque è detto appartenente a Dio colui che è eccitato dallo zelo dell’amore divino a colpire i vizi, negano certamente di essere di Dio coloro che rifiutano di rimproverare, in quanto possono, la vita di uomini carnali. Al contrario, coloro ai quali, o una imperfezione naturale o l’età proibisce l’ufficio della predicazione e tuttavia vi sono spinti dall’irruenza, bisogna ammonirli a non tagliarsi la via di un miglioramento successivo coll’arrogarsi, nella loro irruenza, il peso di un ufficio così grave; e a non perdere anche ciò che avrebbero potuto compiere, prima o poi ma al tempo giusto, coll’impadronirsi, fuori tempo, di ciò di cui non sono capaci; e quindi di non mostrare di avere giustamente perduto questa scienza della predicazione, perché si sono sforzati a ostentarla impropriamente. Bisogna ammonirli a considerare che, se i piccoli degli uccelli vogliono volare prima di avere tutte le penne, dal luogo che abbandonano, nella brama di salire in alto, precipitano nel profondo. Bisogna ammonirli a considerare che, se si pone il peso di una travatura sopra strutture recenti e non ancora consolidate, non si fabbrica una abitazione ma un crollo. Bisogna ammonirli a considerare che se le donne partorissero i figli concepiti prima che fossero pienamente formati, non riempirebbero le case, ma le tombe. È perciò, infatti, che la Verità stessa, che pure avrebbe potuto dare subito una tale forza a chi voleva, per lasciare un esempio a quelli che sarebbero venuti in seguito, perché non avessero la presunzione di predicare quando non fossero ancora in grado di farlo, dopo avere pienamente istruito i discepoli sulla virtù della predicazione, aggiunse immediatamente: Voi però rimanete nella città finché siate rivestiti della virtù dall’alto (Lc. 24, 49). Dunque noi restiamo in città se ci chiudiamo nel chiostro del nostro animo per non andare vagando coi discorsi all’esterno; e usciamo invece fuori di noi stessi per istruire anche gli altri, solo allora quando ci siamo rivestiti pienamente della virtù divina. Perciò è detto per mezzo di un sapiente: Giovane, parla solo se ti è proprio necessario, e se sei interrogato due volte, allora incomincia a parlare (Sir. 32, 10). È perciò che il medesimo nostro Redentore, pur essendo creatore e sempre, nella manifestazione della sua potenza, dottore degli angeli, nei cieli; in terra, non volle essere maestro degli uomini prima dei trent’anni; ciò evidentemente per infondere nei precipitosi la forza di un sanissimo timore, in quanto anch’egli stesso che non avrebbe potuto cadere, non predicava la grazia di una vita perfetta se non dopo avere compiuto l’età; poiché sta scritto: Quando ebbe dodici anni, il bambino Gesù rimase a Gerusalemme (Lc. 2, 42), e poco dopo si aggiunge di lui, il quale era stato ricercato dai genitori: Lo trovarono nel Tempio che sedeva in mezzo ai dottori, li ascoltava e interrogava (Lc. 2, 46). Dunque, bisogna considerare attentamente che, quando si parla di Gesù dodicenne che sedeva in mezzo ai dottori, si dice che viene trovato a interrogare, non a insegnare. Con questi esempi, evidentemente, si vuole dimostrare che nessuno, che non ne abbia la forza, deve osare insegnare, se quel bambino, con le sue domande, volle essere istruito; lui, che per la potenza della sua divinità aveva dispensato la parola della scienza ai suoi stessi dottori. Ma quando per mezzo di Paolo si dice al discepolo: Ordina queste cose e insegna; nessuno disprezzi la tua adolescenza (1 Tim. 4, 11-12), dobbiamo intendere che, nel discorso sacro, talvolta la giovinezza è chiamata adolescenza. E ciò si dimostra subito citando ad esempio le parole di Salomone: Gioisci giovane, nella tua adolescenza (Qo. 11, 9). Infatti se non avesse inteso l’una e l’altra come una cosa sola, non avrebbe chiamato giovane colui che ammoniva nella sua adolescenza.

 

26 — Come bisogna ammonire coloro a cui tutto, e coloro a cui nulla accade secondo la loro volontà

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che prosperano nei beni temporali, in tutto quanto desiderano, e coloro che, pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa. Infatti, i primi bisogna ammonirli a non trascurare di cercare colui che dà, dal momento che hanno tutto quanto basta al loro desiderio; e a non fissare il proprio animo nelle cose che sono loro date, così da amare il cammino verso la patria, invece che la patria stessa; a non mutare gli aiuti ricevuti per il viaggio in ostacoli al raggiungimento della meta e, dilettati dalla luce notturna della luna, a non rifuggire dalla vista luminosa del sole. Così, bisogna ammonirli a non credere che tutti quanti i beni che conseguono in questo mondo siano il premio di quel che hanno meritato, e non, invece, sollievo dalla sventura; levino la mente contro i favori del mondo, per non soccombere in essi col cuore tutto preso dal loro diletto. Infatti, chiunque nella considerazione del suo cuore non reprime la prosperità di cui gode con l’amore di una migliore vita, rende i vantaggi di una vita che passa occasione di una morte perpetua. È perciò infatti che coloro i quali si rallegrano dei successi di questo mondo vengono rimproverati, in persona degli Idumei che si lasciarono vincere dalla loro prosperità, quando è detto: Si presero la mia terra in eredità con gioia, con tutto il cuore, con tutta l’anima (Ez. 36, 5). E da queste parole si può considerare che non è solamente perché godono, ma è perché godono con tutto il cuore e con tutta l’anima che vengono colpiti con un severo rimprovero. Perciò dice Salomone: Il rifiuto dei piccoli li ucciderà e la prosperità degli stolti li perderà (Prov. 1, 32). Perciò Paolo ammonisce dicendo: Chi compra come se non possedesse, chi usa di questo mondo come se non ne usasse (1 Cor. 7, 30). Ciò, per dire che quanto abbiamo in abbondanza deve servirci esteriormente così da non distoglierci l’animo dall’amore della gioia celeste. Le cose che ci offrono un aiuto, finché siamo nell’esilio, non indeboliscano in noi il lutto dell’intimo stato di pellegrini; e non godiamo, come gente felice, di beni passeggeri, noi che ora ci vediamo infelici, lontano da quelli eterni. È perciò infatti che la Chiesa dice, con la voce degli eletti: La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia (Cant. 2, 6). Dio ha posto la sua sinistra, cioè la prosperità della vita presente, sotto il capo, e la preme la tensione verso l’amore sommo; ma la destra di Dio l’abbraccia poiché la Chiesa nella offerta di sé è tutta contenuta nella sua eterna beatitudine. Perciò ancora è detto per mezzo di Salomone: Lunghezza di giorni nella sua destra, e nella sua sinistra le sue ricchezze e la sua gloria (Prov. 3, 16). E insegna, così, come si debbano usare ricchezze e gloria che egli pone nella mano sinistra. Perciò dice il salmista: La tua destra mi fa salvo (Sal. 107, 7). Infatti non dice mano, ma destra, evidentemente per indicare, dicendo destra, che era la salvezza eterna che egli cercava. Perciò ancora è scritto: La tua destra Signore ha infranto i nemici (Es. 15, 6. LXX); infatti i nemici di Dio, quantunque nella sua sinistra si avvantaggino, dalla destra sono infranti, poiché per lo pin la vita presente innalza i malvagi, ma l’avvento della felicità eterna li condanna. Bisogna ammonire coloro che godono della prosperità in questo mondo, a considerare accortamente che la prosperità di questa vita talvolta è data proprio per incitare ad una vita migliore e altra volta invece per una più piena dannazione eterna. È perciò infatti che viene promessa al popolo israelita la terra di Canaan, perché prima o poi sia incitato alle speranze eterne. Né d’altra parte quel rozzo popolo avrebbe creduto alle promesse di Dio,. riguardanti il futuro, se non avesse ricevuto, da colui che le aveva fatte, qualcosa anche al presente. Dunque, per dare una più solida certezza alla [sua] fede nei beni eterni, non è solo con la speranza che lo si attira a quei beni, ma è pure coi beni temporali che lo si conduce a sperare. E ciò è chiaramente attestato dal salmista che dice: Diede ad essi i territori delle genti e possedettero il frutto delle fatiche di quei popoli, perché custodissero i suoi decreti e ricercassero la sua legge (Sal. 104, 44). Ma quando l’anima dell’uomo non corrisponde con le buone opere a Dio, che è largo verso di essa, proprio a causa di quei beni che si crede le siano alimento alla pietà, essa viene più giustamente condannata. Perciò, infatti, si dice ancora per mezzo del salmista: Li hai abbattuti mentre si consolavano (Sal. 72, 18). Poiché, quando i reprobi non corrispondono ai doni di Dio con opere di giustizia, quando abbandonano completamente se stessi in questa vita e si lasciano andare alla sovrabbondanza del benessere, ciò per cui esteriormente hanno successo è la causa della loro caduta spirituale. Ed è perciò che al ricco tormentato nell’inferno si dice: Hai ricevuto beni nella tua vita (Lc. 16, 25). Infatti anche il cattivo riceve beni in questa vita, proprio per questo, cioè per ricevere più pienamente il male nell’altra; poiché qui non si è convertito neppure per mezzo di quei beni. Al contrario, coloro che pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa, bisogna ammonirli ad apprezzare con attenta considerazione, con quanta grazia il Creatore, che dispone tutto, vigila su di loro, non permettendo che si lascino andare ai loro desideri. Giacché, al malato senza speranza di guarigione, il medico concede di prendere tutto ciò che desidera, ma chi si crede possa guarire, si proibiscono molte cose di cui egli sente voglia. Inoltre, non diamo soldi in mano ai bambini, ai quali pure riserviamo tutto intero il patrimonio in quanto ne sono eredi. Perciò dunque, gioiscano della speranza della eredità eterna, coloro che sono umiliati dall’avversità della vita temporale, perché, se la dispensazione divina non li riguardasse come fatti per la salvezza eterna, non li frenerebbe sotto il governo della disciplina. Pertanto bisogna ammonire coloro che, accesi dal desiderio di beni temporali, durano la fatica di una pesante fortuna avversa, a considerare con premura che spesso anche i giusti, quando la potenza mondana li esalta, sono afferrati come in un laccio dalla colpa. Così, come abbiamo già detto nella prima parte di quest’opera (I, par. 3), David amato da Dio fu più giusto nel periodo del suo servizio che quando giunse al regno. Infatti, da servo, per amore della giustizia, ebbe timore di colpire l’avversario che aveva nelle mani (cf. 1 Sam. 24, 18); da re, invece, indotto dalla lussuria, uccise un soldato devoto con studiata frode (cf. 2 Sam. 11, 7). Chi, dunque, potrà cercare senza danno ricchezze, potere e gloria se queste cose furono dannose perfino a colui che le ebbe senza averle cercate? Chi, in mezzo ad esse, potrà salvarsi senza correre la fatica di un grande pericolo, se colui che era stato preparato ad esse dalla scelta di Dio rimase turbato dalla colpa che vi si era insinuata? Bisogna ammonirli a considerare come non si ricorda che Salomone — il quale viene descritto come chi cadde nell’idolatria pur dopo aver ricevuto tanta sapienza (1 Re, 11, 4 ss.) — avesse avuto in questa vita alcuna avversità prima di cadere, ma dopo che gli fu concessa la sapienza, lasciò andare completamente il suo cuore, che nessuna tribolazione, neppure la più piccola, aveva custodito con la sua disciplina.

 

27 — Come si devono ammonire i coniugati e i celibi

 

Diverso è il modo di ammonire quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale. Bisogna ammonire i primi, quando pensano vicendevolmente l’uno all’altro, a studiarsi di piacere al coniuge in modo da non dispiacere al Creatore; e trattino le cose di questo mondo così: da non tralasciare di aspirare a quelle che sono di Dio; e godano dei beni presenti così da temere tuttavia, con viva attenzione, i mali eterni; e piangano i mali presenti in modo dà fissare però, con intatta consolazione, la loro speranza nei beni eterni, dal momento che sanno che ciò che fanno passa, e ciò cui aspirano resta; né i mali del mondo spezzino il loro cuore; poiché la speranza dei beni eterni lo conforta; né i beni della vita presente lo ingannino, poiché lo rattrista il timore dei mali del giudizio futuro. E così, l’animo degli sposi cristiani è insieme debole e fedele, tale che non è capace di disprezzare pienamente tutti i beni temporali, e tuttavia è capace di unirsi, nel desiderio, alle realtà eterne; e quantunque per ora giaccia nel piacere della carne, si rinvigorisce con l’alimento della speranza celeste. Dunque se nel viaggio usa delle cose del mondo, spera in quelle di Dio come frutto della meta raggiunta; e non si consegni interamente a ciò che fa per non cadere del tutto da ciò che avrebbe dovuto sperare con forza. Paolo esprime bene e brevemente ciò, dicendo: Chi ha moglie sia come se non l’avesse; e chi piange come se non piangesse; e chi gode come se non godesse (Cor. 7, 29-30). Poiché ha moglie come se non l’avesse, colui che con lei usa della consolazione della carne, in modo che mai, tuttavia, per amore di lei, si piega, dalla rettitudine della migliore intenzione, ad azioni depravate. Ha moglie come se non l’avesse, colui che, vedendo come tutte le cose sono transitorie, tollera per necessità la cura della carne, ma lo spirito attende con tutto il desiderio le gioie eterne. Piangere non piangendo è piangere le avversità esteriori sapendo tuttavia godere della consolazione della speranza eterna. E, ancora, godere non godendo è innalzare tanto l’animo dalle bassezze, che esso non cessi mai di temere le realtà supreme. E qui, appropriatamente, poco dopo aggiunge pure: Passa, infatti, la figura di questo mondo (Cor. 7, 31). Come se dicesse apertamente: Non amate stabilmente il mondo, dal momento che ciò stesso che amate non può rimanere; vanamente fissate il cuore come se foste destinati a rimanere, mentre fugge colui stesso che amate. Bisogna ammonire i coniugi a tollerare a vicenda, con pazienza, ciò in cui talvolta l’uno dispiace all’altro; e a salvarsi esortandosi a vicenda. Infatti è scritto: Portate a vicenda i vostri pesi e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). E la legge di Cristo è la carità; poiché per essa egli ci ha donato largamente i suoi beni e con mitezza ha portato i nostri mali. Dunque, adempiremo la legge di Cristo come i suoi imitatori quando offriremo benignamente i nostri beni e sosterremo con spirito di pietà i mali del nostro prossimo. Bisogna ammonirli pure a badare, ciascuno di essi, non tanto a ciò che l’uno deve sopportare dall’altro quanto a ciò che l’altro deve sopportare di suo. Se infatti ciascuno considera i pesi che lui fa portare, porta a sua volta più leggermente i pesi altrui che deve sostenere. Bisogna ammonire gli sposi a ricordarsi che essi sono uniti allo scopo di avere figli, e quando, servendo ad una unione sfrenata, mutano il momento della propagazione in pratica del piacere, considerino che, anche se ciò non avviene al di fuori dell’unione matrimoniale, tuttavia nel matrimonio stesso essi oltrepassano i diritti del matrimonio. Per cui è necessario che, con frequenti orazioni, cancellino ciò che, per la mescolanza col piacere, macchia la bellezza dell’atto coniugale. È perciò infatti che l’Apostolo, esperto di medicina celeste, non ammaestrò tanto i sani, quanto mostrò i rimedi ai malati dicendo: Quanto a ciò che mi avete scritto: È bene per l’uomo non toccare donna; ma per rimedio alla fornicazione ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna abbia il proprio marito (1 Cor. 7, 1-2). Ma se mise avanti il timore della fornicazione, certo non stabili il precetto per quelli che stanno saldi in piedi, bensì mostrò un letto a coloro che cadono perché non rovinassero in terra. Perciò ancora, ai vacillanti, aggiunse: Il marito dia alla moglie ciò che le deve e così la moglie al marito (1 Cor. 7, 3); ma, nel fare ad essi qualche concessione riguardo al piacere, nell’ambito di una onestissima unione, aggiunse: Ma questo lo dico per indulgenza, non per comando (1 Cor. 7, 6); e accenna evidentemente che si tratta di colpa; poiché parla di un oggetto di indulgenza, ma di colpa tale che tanto più presto è condonata in quanto con essa non si compie qualcosa di illecito in sé, ma piuttosto non si contiene, in un ambito di moderazione, ciò che di per sé è lecito. Ed è ciò che Lot esprime bene in se stesso quando fugge Sodoma in fiamme e tuttavia, trovando Segor, non sali subito la montagna (cf. Gen. 19, 30). Fuggire Sodoma in fiamme significa rinunciare agli incendi illeciti della carne, e l’altezza dei monti è la purezza delle persone continenti. Ora, sono certamente come chi sta sul monte perfino coloro che, pur aderendo all’unione carnale, tuttavia non si abbandonano ad alcun piacere della carne al di fuori di quell’atto compiuto per avere figli. Stare sul monte, cioè, significa non cercare nella carne se non il frutto della generazione. Stare sul monte significa non aderire carnalmente alla carne. Ma poiché ci sono molti che rinunciano ai peccati della carne e tuttavia, posti nello stato matrimoniale; non ne osservano solamente i diritti del suo debito uso, usci appunto Lot da Sodoma e tuttavia non giunse subito sui monti, a indicare che quando già è abbandonata la vita degna di condanna, l’altezza della continenza coniugale non è però ancora raggiunta in tutta la sua perfezione. Ma c’è nel mezzo la città di Segor, per salvare il debole che fugge, poiché naturalmente, quando i coniugi si uniscono a causa dell’incontinenza, fuggono la caduta del peccato e tuttavia si salvano per condiscendenza. È come se trovassero una piccola città che li difende dal fuoco, poiché una tale vita coniugale non è certo mirabile per la virtù e tuttavia è sicura dal castigo. Perciò il medesimo Lot dice all’angelo: C’è qui vicino una piccola città in cui posso rifugiarmi e mi salverò in essa. Non è forse modesta, e la mia anima vivrà in essa? (Gen. 19, 20). Dunque, è detta vicino e tuttavia è indicata come sicura per la salvezza, poiché la vita coniugale non è separata di molto dal mondo e tuttavia non è estranea alla gioia della salvezza. I coniugi però, in tale stato, custodiscono la loro vita come in una piccola città, quando intercedono per se stessi con suppliche assidue. Perciò viene detto anche al medesimo Lot, per mezzo dell’angelo: Ecco, ho ascoltato le tue preghiere anche in questo: non distruggerò la città in favore della quale hai parlato (Gen. 19, 21); poiché è chiaro che non è condannata quella vita matrimoniale in cui i coniugi si rivolgono a Dio con la supplica, riguardo alla quale anche Paolo ammonisce dicendo: Non privatevi l’uno dell’altro se non d’accordo e per un tempo stabilito, per essere liberi per la preghiera (1 Cor. 7, 5). Al contrario, coloro che non sono legati nel matrimonio bisogna ammonirli a servire tanto pin rettamente i comandamenti divini quanto meno li inclina alle cure del mondo il giogo dell’unione carnale; e poiché non sono gravati dal peso lecito del matrimonio, non gravi su di loro il peso illecito della preoccupazione terrena, ma l’ultimo giorno li trovi tanto più pronti quanto più leggeri; e poiché, liberi come sono, possono compiere opere tanto più meritorie, non le trascurino così da meritare, per questo, supplizi tanto più gravi. Ascoltino l’Apostolo, il quale, volendo formare alcuni alla grazia del celibato, non disprezzò il matrimonio, ma respinse le cure mondane che nascono da esso dicendo: Ciò lo dico per vostra utilità, non per gettarvi un laccio; ma per indicarvi ciò che è onesto e offre la possibilità di servire Dio senza impedimento (1 Cor. 7, 35). Dal matrimonio, dunque, procedono le preoccupazioni terrene, e perciò il maestro delle genti volle persuadere i suoi ascoltatori a cose migliori perché non si legassero alla preoccupazione terrena. Pertanto, il celibe, trattenuto dall’impedimento delle cure temporali, è uno che non si è sottoposto al matrimonio e tuttavia non è sfuggito ai suoi pesi. Bisogna ammonire i celibi a non pensare di potersi unire a donne di liberi costumi, senza incorrere nel giudizio di condanna. Infatti, quando Paolo inserì il vizio della fornicazione fra tanti peccati esecrabili, indicò la sua gravità dicendo: Né i fornicatori né gli idolatri né gli adulteri né gli effeminati né gli omosessuali né i ladri né gli avari né gli ubriachi né i maldicenti né i rapaci possiederanno il regno di Dio (1 Cor. 6, 9-10). E ancora: I fornicatori e gli adulteri li giudicherà Dio (Ebr. 13, 4). Pertanto se sopportano le. tempeste delle tentazioni con pericolo della salvezza, bisogna ammonirli a cercare il porto del matrimonio, infatti è scritto: È meglio sposarsi che ardere (1 Cor. 7, 9). Non è colpa se si sposano, purché in precedenza non si siano impegnati con voti a uno stato di vita più perfetto. Infatti, chi si era proposto un bene maggiore, rende illecito il bene minore che prima gli sarebbe stato lecito. Perciò è scritto: Nessuno che mette la mano all’aratro e si volta a guardare indietro è adatto al regno dei cieli (Lc. 9, 62). Dunque, chi si era rivolto a un interesse più forte è convinto a guardare indietro se, abbandonati i beni maggiori, ripiega sui minimi.

 

28 — Come bisogna ammonire quelli che hanno esperienza dei peccati della carne e quelli che non l’hanno

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e quelli che ne sono ignari. Quelli che ne hanno esperienza, bisogna ammonirli a temere il mare, almeno dopo il naufragio, e a guardarsi con orrore dai pericoli della loro perdizione che già conoscono; ed essi, che sono stati salvati dalla pietà di Dio dopo avere commesso il male, non debbano morire ripetendolo malvagiamente. Così, all’anima che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei divenuta sfrontata come una meretrice e non vuoi arrossire (Ger. 3, 3). Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a riparare almeno quelli infranti. È assolutamente necessario, per loro, considerare quanti sono quelli che, in un così grande numero di fedeli, si custodiscono illibati e convertono gli altri dall’errore. Come pensano di difendersi costoro se, mentre altri restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure dopo avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se, mentre molti conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono neppure se stessi al Signore che li attende? Bisogna ammonirli a considerare i peccati passati e ad evitare i futuri. Perciò, il Signore, per mezzo del profeta, ricorda alle menti corrotte in questo mondo — rappresentate dalla Giudea — le colpe commesse, affinché arrossiscano di contaminarsi con colpe future, dicendo: Hanno fornicato in Egitto, hanno fornicato nella loro adolescenza; là fu compresso il loro petto e furono violati i loro seni verginali (Ez. 23, 3). In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà del cuore dell’uomo soggiace al turpe desiderio di questo mondo. In Egitto vengono violati i seni verginali, quando i sensi naturali ancora integri in se stessi, restano viziati dalla corruzione della concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno esperienza di peccati della carne a guardare con vigile cura, con, quanta benevolenza Dio ci allarghi il seno della sua pietà, quando dopo il peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per mezzo del profeta: Se un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene prenderà un altro marito, forse egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata quella donna? Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia ritorna a me, dice il Signore (Ger. 3, 1). Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è proposta come un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta ritorniamo, non viene offerta giustizia ma pietà. Da ciò possiamo renderci conto di quanto sia grande la iniquità con cui pecchiamo se non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui ci risparmia con tanta pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà l’indulgenza per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa. Questa misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta quando si dice all’uomo che si è ribellato: E i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e le tue orecchie udranno la parola di chi ti ammonisce dietro le spalle (Is. 30, 20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano, quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo libero arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare. Ma l’uomo voltò le spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo disprezzò i suoi ordini. E tuttavia il Signore non l’abbandonò nella superbia, lui che diede la legge per richiamarlo, mandò angeli ad esortarlo e apparve egli stesso nella nostra carne mortale. Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté essere detto al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è necessario sentirlo in particolare dei singoli. Infatti, quando uno conosce i precetti della volontà di Dio, prima di commettere il peccato è come se ascoltasse le parole del suo ammonimento standogli di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene dell’innocenza, l’uomo brama e sceglie l’iniquità, ha già voltato le spalle al suo volto. E tuttavia ancora, standogli dietro le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce e vuole persuaderlo, anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è rivolto indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua misericordia a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci ammonisce se, almeno dopo il peccato, ritorniamo al Signore che ci invita. Se non vogliamo temere la giustizia, dobbiamo arrossire della pietà di chi ci chiama perché è tanto più grave l’iniquità con cui egli è disprezzato, quanto più, pur disprezzato, egli non disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a temere con tanta maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto stanno. Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in cui sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui l’insidiatore li assale. Egli con tanto maggior ardore suole rialzarsi, quanta più è la forza da cui si vede vinto; e tanto più si indigna d’essere vinto, in quanto vede combattergli contro gli integri accampamenti della carne inferma. Bisogna ammonirli a non cessare di raccogliere i premi [della vittoria], e così, senza dubbio, calpesteranno volentieri le fatiche delle tentazioni che devono sopportare. Se infatti si mira alla felicità a cui si attinge eternamente, diviene lieve ciò che si fatica ed è però passeggero. Ascoltino ciò che è detto per mezzo del profeta: Queste cose dice il Signore agli eunuchi che hanno osservato i miei sabati, che hanno scelto ciò che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò loro nella mia casa e nelle mie mura un luogo e un nome migliore che ai figli e alle figlie (Is. 56, 4-5). Sono eunuchi coloro che, trattenuti i moti della carne, tagliano in se stessi l’amore dell’opera iniqua. E quale sia il posto che essi hanno presso il Padre, è manifesto, poiché nella casa del Padre, cioè nella dimora eterna, essi sono preferiti anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per mezzo di Giovanni: Questi sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap. 14, 4). E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non quei centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto all’Agnello è godere con lui in eterno, sopra tutti i fedeli, anche dell’incorruzione della carne. E che tuttavia gli altri eletti possano sentire il cantico, pur non potendo pronunciarlo, è perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di quelli, quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa integrità: Non tutti comprendono questa parola (Mt. 19, 11). Accenna alla sua grandezza negando che sia di tutti; e avvertendo che difficilmente è compresa, fa intendere a chi ascolta con quanta cautela, quando si sia compresa, debba essere conservata. Bisogna dunque ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a sapere che la verginità è superiore al matrimonio, e tuttavia a non esaltarsi nei confronti degli sposati affinché, scegliendo la verginità e posponendosi agli altri, non abbandonino ciò che stimano il meglio e si custodiscano dall’esaltarsi vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che spesso la vita delle persone continenti deve arrossire del confronto con l’operosità di chi vive nel secolo, quando questi operano oltre ciò che è richiesto dalla loro situazione, e quelli non eccitano il loro cuore in corrispondenza al loro stato. Perciò è ben detto per mezzo del profeta: Arrossisci, Sidone, dice il mare (Is. 23, 4). Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso e, in un certo senso, stabile, viene riprovata nel confronto con quella di chi vive nel secolo, sbattuto dai flutti di questo mondo, è come se Sidone fosse indotta alla vergogna dalla voce del mare. Giacché spesso molti che, dopo aver commesso peccati della carne, ritornano al Signore, si prestano con tanto più ardore nelle buone opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive. E d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo, vedendo di avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente sufficiente, quanto a loro, l’innocenza della propria vita e non infiammano il loro spirito con alcuno stimolo che ne ecciti il fervore. Così accade per lo più che sia più gradita a Dio una vita ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza giacente nel torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del Giudice: Le saranno rimessi i molti peccati perché ha molto amato (Lc. 7, 47); e: Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc. 15, 7). E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se pensiamo a come giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi apprezziamo di più una terra che arata — dopo essere stata coperta di spine — produce ricchi frutti, di quella che non ha mai avuto spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe sterile. Bisogna ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli altri per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano quanto siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore, poiché, nell’esame del giusto Giudice, la qualità delle azioni muta i meriti dello stato di vita. Chi infatti — per trarre esempi dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme il carbonchio è più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui quello è inferiore per lo stato naturale viene avvalorato dalla bellezza dell’aspetto, e questo, che per lo stato naturale è più prezioso, viene oscurato dalla qualità del colore. Così dunque fra gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore, sono peggiori: altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché questi, vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa; mentre quelli diminuiscono il merito della condizione superiore, perché non le corrispondono con i costumi.

 

29 — Come bisogna ammonire coloro che piangono peccati di opere e coloro che piangono peccati solo di pensiero

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro che piangono peccati di pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare con un pianto perfetto i peccati compiuti, per non essere maggiormente stretti dal debito dell’azione commessa, ma diminuire col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è scritto: Ci ha dato da bere lacrime in misura (Sal. 79, 6), per dire, cioè, che l’animo di ciascuno, nel suo pentimento, beva tante lacrime di compunzione, quanto ricorda di essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe. Bisogna ammonirli a ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i peccati commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non debbano più essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando pregava dicendo: Distogli i tuoi occhi dai miei peccati (Sal. 50, 11), poco sopra aveva detto: Il mio delitto mi sta sempre davanti (Sal. 50, 5); come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché io stesso non cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del profeta, il Signore dice: E non mi ricorderò dei tuoi peccati, ma tu ricordateli (Is. 43, 25-26. LXX). Bisogna ammonirli a considerare i peccati uno per uno, e mentre per ciascuno piangono la sozzura del loro errore, con le lacrime purifichino insieme sé e quelli, interamente. Perciò è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli peccati della Giudea: Il mio occhio ha fatto scendere acque divise (Lam. 3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli occhi corsi d’acqua divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua parte di lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico momento per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata più acutamente ora dall’uno ora dall’altro, commovendosi per ciascuno singolarmente, essa si purifica di tutti insieme. Bisogna ammonirli a confidare con certezza nella misericordia che chiedono, per non morire sotto la forza di una eccessiva afflizione. Poiché infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli occhi dei peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi colpirli severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto sottrarre al suo giudizio coloro che ha fatto giudici di se stessi, prevenendoli con la sua misericordia. Perciò infatti è scritto: Preveniamo il volto del Signore con la confessione (Sal. 94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se ci giudicassimo da noi stessi non verremmo giudicati (1 Cor. 11, 31). E ancora bisogna ammonirli ad avere così quella fiducia che viene dalla speranza, e tuttavia a non intorpidire in una incauta sicurezza. Spesso, infatti, l’astuto avversario, quando vede l’animo, che egli insidia col peccato, afflitto per la propria rovina, lo seduce con gli allettamenti di una pestifera sicurezza. Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di Dina. È scritto: Dina usci per vedere le donne di quella regione; ma quando la vide Sichem, figlio di Emor eveo, principe di quel paese, si innamorò di lei e la rapi e dormi con lei violando la sua verginità e la sua anima si uni con lei e alleviò con le carezze la sua tristezza (Gen. 34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione straniera, ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio amore e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori della sua condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem, principe del paese, la viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da occupazioni esterne, la corrompe; e la sua anima si uni con lei, poiché la vede unita a sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata in sé dalla colpa, si accusa e tenta di piangere il peccato commesso, allora il corruttore richiama ai suoi occhi le speranze e le sicurezze vane, per sottrarla alla utile tristezza; perciò giustamente si aggiunge: e alleviò con le carezze la sua tristezza. Ora, infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che quanto ha fatto non è niente e ora che Dio è misericordioso ora le promette che ci sarà in seguito dell’altro tempo per fare penitenza, affinché l’anima condotta attraverso questi inganni tenga in sospeso l’intenzione del pentimento, e poiché, ora, nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia, allora, più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode perfino nei peccati. Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare accuratamente tra le pieghe misteriose dell’animo, se hanno peccato solamente col piacere o anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato e trae piacere dalla malizia della carne, e tuttavia contrasta con la ragione a quella malizia; cosicché, nel segreto del pensiero, ciò che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta l’animo viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non resisterle affatto, e, invece, da seguirla deliberatamente dove il piacere lo spinge; e così che, se si offre la possibilità esteriore, è pronto a consumare gli intimi desideri, attuandoli coi fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la colpisce la giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga esteriormente il peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto con l’opera del consenso. Nel progenitore abbiamo imparato che sono tre i modi con cui perfezioniamo la malizia di ogni colpa: la suggestione, il piacere, il consenso. La prima si compie attraverso il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo spirito. Infatti, l’insidiatore suggerisce il male, la carne si sottopone al piacere e, all’ultimo, lo spirito vinto consente ad esso. In effetti, il serpente suggerì il male, Eva, come carne, si sottomise al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione e dal piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il peccato dalla suggestione, restiamo vinti dal piacere e ci leghiamo col consenso. Pertanto, bisogna ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare con cura l’entità della loro caduta nel peccato, affinché la misura del loro pianto corrisponda alla rovina interiore che essi avvertono in se stessi e valga a risollevarli, e non siano indotti ad attuare, con le opere, quei cattivi pensieri che meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in loro, non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché spesso Dio misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del cuore, in quanto non permette che essi sfocino nelle opere; e il male solamente pensato è più rapidamente sciolto, poiché non si lega così strettamente all’effetto dell’opera. Perciò è detto bene per mezzo del salmista: Dissi: confesserò contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai rimesso l’empietà (Sal. 31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha sottoposto l’empietà del cuore, poiché ha indicato di voler confessare i peccati di pensiero. E mentre dice: Dissi: confesserò, e subito aggiunse: E tu hai rimesso, mostra quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette di chiedere ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era pervenuta all’atto, la penitenza non dovesse giungere al grado del supplizio, ma l’afflizione del pensiero lavasse il cuore che solo la malizia del pensiero aveva macchiato.

 

30 — Come bisogna ammonire coloro che non si astengono dai peccati che piangono, e coloro che si astengono da quelli commessi ma non li piangono

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono. Infatti, bisogna ammonire i primi a sapere considerare con cura che invano si purificano piangendo, coloro che si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le lacrime per poter ritornare, lavati, alla lordura. Perciò infatti è scritto: Il cane è ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel fango (2 Pt. 2, 22). Il cane, cioè, quando vomita rigetta certamente il cibo che gli opprimeva lo stomaco, ma quando ritorna al vomito, di cui si era alleggerito, si appesantisce di nuovo. E coloro che piangono i peccati commessi, certamente rigettano, confessandola, la malizia con cui si erano malamente saziati e che opprimeva l’intimo dell’animo, ma la riprendono su di sé quando la ripetono dopo averla confessata. E la scrofa, con l’arrotolarsi nel fango dopo essersi lavata, ritorna più sporca di prima. E chi piange i peccati, e tuttavia non rinuncia ad essi, si sottopone alla pena di una colpa maggiore, poiché disprezza proprio quel perdono che poté ottenere con le lacrime, ed è come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché, mentre sottrae al suo pianto la purezza della vita [ottenuta con esso], davanti agli occhi di Dio rende sordide perfino quelle lacrime. Perciò ancora è scritto: Non dire due volte una parola nella preghiera (Sir. 7, 15); infatti, dire due volte una parola nella preghiera corrisponde a commettere, dopo il pianto, ciò che è necessario tornare a piangere. Perciò è detto per mezzo di Isaia: Lavatevi, siate puri (Is. 1, 16); infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il pianto, trascura di conservarsi puro dopo il lavacro. Pertanto, si lavano e tuttavia non sono puri, coloro che non cessano di piangere i peccati commessi, ma continuano a commettere azioni degne di pianto. Perciò è detto, per mezzo di un sapiente: Se uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, che cosa serve che si sia lavato? (Sir. 34, 30). Si lava, cioè, dopo aver toccato un morto, chi si purifica col pianto dal peccato; ma tocca il morto dopo il lavacro, colui che dopo le lacrime ripete la colpa. Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, a riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a quelli che si presentano di fronte a certi uomini e li blandiscono mostrando grande sottomissione, ma allontanandosi procurano loro inimicizie e danni con effetti atroci. Che cosa significa infatti piangere la colpa se non mostrare a Dio l’umiltà della propria devozione? E che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto il peccato, se non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato? Così attesta Giacomo che dice: Chi vuole essere amico di questo secolo, si costituisce nemico di Dio (Giac. 4, 4). Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, a considerare attentamente che per lo più tanto inutilmente i cattivi si muovono a compunzione per la giustizia, quanto spesso i buoni sono tentati al male senza danno. Avviene cioè che, per una mirabile misura della loro disposizione interiore, corrispondente ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono che tuttavia non portano a termine, assumono una superba fiducia, perfino mentre continuano a compiere il male; e costoro — quando vengono tentati dal male cui per altro non consentono — quanto più la loro debolezza li fa esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà, puntano i passi del loro cuore, con fermezza e verità, alla giustizia. Balaam, infatti, guardando agli attendamenti dei giusti dice: Muoia la mia anima la morte dei giusti e i miei ultimi momenti siano simili a quelli di costoro (Num. 23, 10); ma quando si fu allontanato il tempo della compunzione, offrì il suo consiglio contro la vita di coloro ai quali aveva chiesto di divenire simile anche nella morte. E quando trovò un’occasione per [soddisfare] la sua avarizia, subito dimenticò tutto quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza (cf. Ap. 2, 14). Perciò, invero, il maestro e predicatore delle genti, Paolo, dice: Vedo un’altra legge, nelle mie membra, lottare contro la legge dello spirito e condurmi prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle mie membra (Rom. 7, 23). Egli certamente viene tentato, proprio per essere più fortemente consolidato nel bene dalla consapevolezza della propria infermità. Com’è dunque che quello è portato alla compunzione e tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia; mentre questi è tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che — come apertamente si manifesta — il bene incompiuto non giova ai cattivi né il male non consumato non condanna i buoni? Al contrario, bisogna ammonire coloro che si staccano dal peccato e però non lo piangono, a non stimare perdonate quelle colpe che essi non purificano col pianto, anche sé non le moltiplicano col loro agire. Infatti, uno scrittore che cessa dallo scrivere non cancella ciò che ha scritto in precedenza solo per il fatto di non aggiungervi altri scritti. Né è sufficiente che uno che proferisce ingiurie taccia, per dare soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole di umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia. Né un debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma lo è se scioglie quelli con cui è legato. E cose, quando pecchiamo nei confronti di Dio, non diamo soddisfazione solamente se cessiamo di peccare, ma non facciano seguire anche le lacrime, di contro a quei piaceri che abbiamo amato. Se infatti in questa vita non ci fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa nostra innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla nostra sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla nostra anima; con quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che per le colpe che ha commesso è testimone a se stesso di non essere innocente? Né, d’altra parte, Dio si pasce delle nostre sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal diletto dei piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere caduti lasciandoci andare ad azioni illecite, ci rialziamo trattenendoci anche da quelle lecite; e il cuore che era stato invaso da una gioia insana, arda di una tristezza salutare: esso, che l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato dall’abiezione di una vita umile. Perciò, infatti, è scritto: Ho detto agli iniqui: non agite iniquamente, e ai peccatori: non alzate la testa (Sal. 74, 5). E i peccatori alzano la testa se non si umiliano a penitenza per la cognizione della propria iniquità. Perciò di nuovo è detto: Un cuore contrito e umiliato Dio non disprezza (Sal. 50, 19). Infatti, chi piange i peccati ma non se ne distacca, spezza il suo cuore ma non si cura di umiliarlo; chi poi ha già lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il cuore, ma tuttavia rifiuta di spezzarlo. Perciò Paolo dice: Voi foste tutte queste cose, ma siete stati lavati, ma siete stati santificati (1 Cor. 6, 11); perché, cioè, una vita più corretta santifica coloro che l’afflizione delle lacrime, lavandoli, rende puri. Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla considerazione dei loro peccati, li ammonisce dicendo: Fate penitenza: ciascuno di voi sia battezzato (Atti, 2, 38). Volendo parlare del Battesimo, premette il pianto della penitenza, affinché, prima, versassero su di sé l’acqua della propria afflizione e, quindi, si lavassero col sacramento del Battesimo. Con quale pensiero vivono sicuri del perdono, coloro che trascurano di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo Pastore della Chiesa credette che si dovesse aggiungere anche la penitenza al sacramento che principalmente estingue i peccati?

 

31 — Come bisogna ammonire coloro che lodano le azioni illecite di cui sono consapevoli; e coloro che, pur condannandole, tuttavia non se ne guardano

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che addirittura lodano le azioni illecite che compiono; e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano. Bisogna ammonire i primi, infatti, a considerare che spesso peccano più con le parole che con le opere. Infatti, con le opere compiono il male solo per se stessi; ma con la bocca offrono il male a tante persone quante sono le menti di coloro che ascoltano e che essi istruiscono con la lode dell’iniquità. Bisogna ammonirli a temere almeno di seminare quei mali che essi trascurano di sradicare. Bisogna ammonirli ad accontentarsi della loro personale perdizione. E ancora — se non temono di essere malvagi —, bisogna ammonirli ad arrossire almeno di mostrarsi ciò che sono. Spesso, infatti, si fugge la colpa volendo nasconderla, perché se l’animo arrossisce di apparire ciò che, tuttavia, non teme di essere, avviene talvolta che arrossisca di essere ciò che evita di apparire. Ma quando il peccatore si fa notare con impudenza, quanto più liberamente compie qualsiasi mala azione, tanto più la considera anche lecita, e quanto più la giudica lecita senza dubbio affonda in essa maggiormente. Perciò è scritto: Hanno reso pubblico il loro peccato, come Sodoma, e non l’hanno nascosto (Is. 3, 9). Infatti, se Sodoma avesse nascosto il proprio peccato, avrebbe peccato ancora nel timore, ma aveva perduto fino in fondo i freni del timore, essa che non andava a cercare le tenebre per commettere la colpa. Perciò di nuovo è scritto: Il grido di Sodoma e di Gomorra si è moltiplicato (Gen. 18, 20); poiché il peccato è detto voce quando è azione colpevole, ma è detto anche grido quando è commesso in libertà. Al contrario, bisogna ammonire coloro che accusano le loro depravazioni, ma non le evitano, a considerare prudentemente che cosa diranno a propria scusa di fronte al severo giudizio di Dio, essi che, secondo il loro stesso giudizio, sono inescusabili riguardo alle loro colpe. Così, che altro sono costoro, se non accusatori di se stessi? Parlano contro le colpe, e con le loro opere trascinano se stessi come rei. Bisogna ammonirli a vedere che è dalla sentenza ancora nascosta del giudizio che la loro mente è illuminata perché veda il male che commette; e tuttavia non cerca di vincerlo. Così quanto meglio vede, tanto peggio va in rovina perché riceve la luce dell’intelligenza e non abbandona le tenebre dell’agire depravato. Infatti, poiché trascurano la scienza ricevuta in aiuto, la voltano in testimonianza contro di sé; e con quella luce di intelligenza, che certo avevano ricevuto per poter cancellare i peccati, aumentano il castigo. La loro malizia, cioè, quando opera quel male che pur discerne e giudica, degusta già qui il giudizio futuro poiché, mentre si conserva colpevole per il castigo eterno, neppure qui, intanto, è assolta dal suo stesso esame; e tanto più gravi tormenti dovrà ricevere là, quanto più, qui, non abbandona il male anche quando essa stessa lo condanna.

Perciò, infatti, la Verità dice: Il servo, che conosceva la volontà del suo Signore e non ha preparato né ha fatto secondo la sua volontà, riceverà molte percosse (Lc. 12, 47). Perciò dice il salmista: Discendano vivi nell’inferno (Sal. 54, 16). Perché vivi sanno e sentono le cose che si compiono intorno a loro, i morti invece non possono sentire nulla. Così scenderebbero morti nell’inferno se commettessero il male senza conoscerlo, ma quando conoscono il male, e ciononostante lo fanno, discendono nell’inferno di iniquità, viventi, miseri e consapevoli.

 

32 — Come bisogna ammonire coloro che peccano per impulso e coloro che peccano deliberatamente

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e coloro che restano prigionieri della colpa con deliberazione. Bisogna ammonire i primi a badare a se stessi, dovendo affrontare quotidianamente la guerra della vita presente, e a proteggere, con lo scudo di un pronto timore, il cuore che non è in grado di prevedere le ferite che può ricevere; abbiano così grande terrore dei dardi nascosti dell’insidioso nemico, e in un combattimento tanto oscuro si trincerino negli accampamenti del cuore, con una attenzione continua. Infatti, se il cuore è abbandonato dalla sollecita vigilanza, resta aperto alle ferite, poiché l’astuto nemico colpisce il petto tanto più liberamente, quanto più lo sorprende nudo della corazza della previdenza. Bisogna ammonire coloro che restano vinti da una improvvisa concupiscenza a distogliersi dalla eccessiva cura delle cose terrene, poiché mentre si coinvolgono smodatamente in realtà transitorie, ignorano da quali dardi di colpe restano trafitti. Perciò, la voce di chi è colpito mentre dorme viene anche espressa per mezzo di Salomone, il quale dice: Mi colpirono, ma non sentii dolore; mi trascinarono e non me ne accorsi. Quando veglierò e ritroverò ancora il vino? (Prov. 23, 35). La mente che dorme dimentica della sua sollecitudine viene colpita e non sente dolore, perché, come non vede i mali incombenti, così non riconosce neppure quelli che ha commesso; viene trascinata e non se ne accorge, perché è condotta attraverso le seduzioni dei vizi e tuttavia non si alza per custodirsi. Essa, in verità, desidera vegliare per ritrovare ancora il vino, perché quantunque sia oppressa dal terrore del sonno, via dalla custodia di se stessa, si sforza tuttavia di vegliare per le cure del secolo, per essere sempre ebbra dai piaceri; e mentre dorme, rispetto a ciò per cui avrebbe dovuto prudentemente vegliare, desidera di essere sveglia per altre cose per le quali avrebbe potuto lodevolmente dormire. Perciò più sopra, sta scritto: E sarai come chi dorme in mezzo al mare e come un pilota assopito che ha lasciato il timone (Prov. 23, 34). Infatti dorme in mezzo al mare, colui che, posto nelle tentazioni di questo mondo, trascura di prevedere i moti erompenti dei vizi, come cumuli di onde sovrastanti; ed è come un pilota che perde il timone, la mente che perde la tensione sollecita a governare la nave del corpo. Poiché è perdere il timone in mare il non mantenere una attenzione previdente, tra le tempeste di questo secolo. Infatti, se il pilota stringe con attenta cura il timone, ora dirige la nave contro i flutti ora taglia obliquamente l’impeto dei venti. Così, quando la mente governa l’anima con vigilanza, ora calpesta e vince alcune passioni ora, con previdenza, ne aggira altre, e così., con fatica sottomette quelle presenti, e con la previdenza si rafforza contro i combattimenti futuri. Perciò ancora si dice, dei forti combattenti, della patria celeste: La spada di ognuno è sulla coscia per via dei timori notturni (Cant. 3, 8). Si pone la spada sulla coscia, quando con la punta della santa predicazione si doma la malvagia suggestione della carne. Con la notte, poi, si esprime la cecità della nostra debolezza, poiché di notte non si vede nulla di ciò che può sovrastare ostilmente. E la spada di ognuno è posta sulla coscia per i timori notturni, poiché evidentemente gli uomini santi, col fatto che temono le tentazioni che non vedono, si mantengono sempre pronti alla tensione del combattimento. Perciò, ancora, si dice della sposa: Il tuo naso come torre che è nel Libano (Cant. 7, 4); infatti, ciò che non vediamo con gli occhi spesso lo prevediamo dall’odore. Col naso, poi, distinguiamo anche gli odori buoni dai cattivi. Dunque, che cosa si designa con naso della Chiesa, se non la previdente discrezione dei santi? E il naso è anche detto simile a una torre che è nel Libano, poiché la previdenza discreta dei santi è posta tanto in alto che vede le lotte delle tentazioni prima che vengano, e quando sono venute gli sta contro ben difesa. Infatti, le lotte future che vengono previste, quando si sono fatte presenti hanno minor forza, poiché quando uno si fa sempre più preparato contro i colpi, il nemico che si crede inatteso viene reso impotente proprio perché è stato previsto. Al contrario, bisogna ammonire coloro che si fanno prigionieri della colpa con deliberazione, a considerare con attenta previdenza che, col compiere il male deliberatamente, provocano contro di sé un giudizio più severo, così che li colpisce una sentenza tanto più dura, quanto più strettamente li legano alla colpa i vincoli della deliberazione. Forse laverebbero più in fretta i loro peccati col pentimento, se vi fossero caduti solamente per precipitazione; infatti il peccato indurito dal consiglio è anche più duro da assolvere, e se la mente non disprezzasse in ogni modo i beni eterni, non perirebbe cadendo nella colpa deliberata. Dunque, coloro che cadono per la precipitazione e coloro che periscono per la deliberazione differiscono in ciò, che questi ultimi, quando peccando cadono dalla condizione di giustizia, per lo più cadono insieme anche nel laccio della disperazione. Perciò, per mezzo del profeta, il Signore rimprovera non tanto i peccati di precipitazione quanto quelli dovuti a una passione coltivata, dicendo: Che non erompa come fuoco il mio sdegno e si accenda, e non ci sia chi lo spegne, per la malizia delle vostre passioni. Quindi, una seconda volta irato, dice: Vi visiterò secondo il frutto delle vostre passioni (Ger. 4, 4; 23, 2). Dunque, i peccati commessi con deliberazione differiscono dagli altri, perché il Signore non persegue tanto il fatto del peccato, quanto la premeditazione del peccato; giacché, nel fatto, si pecca spesso per debolezza, spesso per negligenza; ma nella premeditazione, si pecca sempre per intenzione maliziosa. Al contrario, bene si dice, per mezzo del profeta, a proposito dell’uomo beato: Non siede nella cattedra di pestilenza (Sal. 1, 1). Cattedra suole essere il seggio del giudice o del presidente, e sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a compiere il peccato con giudizio deliberato: sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a discernere il male con la ragione e tuttavia commetterlo con deliberazione. È come chi siede su una cattedra di consiglio perverso chi è innalzato da una esaltazione iniqua tanto grande da tentare di compiere il male perfino attraverso il consiglio. E come coloro che, sostenuti dall’autorità della cattedra, sono superiori alle folle che li assistono, così i peccati, ricercati con premeditazione, superano quelli di coloro che rovinano per precipitazione. Pertanto bisogna ammonire chi si lega alla colpa anche con la deliberazione, a dedurre da tutto ciò quale sarà la vendetta con cui, prima o poi, dovranno essere colpiti, loro che ora si fanno non compagni ma principi dei peccatori.

 

33 — Come bisogna ammonire coloro che cadono in peccati minimi ma frequenti, e coloro che guardandosi dai minimi restano talvolta sommersi da quelli gravi

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che commettono spesso peccati, sia pur minimi, e coloro che si custodiscono dai piccoli, ma talvolta affondano nei gravi. Bisogna ammonire coloro che cadono frequentemente in colpe sia pur piccole, a non considerare quali, ma quanti peccati, commettono. Infatti, se quando pesano le loro azioni disdegnano di temerle, devono averne paura quando le contano. Poiché sono profondi i gorghi dei fiumi, e sono piccole ma innumerevoli le gocce di pioggia che li riempiono; e la sentina che cresce nascostamente produce lo stesso effetto di una tempesta che infuria palesemente. E sono piccolissime le ferite che si aprono nelle membra per la scabbia, ma quando la loro quantità, divenuta innumerevole, si estende, uccide la vita del corpo come una grave ferita inflitta nel petto. Perciò è scritto: Chi disprezza le cose piccole a poco a poco viene meno (Sir. 19, 1). Infatti, chi trascura di piangere e di evitare i peccati minimi cade dalla condizione di giustizia, non di colpo, ma, poco alla volta, tutto. Bisogna ammonire coloro che frequentemente cadono in cose minime, a considerare con cura che spesso si pecca più rovinosamente con una colpa piccola che con una più grande. Poiché, la più grande, quanto prima è riconosciuta come colpa, tanto più rapidamente viene emendata: mentre la minore, che è valutata nulla, ha effetti tanto peggiori, quanto più tranquillamente continua a essere praticata. Per cui avviene spesso che il cuore avvezzo a peccati leggeri non ha in orrore neppure quelli gravi e, nutrito dalle colpe, giunge a una certa sicurezza nel male; e tanto disdegna di temere le colpe più gravi, quanto, nelle più piccole, ha imparato a peccare senza timore. Al contrario, bisogna ammonire coloro che si guardano dalle colpe piccole, ma talvolta sprofondano nelle gravi, ad aprire gli occhi su se stessi con sollecitudine, giacché, mentre il loro cuore si esalta perché si custodisce dalle piccole colpe, essi vengono divorati, dallo stesso baratro della loro esaltazione, a commettere peccati ancora più gravi; e, mentre al di fuori dominano le piccole colpe ma dentro si gonfiano di vanagloria, finiscono con l’abbattere anche al di fuori, con colpe più gravi, l’animo che, dentro, è stato vinto dalla malattia della superbia. Pertanto bisogna ammonire coloro che si custodiscono dai peccati piccoli ma talvolta sprofondano nei gravi, a non cadere, interiormente, là dove, esteriormente, stimano di stare in piedi; e, nella retribuzione del Giudice severo, l’esaltazione non divenga una via di minore giustizia, che trascini alla fossa della colpa più grave. Infatti, coloro che, esaltatisi vanamente, attribuiscono alle proprie forze la custodia di un bene minimo, giustamente abbandonati, si coprono di colpe più gravi e, cadendo, imparano che il loro stare in piedi non derivava da loro; ciò, affinché mali immensi umilino il cuore che beni minimi esaltano. Bisogna ammonirli a considerare che, con colpe più gravi si caricano di una grossa responsabilità, e tuttavia spesso nelle piccole buone azioni che custodiscono, peccano più rovinosamente perché, con le prime compiono cose inique, ma per mezzo delle altre tengono coperta agli uomini la loro iniquità. Per cui avviene che, quando commettono davanti a Dio i peccati maggiori, ciò è iniquità aperta; e quando custodiscono piccole buone azioni davanti agli uomini, è santità simulata. Perciò infatti si dice dei Farisei: Filtrano il moscerino e inghiottiscono il cammello (Mt. 23, 24); come se dicesse apertamente: lasciate da parte i peccati piccoli e divorate quelli grandi. È perciò che ancora si sentono rimproverare dalla bocca della Verità: Pagate la decima della menta, dell’aneto, e del cimino e trascurate ciò che è più importante nella legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà (Mt. 23, 23). E occorre ascoltare con attenzione, perché quando parla delle decime più piccole, ricorda intenzionalmente, fra le erbe, le ultime ma profumate; certo per mostrare che i simulatori, quando custodiscono le piccole buone azioni, cercano di spandere l’odore di una santa opinione di se stessi; e quantunque tralascino di compiere i beni più grandi, hanno cura dei piccoli che, a giudizio umano, spandono profumo in lungo e in largo.

 

34 — Come bisogna ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene, e coloro che dopo averlo incominciato non lo portano a termine

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene e coloro che, dopo averlo incominciato, non lo portano a termine. Quanto ai primi, non bisogna far loro presente, innanzitutto, ciò che devono sanamente amare, ma distruggere ciò a cui si applicano maliziosamente. Infatti, non vanno dietro a ciò di cui sentono parlare senza averne l’esperienza, se prima non comprendono quanto sia nocivo quello che hanno sperimentato; giacché non desidera di essere rialzato, colui che ignora perfino di essere caduto; e colui che non sente il dolore della ferita, non ricerca il rimedio per sanarla. Dunque, bisogna prima mostrare quanto sia vano ciò che amano, e poi con molta cautela bisogna insinuare quanto sia utile quello che tralasciano. Vedano, prima, che quel che amano è da fuggire, e poi, senza difficoltà, si renderanno conto che è amabile ciò che fuggono. Accolgono meglio, infatti, ciò di cui non hanno esperienza, se riconoscono per vero quanto è stato loro dimostrato su ciò che conoscono per esperienza. Allora, dunque, imparano con pieno desiderio a cercare le cose vere e buone, quando cioè abbiano compreso con giudizio sicuro di essere stati vanamente attaccati a cose false. Ascoltino quindi, che il piacere dei beni presenti è destinato a passare ben presto, e tuttavia la loro causa permarrà per una vendetta senza fine, poiché, ora, viene sottratto loro, contro voglia, ciò che piace; e, allora, ciò che procura dolore, sarà loro riservato come supplizio, ancora contro voglia. E così abbiano un salutare terrore delle medesime cose da cui traggono un piacere che li danna, affinché l’animo, che resta colpito alla vista dei danni profondi della sua propria rovina e si accorge di essere giunto sull’orlo del precipizio, rivolga indietro i suoi passi e, nel vivo timore di ciò che prima amava, impari ad amare ciò che disprezzava. Perciò viene detto a Geremia, mandato a predicare: Ecco, oggi ti ho costituito sopra le genti e sopra i regni, perché tu sradichi e distrugga, disperda e dissipi, ed edifichi e pianti (Ger. 1, 10); perché, se prima non avesse distrutto ciò che era perverso, non avrebbe potuto edificare utilmente ciò che era retto; se non avesse sradicato dai cuori dei suoi ascoltatori le spine di un amore vano, è certo che, invano, avrebbe piantato in loro le parole della santa predicazione. Perciò Pietro, prima abbatte per poi costruire, quando non ammoniva i Giudei riguardo a ciò che ormai avrebbero dovuto fare, ma li rimproverava di ciò che avevano fatto, dicendo: Gesù Nazareno, uomo approvato da Dio tra voi, per i miracoli, i prodigi, i segni che Dio operò in mezzo a voi, attraverso lui, come voi sapete: quest’uomo, consegnato per un disegno prestabilito dalla prescienza di Dio, lo avete ucciso inchiodandolo per mano di empi, ma Dio lo ha risuscitato, avendo sciolto le doglie dell’inferno (Atti, 2, 22-24). Disse così, evidentemente, affinché, abbattuti dalla consapevolezza della propria crudeltà, con quanta maggior tensione avrebbero ricercato l’edificazione della santa predicazione, tanto più utilmente l’ascoltassero. E quindi, subito rispondono: Che cosa dobbiamo fare, allora, fratelli? E ad essi viene detto: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato (Atti, 2, 37-38). Essi non avrebbero certamente fatto alcun conto di queste parole di edificazione, se prima non avessero trovato la salutare rovina della loro propria distruzione. Perciò Paolo, quando risplendette su di lui la luce mandata dal cielo, non udì ciò che avrebbe dovuto fare di bene, ma ciò che aveva fatto di male. Infatti, quando prostrato chiedeva: Chi sei, Signore? Gli fu subito risposto: Io sono Gesù Nazareno che tu perseguiti. E alla sua seconda immediata richiesta: Signore, che cosa ordini che faccia? Viene aggiunto subito: Alzati ed entra in città e là ti sarà detto che cosa è bene che tu faccia (Atti, 9, 24 ss.; 22, 8 ss.). Ecco, il Signore, parlando dal cielo, rimprovera le azioni del suo persecutore e tuttavia non mostra immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare. Ecco, ormai tutto l’edificio del suo orgoglio era crollato e, divenuto umile dopo la sua rovina, cercava di essere riedificato. Ma la superbia viene distrutta e tuttavia le parole dell’edificazione vengono ancora trattenute, evidentemente perché il crudele persecutore giaccia a lungo abbattuto, e poi, tanto più solidamente risorga nel bene, quanto più, prima, era caduto, rovesciato fin dalle fondamenta, dal primitivo errore. Pertanto, coloro che non hanno ancora incominciato a compiere alcun bene devono, prima, essere rovesciati dalla loro rigida perversità, dalla mano della correzione; per essere, poi, rialzati alla condizione di chi agisce rettamente. Poiché è come quando tagliamo un albero per innalzarlo, poi, alla copertura di un edificio: esso non viene impiegato immediatamente nella costruzione, perché prima si secchi il suo umore nocivo; e quanto più questo si asciuga nel suo interno, tanto più solidamente può essere sollevato in alto. Al contrario, bisogna ammonire coloro che non portano a termine il bene iniziato, a considerare con molta attenzione che, col non adempiere quanto si sono proposti, strappano via anche ciò a cui avevano dato inizio. Se, infatti, ciò che sembra di dover fare non cresce per una sollecita applicazione, diminuisce anche ciò che era stato ben compiuto. Poiché, in questo mondo, la vita umana è come una nave che sale contro la corrente di un fiume: non le è permesso di stare ferma in un luogo, perché scivola di nuovo verso il basso, se non si sforza di salire verso l’alto. Dunque, se la forte mano di chi opera non conduce a perfezione il bene intrapreso, la stessa interruzione dell’operare lotta contro quanto è già stato compiuto. Ed è ciò che è detto per mezzo di Salomone: Chi è molle e trascurato nel suo operare è fratello di chi dissipa il proprio lavoro (Prov. 18, 9). Poiché è chiaro che, chi non esegue rigorosamente quanto ha iniziato di buono, la trascuratezza della sua negligenza è come la mano di un distruttore. Perciò l’angelo dice alla Chiesa di Sardi: Sii vigilante e consolida le altre cose che stavano per morire, infatti non trovo complete le tue opere davanti al mio Dio (Ap. 3, 2). Dunque, poiché le sue opere non erano state trovate complete davanti a Dio, prediceva che sarebbero morte anche quelle altre che erano state compiute. Infatti, se ciò che in noi è morto non si riaccende a vita, si estingue anche ciò che, in un certo senso, si conserva ancora vivo. Bisogna ammonirli a considerare che avrebbe potuto essere più tollerabile non intraprendere la via del giusto, piuttosto che tornare indietro dopo averla intrapresa; infatti, se non si voltassero a guardare indietro, non languirebbero nel torpore, dopo l’attività iniziata. Ascoltino dunque ciò che è scritto: Sarebbe stato meglio non conoscere la via della giustizia che voltarsi indietro dopo averla conosciuta (2 Pt. 2, 21). Ascoltino ciò che è scritto: Magari fossi freddo o caldo; ma poiché sei tiepido e né freddo né caldo, incomincerò a vomitarti dalla mia bocca (Ap. 3, 15-16). Caldo è chi intraprende attivamente il bene e lo porta a termine; freddo è chi non incomincia neppure ciò che dovrebbe terminare. E come dal freddo, attraverso la tiepidezza, si passa al calore; così dal calore, attraverso la tiepidezza si ritorna al freddo. Dunque, chi vive avendo perduto il freddo della incredulità ma non supera la tiepidezza e non aumenta il suo calore così da ardere; mentre permane nella nociva tiepidezza, senza più nessuna speranza di quel calore, non fa altro che tornare freddo. Ma, come prima di diventare tiepido l’essere freddo conservava la speranza, così ora, la tiepidezza, dopo essere stato freddo, è senza speranza. Infatti, chi è ancora nel peccato, non perde la fiducia nella conversione; ma chi, dopo la conversione, è tiepido, si è sottratto anche quella speranza che poté avere da peccatore. Si richiede, dunque, che uno sia o caldo o freddo, per non essere vomitato essendo tiepido, affinché, se non è ancora convertito, lasci una speranza di conversione riguardo a sé o, se è già convertito, sia sempre più ardente nella pratica della virtù; e non sia vomitato come tiepido per essere ritornato a causa della sua inerzia, dal calore che si era proposto, al freddo dannoso.

 

35 — Come bisogna ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene apertamente; e quelli che agiscono viceversa

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e coloro che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi pubblicamente male di loro per certe loro azioni pubbliche. Infatti, bisogna ammonire i primi a valutare la rapidità con cui i giudizi umani volano via, e come, invece, restano stabili quelli divini. Bisogna ammonirli a tenere gli occhi della mente fissi al termine delle cose, poiché l’attestazione delle lodi umane passa, e la sentenza divina, che penetra ciò che è nascosto, si rafforza fino alla retribuzione eterna. Pertanto, mentre pongono i loro peccati davanti al giudizio divino, e le loro azioni giuste davanti agli occhi degli uomini, il bene che compiono pubblicamente resta senza testimone, ma non senza testimone eterno rimane ciò che di male essi compiono di nascosto. Così, nascondendo agli uomini le proprie colpe, e manifestando le virtù, mentre nascondono ciò per cui avrebbero dovuto essere puniti; di fatto lo svelano; e svelando ciò per cui avrebbero potuto essere premiati, di fatto lo nascondono. Giustamente la Verità li chiama sepolcri imbiancati, belli all’esterno ma pieni di ossa di morti (cf. Mt. 23, 27), perché occultano all’interno i mali dei vizi, ma con la dimostrazione di certe azioni blandiscono la vista degli uomini, con la sola apparenza esteriore della giustizia. Pertanto, bisogna ammonirli a non disprezzare le azioni rette che compiono, ma ad attribuire ad esse un più grande merito; infatti, condannano gravemente ciò che fanno di buono, coloro che stimano un compenso sufficiente per esso il favore umano, giacché, quando per una azione retta si cerca una lode passeggera, si vende a poco prezzo una cosa degna di un compenso eterno. Ed è di un tale prezzo che la Verità dice: In verità vi dico, hanno ricevuto la loro mercede (Mt. 6, 2). Bisogna ammonirli a considerare che mentre si mostrano malvagi nelle azioni nascoste e tuttavia offrono di sé pubblicamente esempi di buone opere, indicano che bisogna seguire ciò che essi fuggono, gridano che è amabile ciò che essi odiano e, da ultimo, vivono agli occhi degli altri, ma a se stessi muoiono. Al contrario, bisogna ammonire coloro che fanno nascostamente il bene e tuttavia per qualche loro azione pubblica permettono che si pensi male di loro, a non uccidere in sé altri, con l’esempio di una cattiva stima, mentre vivificano sé stessi, con la potenza di un retto agire; a non amare il prossimo meno che sé stessi, e a non versare veleno pestifero nei cuori attenti alla considerazione del loro esempio, mentre loro stessi bevono vino salubre. Poiché, in questo caso, non giovano alla vita del prossimo; e nell’altro la gravano molto; applicandosi, cioè, [da un lato] ad agire rettamente di nascosto, e [dall’altro] a seminare, per certe loro azioni, una cattiva opinione di sé come esempio per gli altri. Infatti, chi è già in grado di mettersi sotto i piedi la brama della lode, opera a danno dell’edificazione se nasconde il bene che compie; e colui che non mostra l’azione che deve essere imitata è come se, dopo aver gettato il seme che deve germinare ne strappasse le radici. Perciò infatti, la Verità disse, nell’Evangelo: Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli (Mt. 5, 16). Dove pure è pronunciata quell’altra sentenza che sembra comandare tutto il contrario dicendo: Guardate di non compiere la vostra giustizia di fronte agli uomini per essere visti da loro (Mt. 6, 1). Che cosa significa allora che il nostro operare deve essere compiuto in modo da non essere visto, e tuttavia, secondo il precetto, deve essere visto, se non che tutto ciò che facciamo deve essere nascosto perché non siamo noi a riceverne lode, e deve essere manifestato perché accresciamo così la lode del Padre celeste? Infatti, quando il Signore ci proibiva di compiere la nostra giustizia davanti agli uomini, subito aggiunse: Per essere visti da loro. E quando comandava che le nostre opere buone dovevano essere viste dagli uomini, subito aggiunse: Affinché glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, alla fine delle sentenze mostrò in che senso non devono essere viste e in che senso devono esserlo, affinché il cuore di chi la compie non cerchi che la sua opera sia veduta, per causa sua, e tuttavia non la nasconda, a gloria del Padre celeste. Perciò accade che per lo più un’opera buona possa essere nascosta anche se avviene pubblicamente e, ancora, sia come pubblica pur compiendosi di nascosto. Infatti, chi, in un’azione compiuta in pubblico, non cerca la propria gloria ma quella del Padre celeste, nasconde ciò che ha fatto, poiché ha considerato come testimone solo colui a cui si è preoccupato di piacere. E colui che nel suo segreto brama di essere scoperto e lodato nella sua opera buona, anche se nessuno ha veduto ciò che egli ha compiuto, egli ha tuttavia fatto ciò davanti agli uomini, poiché ha condotto con sé, nella sua buona opera, tanti testimoni quante sono le lodi umane che ha ricercato nel suo cuore. E quando una cattiva stima, che ha valore anche se non nasconde un peccato, non viene cancellata dalla mente di chi la considera, per l’esempio che essa rappresenta è come una colpa offerta all’imitazione di tutti quelli che vi prestano fede. Perciò spesso accade che coloro i quali, con negligenza, permettono che si pensi male di loro, non compiono per se stessi alcuna iniquità e tuttavia, attraverso tutti coloro che li avranno imitati, peccano ripetutamente. Perciò, a coloro che mangiano cibi immondi senza contaminarsi, quanto a sé, ma scandalizzano i deboli con questo modo di cibarsi, inducendoli in tentazione, Paolo dice: Guardate che la vostra libertà non diventi inciampo per i deboli (Cor. 8, 9). E ancora: E per la tua coscienza perirà il fratello debole per il quale Cristo è morto. E così, peccando contro i fratelli e colpendo la loro debole coscienza, peccate contro Cristo (Cor. 8, 11-12). Perciò Mosè, dopo aver detto: Non dirai male di un sordo, aggiunse: Né porrai un inciampo davanti a un cieco (Lev. 19, 14). Dire male di un sordo equivale a criticare un assente che non può ascoltare; e porre un inciampo davanti a un cieco corrisponde ad agire con discernimento e tuttavia offrire occasione di scandalo a chi non ha la luce della discrezione.

 

36 — Dell’esortazione che bisogna prestare a molti, tale da aiutare le virtù dei singoli, così che per essa non aumentino i vizi contrari a quelle virtù

 

Queste sono le avvertenze che il Pastore d’anime deve osservare nella diversità della predicazione, per contrapporre con sollecitudine medicine adatte alle ferite dei singoli. Ma se è di grande impegno il servire alle situazioni individuali, nell’esortazione dei singoli, se è molto faticoso istruire ciascuno, in quanto lo può direttamente riguardare, con la dovuta considerazione, tuttavia è di gran lunga più faticoso farlo, nello stesso tempo e con il medesimo discorso, nei. confronti di ascoltatori numerosi e sottoposti a passioni diverse; e il discorso deve essere regolato con tanta arte da adattarsi ai singoli ascoltatori coi loro diversi vizi, e insieme da non contraddirsi; da passare tra le passioni seguendo un solo tracciato, ma come una spada a due tagli, incidendo i tumori dei pensieri carnali da parti opposte, così che si predichi l’umiltà ai superbi in modo che però ai timidi non aumenti il timore; ai timidi si infonda sicurezza, in modo che però non cresca la sfrenatezza dei superbi. Si predichi agli oziosi e ai torpidi la sollecitudine del bene operare in modo che però non si accresca la licenza di una attività smodata negli inquieti. Si ponga una misura agli inquieti in modo che però il torpore degli oziosi non si senta sicuro. Si spenga l’ira degli impazienti in modo che però, ai remissivi e ai tranquilli non aumenti la negligenza. I tranquilli siano eccitati allo zelo, in modo che però non si aggiunga fuoco agli iracondi. Si infonda spirito di larghezza nel dare agli avari in modo che però non si allentino i freni della liberalità smodata ai prodighi; e si predichi ai prodighi la parsimonia in modo che però negli avari non aumenti la custodia dei beni destinati a perire. Si lodi il matrimonio agli incontinenti, in modo che però coloro che già sono continenti non siano richiamati alla lussuria. Ai continenti poi si lodi la verginità del corpo in modo che però i coniugi non siano indotti a disprezzare la fecondità della carne. Bisogna predicare i beni in modo che d’altro canto non ne traggano giovamento i mali. Bisogna lodare i beni più alti in modo che non restino disprezzati i minori; e bisogna alimentare i minori perché se si pensa che siano per sé sufficienti, non si sia trattenuti dall’aspirare ai sommi.

 

37 — Dell’esortazione che si deve a una persona soggetta a passioni contrarie

 

È certo grave fatica per un predicatore essere attento, in un discorso rivolto a pin persone, ai moti nascosti dei singoli e alle loro cause e, come avviene negli esercizi in palestra, destreggiarsi nell’arte di volgersi in diverse direzioni; tuttavia egli si sottopone a una fatica molto maggiore quando è costretto a predicare a una sola persona soggetta a vizi opposti. Spesso infatti si dà il caso di qualcuno di carattere gaio che poi di colpo si deprime terribilmente per il sopraggiungere di una improvvisa tristezza. Il predicatore deve allora fare si che venga tolta la tristezza improvvisa ma in modo che non cresca la gaiezza prodotta dal temperamento; e sia frenata la gaiezza del temperamento in modo che però non aumenti la tristezza che viene all’improvviso. Uno è gravato da una abituale smodata precipitazione, però, ogni tanto, la forza di una improvvisa paura lo trattiene da qualcosa ché bisogna eseguire con fretta. Un altro è gravato da una abituale smisurata paura, però ogni tanto è spinto da una precipitazione temeraria in qualcosa che desidera. E allora, nel primo, bisogna reprimere la paura sorta improvvisamente in modo che però non aumenti la precipitazione coltivata a lungo; e nel secondo bisogna reprimere la precipitazione improvvisa, in modo che però non si rafforzi la paura dovuta al temperamento. Quale meraviglia che i medici delle anime abbiano tanta cura di queste cose, se coloro che non curano i cuori ma i corpi si regolano con una discrezione cos’ sapiente? Spesso infatti una terribile malattia opprime un debole corpo e ad essa si deve venire in aiuto con rimedi vigorosi, ma tuttavia il corpo debole non sostiene il rimedio forte; allora il medico deve studiare in che modo togliere la malattia sopravvenuta senza aumentare la sottostante debolezza del corpo, perché insieme con la malattia non venga meno la vita. Perciò mette insieme il rimedio con tanta discrezione da ovviare alla malattia e nello stesso tempo aiutare il malato. Dunque, se la medicina del corpo, applicata in modo unitario, può agire in sensi opposti (la medicina infatti è veramente tale quando con essa si rimedia alla malattia sopravvenuta e si viene in aiuto anche al temperamento che vi è sottoposto), perché la medicina dell’animo applicata da una sola e medesima predicazione non dovrebbe essere in grado di ovviare a malattie morali di diverso ordine, essa che è tanto più sottilmente praticata, in quanto si tratta di condizioni spirituali?

 

38 — Talvolta occorre lasciare sopravvivere vizi più leggeri per togliere i più gravi

 

Ma poiché spesso irrompe una malattia dovuta al concorrere di due vizi, dei quali forse uno preme in modo più grave dell’altro, più leggero; è senza subbio più giusto venire in fretta in aiuto contro quel vizio per cui si corre rapidamente alla morte. E se per evitare una morte prossima, non si può contenere questo, senza che cresca il coesistente vizio contrario, occorre che il predicatore tolleri che attraverso la sua esortazione, questo ultimo, per un artificioso accomodamento, subisca una crescita, pur di poter trattenere l’altro dalla vicina morte. Ciò che egli opera non aumenta la malattia del suo ferito, cui egli applica il rimedio, ma gli conserva la vita finché trovi il momento adatto per ricercare la sua salvezza. Spesso avviene che qualcuno, per non sapersi affatto trattenere dall’ingordigia dei cibi, viene assalito dagli stimoli della lussuria che ormai sta per vincerlo ed egli, atterrito dal timore di soccombere in questa lotta, mentre si sforza di contenersi con l’astinenza, è travagliato dalla tentazione della vanagloria. In questa situazione non è possibile che si estingua un vizio senza che se ne alimenti un altro. Dunque, quale peste occorre combattere con più ardore se non quella che preme con maggiore pericolo? Allora bisogna tollerare che, provvisoriamente, in chi esercita la virtù dell’astinenza cresca un po’ di orgoglio purché egli viva, piuttosto che lo uccida del tutto la lussuria generata dall’ingordigia. Perciò Paolo, considerando il suo debole ascoltatore esposto all’alternativa, o di un agire ancora perverso o di compiacersi per il compenso della lode degli uomini, per il suo agire retto, dice: Vuoi non temere l’autorità? Fa’ il bene e riceverai lode da essa (Rom. 13, 3). Infatti, né il bene va fatto per non dovere temere chi ha il potere in questo mondo né per ricever con esso la gloria di una lode passeggera. Ma considerando che un cuore debole non può giungere a tanta fortezza da voler sfuggire insieme al male e alla lode, il gran dottore, nella sua ammonizione, mentre gli toglie una cosa gli concede l’altra; infatti, concedendogli ciò che è più leggero, gli tolse il più grave, in modo che non essendo in grado di abbandonare tutto in una sola volta, l’animo veniva lasciato alla consuetudine di un certo suo vizio per essere liberato senza fatica da un certo altro.

 

39 — Non bisogna assolutamente predicare cose troppo alte alle menti deboli

 

Occorre che il predicatore non attiri l’animo del suo ascoltatore al di là delle sue forze, affinché la corda della mente non si spezzi mentre viene tesa, per cosa dire, oltre il suo potere. Infatti, quando sono molti ad ascoltare, i discorsi troppo elevati si devono contenere e riservare solo per pochi. Perciò la Verità in persona dice: Chi credi che sia il dispensatore fedele e prudente che il padrone ha stabilito sulla sua famiglia perché dia a ciascuno a suo tempo la misura di grano? (Lc. 12, 42). E la misura di grano esprime lo stile del discorso perché non accada che si dia a un cuore angusto qualcosa che esso non può contenere e questo si versi al di fuori. Perciò Paolo dice: Non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma come a carnali. Come a bambini in Cristo, vi ho dato da bere latte e non cibo solido (1 Cor. 3, 1). Perciò Mosè, uscendo dall’intimità con Dio, vela, davanti al popolo, il volto ancora raggiante (cf. Es. 34, 31); certo perché, alle turbe, esso non parla dei misteri della luce interiore. Perciò, attraverso di lui, viene prescritto dalla parola divina che se qualcuno ha scavato una cisterna e ha trascurato di ricoprirla, deve pagare il prezzo di un bue o di un asino che vi sia caduto dentro (cf. Es. 21, 33-34). Poiché, se i rozzi cuori dei suoi ascoltatori non possono contenere le acque correnti della profonda dottrina cui egli è pervenuto, è considerato reo meritevole di pena qualora, per le sue parole, una mente, sia pura sia impura, resta presa nello scandalo. Perciò viene detto al beato Giobbe: Chi ha dato l’intelligenza al gallo? (Giob. 38, 36). Infatti, il predicatore santo che grida in questo tempo oscuro è come il gallo che canta nella notte, quando dice: È ormai ora di sorgere dal sonno (Rom. 13, 11); e ancora: Vegliate, giusti, e non peccate (1 Cor. 15, 34). Ma il gallo è solito emettere un alto canto nelle ore più profonde della notte, e invece, quando l’ora del mattino è più vicina, produce suoni più tenui e leggeri, poiché chi predica opportunamente grida in modo chiaro ai cuori ancora ottenebrati e non fa alcun accenno ai misteri nascosti, affinché siano in grado di ascoltare discorsi più sottili sulle cose celesti quando si avvicinano alla luce della verità.

 

40 — La predicazione nelle opere e nelle parole

 

Ma ritorniamo soprattutto con ardore di carità a quanto abbiamo già detto sopra, che cioè ogni predicatore si faccia sentire più con i fatti che con le parole, e imprima le sue orme per chi lo segue, attraverso una buona vita, piuttosto che mostrare con le parole la mèta verso cui essi devono camminare. Poiché anche questo gallo, che il Signore prende come esempio nelle sue parole, per indicare il tipo del buon predicatore, quando già si prepara a cantare, prima scuote le ali e percuotendosi da solo si fa più sveglio; chiaramente perché è necessario che coloro, i quali si accingono alla santa predicazione, siano prima vigilanti e dediti al bene operare, perché non pretendano di scuotere gli altri con le parole, mentre in se stessi dormono nell’inerzia: scuotano se stessi, prima, con azioni elevate, e solo allora rendano gli altri solleciti del ben vivere; prima colpiscano sé con le ali della meditazione e con attento esame colgano ciò che in loro giace nell’inutile torpore e lo correggano con severa riprensione; e solo allora regolino con le parole la vita degli altri. Prima abbiano cura di punire i propri peccati con pianto e poi denuncino ciò che è degno di punizione negli altri; e prima di fare risuonare parole di esortazione, gridino con le opere tutto ciò che hanno intenzione di dire.

 

 

 

 

 

PARTE QUARTA

 

COME IL PREDICATORE,

COMPIUTA OGNI COSA NEL MODO DOVUTO,

DEVE RITORNARE IN SE STESSO,

PERCHÉ LA VITA O LA PREDICAZIONE

NON LO ESALTI

 

 

Ma poiché spesso, quando la predicazione scorre copiosamente nei modi convenienti, l’animo di chi parla si esalta in se stesso per la gioia nascosta di questa dimostrazione di sé, è necessaria una grande cura perché esso si lasci ferire dai morsi del timore e non accada che colui il quale, curando le loro ferite, richiama gli altri alla salvezza, si inorgoglisca lui per negligenza della salvezza sua propria; e mentre giova al prossimo, abbandoni se stesso e cada, mentre fa rialzare gli altri. Spesso, infatti, la grandezza della virtù fu occasione di perdizione per alcuni, perché per la confidenza nelle proprie forze acquistano una disordinata sicurezza, così che poi, per negligenza, in modo imprevisto muoiono. Infatti, quando la virtù resiste ai vizi, per un certo piacere di essa, l’animo ne resta lusingato, e avviene che la mente di chi opera bene rigetti il timore che la fa essere attenta ai vizi; riposi sicura nella confidenza di sé; e quando essa è presa nel torpore, l’astuto seduttore le enumera tutte le sue buone opere e la esalta nel pensiero orgoglioso di essere superiore agli altri. Quindi, agli occhi del giusto Giudice, il ricordo della virtù diviene una fossa per la mente, perché ricordando ciò che ha compiuto, mentre si innalza in se stessa, cade di fronte all’autore dell’umiltà. Perciò è detto all’anima che insuperbisce: Quanto pia sei bella, scendi e dormi con gli incirconcisi (Ez. 32, 9); come se dicesse apertamente: Poiché ti elevi per la bellezza della virtù, dalla tua stessa bellezza sei spinta a cadere. Perciò, l’anima che insuperbisce per la virtù, viene riprovata — personificata in Gerusalemme — quando è detto: Eri perfetta nella mia bellezza, che io avevo posto su di te, dice il Signore; ma fidando nella tua bellezza, hai fornicato nel tuo nome (Ez. 16, 14-15). Giacché l’animo si esalta, per la fiducia nella propria bellezza, quando lieto per i meriti delle sue virtù, si gloria ai suoi occhi nella propria sicurezza. Ma attraverso questa medesima fiducia è condotto alla fornicazione, perché quando i suoi stessi pensieri illudono la mente prigioniera, gli spiriti maligni la corrompono, seducendola attraverso innumerevoli vizi. Si noti che è detto: Hai fornicato nel tuo nome, perché quando il cuore abbandona il rispetto della guida celeste, cerca subito una lode personale, e incomincia ad attribuirsi ogni bene che ha ricevuto per servire all’annuncio di colui che gliel’ha donato; desidera dilatare la gloria della sua fama; fa di tutto per apparire degna di ammirazione a tutti. Pertanto fornica in suo nome, colei che abbandonando il talamo legale giace sotto lo spirito corruttore per la brama della lode. Perciò David dice: Ha consegnato alla prigionia la loro virtù e la loro bellezza in mano al nemico (Sal. 77, 61). Giacché la virtù è consegnata alla prigionia e la bellezza in mano all’avversario, quando l’antico nemico domina un cuore illuso dall’esaltazione per una buona opera; e tuttavia questa esaltazione della virtù, sebbene non vinca completamente, tenta spesso, comunque, anche l’animo degli eletti; ma quando, dopo essersi esaltato, viene abbandonato, allora è richiamato al timore. Perciò David ancora dice: lo dissi nel mio benessere: Non sarò scosso in eterno (Sal. 29, 7). Ma poiché si gonfiò nella confidenza nella propria virtù, poco dopo aggiunge che cosa dovette sopportare: Hai distolto il tuo volto e sono stato turbato (Sal. 29, 8); come se dicesse apertamente: Mi sono creduto forte tra le mie virtù, ma abbandonato, ho riconosciuto quanto è grande la mia debolezza. Perciò ancora dice: Ho giurato e stabilito di custodire i giudizi della tua giustizia (Sal. 118, 106). Ma poiché non era in potere della sua forza rimanere fermo nella custodia che aveva giurato, subito scopri la propria debolezza, per cui immediatamente si buttò nella preghiera dicendo: Sono stato umiliato fino in fondo, Signore, dammi vita secondo la tua parola (Sal. 118, 107). Poiché spesso la guida celeste prima di fare progredire coi doni richiama alla mente il ricordo della debolezza, perché non ci si gonfi per le virtù ricevute. Perciò il profeta Ezechiele, ogni volta che è condotto a contemplare le cose celesti, viene chiamato prima figlio dell’uomo, come se il Signore lo ammonisse apertamente dicendo: perché tu non innalzi il tuo cuore nell’esaltazione, considera attentamente ciò che sei, affinché quando penetri le verità somme riconosca di essere uomo; e mentre sei rapito al di là di te, tu sia richiamato sollecitamente a te stesso dal freno della tua debolezza. Perciò è necessario che quando l’abbondanza delle virtù ci lusinga, l’occhio della mente ritorni alle sue debolezze e si costringa a voltarsi indietro per guardare non ciò che ha fatto rettamente, ma ciò che ha trascurato di fare, perché, mentre nel ricordo della debolezza, il cuore si abbatte, sia rafforzato nella virtù presso l’autore dell’umiltà. Poiché spesso Dio onnipotente, quantunque in gran parte renda perfette le menti delle guide delle anime, tuttavia, per una piccola parte, le lascia imperfette, affinché, quando risplendono per le loro ammirabili virtù, si struggano per il fastidio della propria imperfezione e non si innalzino per quanto è in loro di grande, mentre ancora si travagliano nel loro sforzo contro difetti minimi; ma poiché non sono capaci di vincere questi ultimi resti di imperfezione, non osino insuperbire per i loro atti eminenti. Ecco, nobilissimo uomo, spinto dalla necessità di accusare me stesso e tutto attento a mostrare quale debba essere il Pastore, ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore, che, ancora sbattuto dai flutti dei peccati, pretendo di guidare gli altri al lido della perfezione. Ma in questo naufragio della vita, ti supplico, sostienimi con la tavola della tua preghiera e, poiché il mio peso mi fa affondare, sollevami con la mano dei tuoi meriti.

 Uno dei detti del Signore di cui si ignora la fonte. Si ritrova in sant’Agostino (Enarr. in Ps. 102, 12; e in Ps. 146, 17) e in altri autori medievali.

 

Breve profilo biografico di

San Girolamo (o Gerolamo)

Sacerdote e dottore della Chiesa

 

San Girolamo è un Padre della Chiesa che ha posto al centro della sua vita la Bibbia: l’ha tradotta nella lingua latina, l’ha commentata nelle sue opere, e soprattutto si è impegnato a viverla concretamente nella sua lunga esistenza terrena, nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura.
Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane sentì l'attrattiva della vita mondana (cfr Ep. 22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l'interesse per la religione cristiana. Ricevuto il battesimo verso il 366, si orientò alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si inserì in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito quasi «un coro di beati» (Chron. Ad ann. 374) riunito attorno al Vescovo Valeriano. Partì poi per l'Oriente e visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi. Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell'ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e opere patristiche (cfr Ep. 5,2). La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare la sua sensibilità cristiana. Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7), e avvertì vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana: un contrasto reso celebre dalla drammatica e vivace "visione", della quale egli ci ha lasciato il racconto. In essa gli sembrò di essere flagellato al cospetto di Dio, perché «ciceroniano e non cristiano» (cfr Ep. 22,30).

Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e culturali. Alcune persone dell’aristocrazia romana, soprattutto nobildonne come Paola, Marcella, Asella, Lea ed altre, desiderose di impegnarsi sulla via della perfezione cristiana e di approfondire la loro conoscenza della Parola di Dio, lo scelsero come loro guida spirituale e maestro nell’approccio metodico ai testi sacri. Queste nobildonne impararono anche il greco e l’ebraico.

Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contra Rufinum 3,22; Ep. 108,6-14). Nel 386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14). A Betlemme restò fino alla morte, continuando a svolgere un'intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.

La preparazione letteraria e la vasta erudizione consentirono a Girolamo la revisione e la traduzione di molti testi biblici: un prezioso lavoro per la Chiesa latina e per la cultura occidentale. Sulla base dei testi originali in greco e in ebraico e grazie al confronto con precedenti versioni, egli attuò la revisione dei quattro Vangeli in lingua latina, poi del Salterio e di gran parte dell'Antico Testamento. Tenendo conto dell'originale ebraico e greco, dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta "Vulgata", il testo "ufficiale" della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo "ufficiale" della Chiesa di lingua latina. E’ interessante rilevare i criteri a cui il grande biblista si attenne nella sua opera di traduttore. Li rivela egli stesso quando afferma di rispettare perfino l’ordine delle parole delle Sacre Scritture, perché in esse, dice, "anche l’ordine delle parole è un mistero" (Ep. 57,5), cioè una rivelazione. Ribadisce inoltre la necessità di ricorrere ai testi originali: «Qualora sorgesse una discussione tra i Latini sul Nuovo Testamento, per le lezioni discordanti dei manoscritti, ricorriamo all'originale, cioè al testo greco, in cui è stato scritto il Nuovo Patto. Allo stesso modo per l'Antico Testamento, se vi sono divergenze tra i testi greci e latini, ci appelliamo al testo originale, l'ebraico; così tutto quello che scaturisce dalla sorgente, lo possiamo ritrovare nei ruscelli» (Ep. 106,2). Girolamo, inoltre, commentò anche parecchi testi biblici. Per lui i commentari devono offrire molteplici opinioni, «in modo che il lettore avveduto, dopo aver letto le diverse spiegazioni e dopo aver conosciuto molteplici pareri – da accettare o da respingere –, giudichi quale sia il più attendibile e, come un esperto cambiavalute, rifiuti la moneta falsa» (Contra Rufinum 1,16).

Confutò con energia e vivacità gli eretici che contestavano la tradizione e la fede della Chiesa. Dimostrò anche l'importanza e la validità della letteratura cristiana, divenuta una vera cultura ormai degna di essere messa confronto con quella classica: lo fece componendo il De viris illustribus, un'opera in cui Girolamo presenta le biografie di oltre un centinaio di autori cristiani. Scrisse pure biografie di monaci, illustrando accanto ad altri itinerari spirituali anche l'ideale monastico; inoltre tradusse varie opere di autori greci. Infine nell'importante Epistolario, un capolavoro della letteratura latina, Girolamo emerge con le sue caratteristiche di uomo colto, di asceta e di guida delle anime.

Che cosa possiamo imparare noi da San Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice San Girolamo: "Ignorare le Scritture è ignorare Cristo". Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev'essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio che si rivolge anche a noi e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell'individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell'ascolto della Parola di Dio è la liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l'eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l'eterno, la vita eterna.

E così concludo con una parola di San Girolamo a San Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l'eternità, la vita eterna. Dice San Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).


Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza generale 14 Novembre 2007)





Con quest’uomo intrattabile hanno un debito enorme la cultura e i cristiani di tutti i tempi. Ha litigato con sprovveduti, dotti, santi e peccatori; fu ammirato e detestato. Ma rimane un benefattore delle intelligenze e la Chiesa lo venera come uno dei suoi padri più grandi. Nato da famiglia ricca, riceve il battesimo a Roma, dove va a studiare. Studierà per tutta la vita, viaggiando dall’Europa all’Oriente con la sua biblioteca di classici antichi, sui quali si è formato. Nel 375, dopo una malattia, Gerolamo passa alla Bibbia, con passione crescente. Studia il greco ad Antiochia; poi, nella solitudine della Calcide (confini della Siria), si dedica all’ebraico. Riceve il sacerdozio ad Antiochia nel 379 e nel 382 è a Roma. Qui, papa Damaso I lo incarica di rivedere il testo di una diffusa versione latina della Scrittura, detta Itala, realizzata non sull’originale ebraico, bensì sulla versione greca detta dei Settanta. A Roma fa anche da guida spirituale a un gruppo di donne della nobiltà. E intanto scaglia attacchi durissimi a ecclesiastici indegni (un avido prelato riceve da lui il nome “Grasso Cappone”).
Alla morte di Damaso I (384), va in Palestina con la famiglia della nobile Paola. Vive in un monastero a Betlemme, scrivendo testi storici, dottrinali, educativi e corrispondendo con gli amici di Roma con immutata veemenza. Perché così è fatto. E poi perché, francamente, troppi ipocriti e furbi inquinano ora la Chiesa, dopo che l’imperatore Teodosio (ca. 346-395) ha fatto del cristianesimo la religione di Stato, penalizzando gli altri culti.
Intanto prosegue il lavoro sulla Bibbia secondo l’incarico di Damaso I. Ma, strada facendo, lo trasforma in un’impresa mai tentata. Sente che per avvicinare l’uomo alla Parola di Dio bisogna andare alla fonte. E così, per la prima volta, traduce direttamente in latino dall’originale ebraico i testi protocanonici dell’Antico Testamento. Lavora sulla pagina e anche sul terreno, come dirà: "Mi sono studiato di percorrere questa provincia (la Giudea) in compagnia di dotti ebrei". Rivede poi il testo dei Vangeli sui manoscritti greci più antichi e altri libri del Nuovo Testamento. Gli ci vorrebbe più tempo per rifinire e perfezionare l’enorme lavoro. Ma, così come egli lo consegna ai cristiani, esso sarà accolto e usato da tutta la Chiesa: nella Bibbia di tutti, Vulgata, di cui le sue versioni e revisioni sono parte preponderante, la fede è presentata come nessuno aveva fatto prima dell’impetuoso Gerolamo.
E impetuoso rimane, continuando nelle polemiche dottrinali con l’irruenza di sempre, perfino con sant’Agostino, che invece gli risponde con grande amabilità. I suoi difetti restano, e la grandezza della sua opera pure. Gli ultimi suoi anni sono rattristati dalla morte di molti amici, e dal sacco di Roma compiuto da Alarico nel 410: un evento che angoscia la sua vecchiaia.

 

 

Questo sito utilizza i cookie e tecnologie simili necessarie al funzionamento e per una migliore navigazione. Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookies

Privacy Policy