VII

IL DIAVOLO NON AVEVA ALCUN DIRITTO SULL'UOMO;
POTREBBE PARERE, INVECE, CHE EGLI ESIGESSE DA DIO
QUESTO PARTICOLARE MODO DI SALVEZZA DELL’UMANITÀ

BOSONE - Non vedo inoltre che forza abbia quello che noi siamo soliti dire, e cioè che Dio, per liberare l'uomo, avrebbe dovuto lottare con il diavolo più con la giustizia che con la potenza; e questo affinché il diavolo, facendo morire chi di morire non aveva motivo alcuno ed era Dio, perdesse a giusto titolo il potere che aveva sui peccatori.

In caso contrario, Dio avrebbe usato contro il diavolo una violenta ingiustizia; questo infatti aveva sull'uomo pieno diritto in quanto non lo aveva già attirato violentemente a sé, ma era stato l'uomo a darglisi spontaneamente.

Forse si potrebbe parlare così se il diavolo o l'uomo fossero indipendenti o sudditi di qualche altro e non di Dio. Siccome invece sia il diavolo che l'uomo sono di Dio e non possono esistere che in dipendenza da lui, che cosa avrebbe dovuto fare Iddio con un essere che gli apparteneva, nei riguardi di esso e in esso?

Una cosa sola: punire il servo che aveva persuaso il compagno di servitù ad abbandonare il comune padrone per sottometterlo a sé e che, traditore e ladro, s'era appropriato del fuggiasco divenuto ladro lui pure, derubandone il suo Signore. Erano ladri entrambi in quanto uno, persuaso dall'altro, rubava se stesso al proprio padrone. Che, di più giusto, se Dio avesse agito così?

Che ingiustizia ci sarebbe se invece Dio, giudice universale, avesse strappato l'uomo, così posseduto, dal potere di un possessore tanto ingiusto, o per punirlo in un altro modo che escludesse l'intervento del diavolo oppure per perdonarlo?

Benché infatti fosse giusto che l'uomo venisse tormentato dal diavolo, questo però lo tormentava ingiustamente. L'uomo infatti aveva meritato una punizione, e nessuno poteva punirlo più convenientemente di colui a cui aveva dato il suo consenso per peccare. Il diavolo però non aveva diritto alcuno di punirlo; anzi lo faceva tanto più ingiustamente in quanto non vi era spinto dall'amore della giustizia ma dall'istinto del male. Non lo faceva per volere di Dio, ma col permesso della sua incomprensibile sapienza che ordina bene anche il male.

E penso che quanti stimano che il diavolo abbia qualche diritto di possedere l'uomo vi siano indotti da questo: essi vedono cosa giusta che l'uomo sia soggetto alle vessazioni del diavolo e che Dio lo permetta, e perciò pensano che il diavolo le infligga giustamente.

Può capitare infatti che la stessa cosa sia considerata giusta o ingiusta secondo il punto di vista da cui è guardata, e perciò sia giudicata tutta giusta o ingiusta da chi non la osserva attentamente.

E' il caso di uno che percuote ingiustamente un innocente e merita così di essere percosso giustamente. Se però la persona che fu percossa, la quale ha il dovere di non vendicarsi, percuote il suo percussore, lo fa ingiustamente. La percossa che questi dà, se è considerata da parte di chi la dà è ingiusta in quanto egli non si deve vendicare; considerata invece da parte di chi la riceve, è giusta, in quanto egli aveva percosso ingiustamente ed era quindi giusto che ne ricevesse il contraccambio. Dunque, la stessa azione è giusta o ingiusta secondo i diversi punti di vista e può capitare che da uno sia considerata giusta e da un altro ingiusta. Si può dire perciò che il diavolo giustamente tormenta l'uomo, per il fatto che Dio lo permette e l'uomo giustamente lo subisce. Dicendo però che l'uomo giustamente lo subisce, non si vuol dire che lo subisca giustamente in forza della propria giustizia, ma in quanto punito da un giusto giudizio di Dio. Ci potrebbe venir obiettata "la scrittura del decreto che deponeva contro di noi" (Col 2, 14), come dice l'Apostolo, e che fu abolita con la morte di Cristo. Secondo qualcuno la frase vuoi dire questo: in forza di una scrittura di un decreto, prima della passione di Cristo il diavolo poteva esigere dall'uomo il peccato come usura del primo peccato che a questi egli aveva fatto commettere e come pena del peccato; in tal modo sembrerebbe provato il diritto del diavolo sull'uomo.

Io però penso che essa non vada intesa cosi. Quella "scrittura" non appartiene al diavolo, perché è detta "scrittura del decreto"; ora quel decreto non era del diavolo, ma di Dio. Infatti il giusto giudizio di Dio aveva decretato, e la scrittura l'aveva come sancito, che l'uomo, avendo peccato spontaneamente, non potesse in seguito evitare da solo il peccato e la pena.

L'uomo è in verità "uno spirito che va e non ritorna" (Sal 78, 39); e "chi fa il peccato è schiavo del peccato" (Gv 8, 34); chi pecca non deve rimanere impunito, a meno che la misericordia non gli perdoni o non lo liberi e lo faccia tornare indietro. Dobbiamo credere quindi che, in forza di questa "scrittura", non si può riconoscere al diavolo alcun diritto di tormentare l'uomo.

Infine, come nell'angelo buono non c'è nulla d'ingiusto, così in quello cattivo non c'è giustizia alcuna. Perciò nel diavolo non c'era nulla che potesse impedire a Dio di far uso della propria forza contro di lui per liberare l'uomo.

VIII

BENCHÉ LE UMILIAZIONI DEL CRISTO NON RIGUARDINO LA DIVINITÀ TUTTAVIA AGLI INFEDELI SEMBRA SCONVENIENTE ATTRIBUIRLE A LUI IN QUANTO UOMO.
RAGION PER CUI A LORO SEMBRA CHE QUESTO UOMO NON SIA MORTO SPONTANEAMENTE

ANSELMO - Quando la volontà di Dio compie una opera, il fatto stesso che lui la vuole dovrebbe soddisfare la nostra ragione, anche se non ne vediamo il perché. La volontà di Dio non è mai irragionevole.

BOSONE - Vero, purché sia evidente che Dio vuole ciò di cui si tratta. E infatti molti non ammettono assolutamente che Dio voglia una cosa, se hanno l'impressione che essa contrasti con la ragione.

ANSELMO - Che cosa ci vedi di irragionevole, quando noi dichiariamo che Dio volle quello che crediamo della sua incarnazione?

BOSONE - In poche parole: che l'Altissimo si sia piegato a tali abbassamenti e che l'Onnipotente abbia compiuto un'opera con tanta fatica.

ANSELMO - Chi parla così non capisce l'oggetto della nostra fede. Noi affermiamo senza il minimo dubbio che la natura divina è impassibile e non può decadere dalla propria altezza né faticare nel compiere quello che vuole. Diciamo però che il Signore Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, una sola persona in due nature e due nature in una sola persona. Perciò, quando diciamo che Dio subisce qualche umiliazione o infermità, non lo riferiamo alla sublimità della natura impassibile, ma alla debolezza della natura umana che egli portava in sé; e così non si capisce come vi siano delle ragioni contro la nostra fede.

Usando questo linguaggio, non intendiamo abbassare la natura divina, ma indicare che unica è la persona di Dio e dell'uomo. Quindi noi intendiamo l'incarnazione non abbassamento di Dio, ma esaltazione della natura umana.

BOSONE - Accetto che non si attribuisca alla natura divina quello che si dice di Cristo secondo l'umana debolezza. Ma, come si potrà provare giusto e ragionevole che Dio tratti, o permetta che venga trattato così quell'uomo che il Padre chiamò Figlio diletto nel quale ha posto le sue compiacenze (cf Mt 3, 17) e che il Figlio identificò con se stesso? Che giustizia è condannare a morte il più giusto degli uomini in luogo del peccatore?

Quale uomo non sarebbe giudicato colpevole, qualora condannasse un giusto per liberare un reo?

Sembra che così si arrivi al medesimo inconveniente di cui parlavamo prima. Se infatti non poté salvare i peccatori che condannando il giusto, dove è la sua onnipotenza? Se invece poté ma non volle, come difenderemo la sua sapienza e la sua giustizia?

ANSELMO - Dio Padre non trattò quell'uomo come mi pare lo intenda tu; né condannò a morte l'innocente in luogo del colpevole. Non lo costrinse a morire e neppure permise che fosse fatto morire contro volontà; ma piuttosto fu proprio questi ad abbracciare spontaneamente la morte per salvare gli uomini.

BOSONE - Anche se non morì contro volontà, in quanto consentì alla volontà del Padre, sembra tuttavia che questi ve lo abbia in qualche modo cc> stretto dandogliene l'ordine. E' detto infatti che "umiliò se stesso facendosi obbediente " al Padre fino alla morte, anzi fino alla morte di croce. Per questo anche Dio lo ha sovranamente esaltato" (Fl 2, 8-9); e " imparò da ciò che sofferse, che cosa significhi obbedire" (Eb 5, 8); e il Padre " non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma l'ha sacrificato per tutti noi " (Rm 8, 32). E il Figlio stesso dice: "Sono venuto, non per fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato" (Gv 6, 38) e, poco prima della passione: " Opero come il Padre mi ha ordinato" (Gv 14, 31). Così pure: "Non berrò io il calice che il Padre mi ha dato?" (Gv 18, 11). E altrove: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice; tuttavia non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu" (Mt 26, 39). E ancora: "Padre mio, se non è possibile che si allontani questo calice, senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà" (Mt 26, 42).

In tutte queste citazioni si ha l'impressione che Cristo sia morto più per impulso dell'obbedienza che per spontanea volontà.

IX

EGLI E' MORTO SPONTANEAMENTE

Significato delle espressioni "facendosi obbediente fino a/la morte" (Fl 2, 8) e "per questo Dio lo ha esaltato" (Fl 2, 9) e "sono venuto, non per fare la mia volontà" (Gv 6, 38) e "Dio non ha risparmiato il proprio Figlio" (Rm 8, 32) e "non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu " (Mt 26, 39).

ANSELMO - Mi pare che tu non distingui bene tra quello che egli fece per obbedienza e quello che subì perché fedele all'obbedienza, benché questa non 10 esigesse.

BOSONE - Occorre che tu ti spieghi meglio.

ANSELMO - Perché mai i Giudei lo perseguitarono fino alla morte?

BOSONE - Per questo solo motivo: perché si teneva tenacemente attaccato alla verità e alla giustizia nella vita e nell'insegnamento.

ANSELMO - Penso che Dio voglia questo da ogni creatura ragionevole e che essa glielo debba dare per mezzo dell'obbedienza.

BOSONE - E' doveroso affermarlo.

ANSELMO - Perciò quell'uomo doveva a Dio Padre tale obbedienza, l'umanità alla divinità; e il Padre esigeva da lui questa obbedienza.

BOSONE - Nessuno ne dubita.

ANSELMO - Ecco dunque che egli fece ciò perché l'obbedienza lo esigeva.

BOSONE - E' vero; e già vedo quello che egli subì per la sua perseveranza nell'obbedienza. Perché continuò a obbedire gli fu inflitta la morte ed egli la subì. Non comprendo però come anche questo suo accettare la morte non rientri nelle esigenze dell'obbedienza.

ANSELMO - Se l'uomo non avesse mai peccato, dovrebbe egli subire la morte? Dio dovrebbe esigerla da lui?

BOSONE - Secondo la nostra fede, l'uomo non morrebbe e Dio non esigerebbe da lui questo. Vorrei però che tu me ne spiegassi la ragione.

ANSELMO - Ammetti certamente che la creatura ragionevole fu creata giusta e lo fu perché fosse beata nella fruizione di Dio.

BOSONE - Non ne dubito.

ANSELMO - Tu poi non stimerai cosa degna di Dio che, dopo aver creato l'uomo giusto e per la beatitudine, lo costringa a essere infelice senza colpa. E' doloroso che l'uomo abbia a morire pur essendone riluttante.

BOSONE - E' evidente che, qualora l'uomo non avesse peccato, Dio non dovrebbe esigere da lui la morte.

ANSELMO - Non trovando in lui peccato alcuno, Dio non costrinse Cristo a morire. Questi però subì spontaneamente la morte non perché l'obbedienza gli imponesse di abbandonare la vita, ma perché lo spingeva a osservare la giustizia; e in tale osservanza egli perseverò sì fermamente da incontrare la morte.

Si può anche dire che il Padre gli comandò di morire, in quanto gli comandò una cosa dalla quale gli venne la morte. E' in questo senso che egli fece come il Padre gli comandò (cf Gv 14, 31), bevve il calice che gli diede (cf Gv 18, 11), si fece obbediente fino alla morte (cf Fl 2, 8) e imparò l'obbedienza da ciò che patì (cf Eb 5, 8), cioè fino a qual punto bisogna obbedire.

La parola "didicit" può essere presa in due sensi. Può significare: "fece imparare agli altri" oppure: " egli imparò anche per esperienza quello che la sua coscienza già sapeva".

Quando poi l'Apostolo, dopo aver detto: "Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, anzi fino alla morte di croce" (Fl 2, 8), aggiunge: "Per questo anche Dio lo ha sovranamente esaltato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome" (Fl 2, 9) - quasi riecheggiando l'espressione di David: "Berrà dal torrente per via, e rialzerà il capo" (Sal 110, 7) - non intende dire che Gesù non avrebbe potuto affatto giungere a questa esaltazione se non per l'obbedienza di morte e che tale esaltazione non gli fu data se non per questa obbedienza. Tant'è vero che, prima di patire, Gesù stesso disse che tutto gli era stato dato dal Padre (cf Lc 10, 22) e che tutte le cose erano sue (cf Gv 16, 15).

L'Apostolo intende dire solamente che Gesù, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, aveva disposto di non mostrare al mondo la sublimità della sua onnipotenza se non per mezzo della morte. Era stato stabilito che ciò non si sarebbe effettuato se non per mezzo di quella morte: quindi, siccome avviene per mezzo di essa, non è inesatto dire che avviene a causa di essa.

Avviene per esempio che noi intendiamo fare una cosa, ma ci proponiamo insieme di farne prima un'altra che ci serva di strumento per compierla. Finita questa, che volevamo eseguita per prima, ci mettiamo a compiere quella cui è diretta la nostra intenzione. In tal caso non si sbaglia dicendo che noi la compiamo perché è già stata fatta quella che ne ritardava il compimento; perché era già prestabilito che quella non sarebbe stata fatta se non per mezzo di questa.

Se, potendo attraversare un fiume sia a cavallo che per nave, io stabilisco di non passarlo che in nave, e attendo di passare perché la nave non c'è e poi lo passo quando c'è la nave, giustamente si può dire di me: fu preparata la nave e per questo egli passò.

E non parliamo in questo modo solamente quando abbiamo deciso di fare una cosa solo per mezzo di un'altra che vogliamo la preceda, ma anche quando abbiamo deciso di fare una cosa dopo di un'altra ma non per mezzo di essa.

Se infatti uno aspetta di mangiare perché in quel giorno non ha assistito alla celebrazione della Messa, una volta che egli ha terminato l'azione che voleva compiere prima, gli si dice giustamente: mangia pure, dal momento che hai già compiuto ciò per cui aspettavi di mangiare.

Si usa perciò un modo di dire assai meno improprio quando si dice che Cristo è stato esaltato perché subì la morte, in quanto aveva decretato di realizzare per mezzo di essa e dopo di essa la propria esaltazione.

Si può interpretare anche questo passo nella stessa maniera con cui spieghiamo quello in cui si legge che il Signore "cresceva in grazia e in sapienza davanti a Dio" (Lc 2, 52): non era così, ma egli si comportava come se così fosse. Similmente è stato esaltato dopo la morte come se questa fosse la causa dell'esaltazione.

Quando poi dice: "Sono venuto per fare non la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato" (Gv 6, 38), è come quando dice: "La mia dottrina non è mia" (Gv 7, 16). Quello che non ha da se stesso ma da Dio, non lo deve tanto dire suo quanto di Dio.

Ora nessun uomo ha da se stesso la dottrina che insegna o la volontà retta, ma da Dio. Quindi Cristo non venne a fare la sua volontà ma quella del Padre, perché la volontà retta di cui era in possesso non proveniva dall'umanità ma dalla divinità.

La frase: "Dio non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha sacrificato per tutti noi" (Rm 8, 32) significa solo che non l'ha liberato. Si trovano infatti molti esempi simili nella Sacra Scrittura. E quando il Cristo dice: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice; tuttavia non quello che voglio io ma quello che vuoi tu" (Mt 26, 39) e: "Se non è possibile che si allontani da me questo calice, senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà" (Mt 26, 42), parlando della propria volontà intende designare il naturale desiderio di benessere per il quale la carne umana rifugge dal dolore della morte; parlando invece della volontà del Padre non intende dire che il Padre preferisca la morte alla vita del Figlio, ma che il Padre non vuole la riabilitazione dell'umanità senza che l'uomo compia un atto tanto grande quale è quella morte.

Poiché la ragione non poteva chiedere quello che nessuno poteva dare, il Figlio dice che il Padre vuole la sua morte, e che egli stesso preferisce subirla piuttosto che l’umanità non sia salva. Come se dicesse: dal momento che non vuoi la riconciliazione del mondo in un altro modo, dico che perciò stesso tu vuoi la mia morte. Sia fatta quindi la tua volontà, cioè venga la mia morte così che il mondo sia riconciliato con te.

Spesso infatti diciamo che uno vuole una cosa in quanto non ne vuole un'altra che, voluta, gli impedirebbe di fare quello che egli dice di volere; per esempio diciamo che uno spegne il lume per il fatto che non vuole chiudere la finestra da cui entra l'aria che spegne il lume. Dunque il Padre volle la morte del Figlio nel senso che non volle salvare il mondo per un'altra via, cioè, come ho detto, senza che l'uomo compisse una cosa così grande. E questo, per il Figlio che voleva la salvezza degli uomini, equivaleva - dal momento che nessun altro lo poteva fare, - al comando di morire.

Perciò egli fece come il Padre gli comandò (Gv 14, 31) e, obbediente fino alla morte (Fl 2, 8), bevve il calice che il Padre gli diede (Gv 18, 11).

X

ALTRO MODO DI INTERPRETARE QUEI MEDESIMI TESTI

ANSELMO - Si può intendere anche nel senso che, dando al Figlio quella pia volontà per cui questi volle morire per la salvezza del mondo, il Padre gli ha dato, senza però costringerlo, il comando (cf Gv 14, 31) e il calice della passione (cf Gv 18, 11); e che non lo risparmiò, ma lo immolò per noi (cf Rm 8, 32) e volle la sua morte; e che lo stesso Figlio fu obbediente fino alla morte (cf Fl 2, 8) e imparò l'obbedienza da quanto patì (Eb 5, 8).

Infatti, come non aveva nella umanità la volontà di vivere secondo giustizia, ma dal "Padre della luce, da cui discende ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto" (Gc 1, 17), così non poté avere se non dal Padre quella volontà che gli fece volere la morte in vista della realizzazione di un bene così grande. E come si può dire che il Padre, dando la volontà, attira, così si può giustamente dire che egli spinge.

Come il Figlio dice del Padre: " Nessuno viene a me se il Padre non lo attira " (Gv 6, 44), così avrebbe potuto dire: "Se non lo spinge". E avrebbe pure potuto dire: nessuno corre alla morte per il mio nome, se il Padre non lo spinge o attira. Siccome si dice che ognuno è attirato o spinto dalla volontà verso ciò che costantemente vuole, non è inesatto dire che Dio, il quale dà tale volontà, attira o spinge. In questa spinta o attrazione non c'è la necessità della violenza, ma la spontanea e amata fermezza della buona volontà ricevuta (da Dio). Dunque non si può negare che il Padre, dandogli quella volontà, ha tratto o spinto il Figlio a morire. Perché non poter dire allora, per la medesima ragione, che gli ha dato il comando di sostenere spontaneamente la morte e consegnato il calice che questi non doveva bere contro voglia? (cf Gv 14, 31; 18,11).

Se giustamente diciamo che il Figlio non si risparmiò ma si immolò di spontanea volontà (cf Rm 8, 32), perché non si potrebbe rettamente dire che il Padre, dal quale ebbe quella volontà, "non lo ha risparmiato, ma lo ha sacrificato per noi " (cf Rm 8, 32) e volle la sua morte?

Anche in questa maniera, conservando spontaneamente e costantemente la volontà ricevuta dal Padre, il Figlio fu a lui "obbediente fino alla morte" (Fl 2, 8) e "imparò da ciò che patì l'obbedienza" (Eb 5, 8), cioè quanto sia grande il compito imposto dall'obbedienza. Perché l'obbedienza è semplice e vera solo quando la natura razionale osserva la volontà ricevuta da Dio, non per forza ma spontaneamente.

Ci sono anche altre maniere giuste di intendere che il Padre volle la morte del Figlio, ma queste possono bastare.

Infatti, come diciamo che uno vuole quando determina un altro a volere, così pure diciamo che uno vuole quando approva quello che un altro vuole. Per esempio, quando vediamo che uno vuole ardentemente affrontare delle molestie per realizzare un progetto buono che gli sta a cuore, sebbene ci sia in noi il desiderio che egli sopporti quelle molestie, tuttavia noi non amiamo o vogliamo queste, ma la sua volontà.

Così pure siamo soliti dire che chi può evitare una cosa, e non la evita, vuole quella cosa. Poiché dunque la volontà del Figlio piacque al Padre e questi non gli impedì di volere o effettuare ciò che voleva, giustamente si afferma che volle che il Figlio subisse una morte sì pia e utile, pur non amando le sue sofferenze.

Quando il Figlio disse che il calice non poteva passare senza che egli lo bevesse (cf Gv 18, 11), non intendeva dire che gli era impossibile evitare la morte, pur volendolo, ma che - come fu detto - era impossibile salvare il mondo in un altro modo, e che egli voleva fermamente piuttosto morire che non salvare il mondo.

Disse quelle parole per insegnare all'umanità che il mondo non poteva essere salvato che con la sua morte, e non per indicare che non poteva in modo alcuno evitare la morte. Tutto quello che si dice di lui (nella Scrittura) e somiglia alle frasi riportate, deve essere spiegato così da credere che egli è morto non perché costretto, ma per libera volontà.

Era infatti onnipotente e di lui si legge che "è stato offerto perché volle" (Is 53, 7). Egli stesso poi dice: " Io sacrifico la mia vita, per nuovamente riprenderla. E nessuno me la può togliere; ma la do io da me stesso; e ho il potere di darla, e il potere di prenderla di nuovo" (Gv 10, 17-18). E' dunque assolutamente sbagliato dire che è stato costretto a fare quello che invece compie di sua volontà e per suo potere.

BOSONE - Il solo fatto che Dio permise che fosse così trattato, benché consenziente, sembra indegno di un tale Padre nei riguardi di un tale Figlio.

ANSELMO - Anzi, è cosa degnissima che tale Padre dia la sua approvazione a un tale Figlio, se questo vuole intraprendere qualcosa che torni a onore e lode di Dio e a salvezza e utilità del genere umano, che altrimenti non avrebbe potuto essere salvato.

BOSONE - Siamo ancora tornati alla questione sulla possibilità di dimostrare ragionevole e necessaria quella morte. Se non lo si può fare, sembra che né il Figlio avrebbe dovuto volerla, né il Padre imporla o permetterla. Ci si domanda infatti perché mai Dio non abbia potuto salvare l'umanità in altro modo; oppure, potendolo, perché volle salvarla proprio in questo modo.

Sembra indegno di Dio salvare l'uomo in questa maniera, né appare che valore abbia questa morte per la salvezza dell'umanità. Desta meraviglia che Dio goda e abbia bisogno del sangue di un innocente e che non voglia o non possa perdonare al colpevole senza la morte di un innocente.

ANSELMO - Poiché in questa questione ti fai portavoce di coloro che non vogliono credere a una affermazione se non è preceduta da dimostrazioni di ragione, voglio fare con te il patto di non accettare nulla che possa anche minimamente sconvenire a Dio, e di non rigettare alcuna ragione, per quanto piccola, purché non sia in contrasto con una più forte.

BOSONE - Niente mi è più dolce che osservare con te questo patto.

ANSELMO - La questione ha per oggetto l'Incarnazione di Dio e quello che crediamo dell'umanità assunta.

BOSONE - Proprio così.

ANSELMO - Supponiamo dunque che non ci sia mai stata l'Incarnazione di Dio e quanto predichiamo di quest'uomo (assunto); sia accettato come certo fra noi che l'uomo fu creato per la beatitudine, la quale non può aver luogo in questa vita; e nessuno può pervenire alla beatitudine se non dopo la remissione dei peccati e nessuno può trascorrere questa vita senza peccare. Ammettiamo ancora le altre verità che bisogna credere per ottenere la salvezza eterna.

BOSONE - Dal momento che non ci vedo nulla di impossibile o di indegno di Dio, sia così.

ANSELMO - Dunque l'uomo ha bisogno della remissione dei peccati per raggiungere la beatitudine.

BOSONE - E' quello che tutti teniamo.

XI

CHE COSA SIGNIFICA PECCARE E SODDISFARE PER IL PECCATO?

ANSELMO - Dobbiamo dunque indagare per quale motivo Dio perdoni i peccati degli uomini. Per farlo con maggiore chiarezza, vediamo prima che cosa significhi peccare e soddisfare per il peccato.

BOSONE - A te il compito di spiegare, a me quello di seguirti con attenzione.

ANSELMO - Se l'angelo e l'uomo rendessero sempre a Dio quello che gli è dovuto, non peccherebbero mai.

BOSONE - Non posso contraddire.

ANSELMO - Quindi peccare non è altro che non dare a Dio quello che gli è dovuto.

BOSONE - E quale è il debito che dobbiamo rendere a Dio?

ANSELMO - Tutta la volontà della creatura ragionevole deve essere sottomessa alla volontà di Dio.

BOSONE - Niente di più vero.

ANSELMO - Questo è il debitoche l'angelo e l'uomo devono a Dio; se lo soddisfano non peccano, altrimenti peccano. E' questa la giustizia, ossia la rettitudine della volontà, che fa i giusti o i retti di cuore (cf Sal 36, 11), cioè di volontà. In ciò consiste l'onore unico e totale che dobbiamo a Dio e che egli esige da noi.

E' questa sola volontà che, quando può operare, rende le opere accette a Dio; quando poi non lo può, essa da sola e per se stessa piace a Dio, perché senza di essa nessuna opera è accetta. Chi non dà a Dio questo onore dovutogli, gli toglie ciò che è suo e disonora Dio: e questo è peccare.

Fino a quando non ridà quello che ha rubato, rimane nel peccato. Non basta restituire quanto fu tolto, ma, in compenso dell'ingiuria fatta, il ladro deve restituire di più di quello che ha rubato. Come colui che rovina la salute di un altro non dà a sufficienza, ridonando la salute, se non aggiunge anche qualche cosa per il dolore ingiustamente procurato; così chi lede l'onore altrui non ripaga a sufficienza rendendo l'onore, se non dà anche una riparazione gradita al disonorato, per il dolore recatogli disonorandolo.

Bisogna anche fare attenzione a questo: quando uno restituisce ciò che ha preso ingiustamente, deve anche aggiungere qualche cosa che non si potrebbe da lui esigere se non avesse rubato. Perciò, chiunque pecca deve rendere a Dio l'onore che gli ha tolto: questa è la soddisfazione di cui ogni peccatore è in debito con Dio.

BOSONE - Dal momento che abbiamo stabilito di seguire la ragione, e nonostante che tu mi metta un po' di paura, non ho nulla da opporre a tutto questo.

XII

E' CONVENIENTE CHE DIO RIMETTA IL PECCATO PER PURA MISERICORDIA,
SENZA LA MINIMA SODDISFAZIONE DEL DEBITO?

ANSELMO - Ritorniamo a vedere se sia conveniente che Dio rimetta il peccato per sola misericordia, senza alcuna restituzione dell'onore che gli è stato tolto.

BOSONE - Non vedo perché non sia conveniente.

ANSELMO - Rimettere così il peccato non è altro che non punire. E poiché punire non è altro che restituire l'ordine distrutto dal peccato, se non si punisce il peccato si lascia passare il disordine.

BOSONE - Ciò che dici è secondo ragione.

ANSELMO Ma non è conveniente che Dio lasci sussistere qualche disordine nel suo regno.

BOSONE - Se dicessi altrimenti, temerei di peccare.

ANSELMO - Non è dunque affatto conveniente che Dio lasci passare il peccato senza punirlo.

BOSONE - E' una conseguenza.

ANSELMO - Se il peccato viene rimesso senza punizione c'è un'altra conseguenza: davanti a Dio hanno lo stesso trattamento colui che pecca e colui che non pecca: e ciò non conviene a Dio.

BOSONE - Non lo posso negare.

ANSELMO - Considera anche questo. Nessuno ignora che per la giustizia degli uomini vale questa legge: Dio tiene conto della sua grandezza per ricompensarla adeguatamente col premio.

BOSONE - Così pensiamo.

ANSELMO - Ma se il peccato non viene né soddisfatto né punito, non è neppure sottomesso alla legge.

BOSONE - Non posso pensare diversamente.

ANSELMO - Se dunque il peccato viene rimesso per la sola misericordia, l'ingiustizia è meno sottomessa alla legge che non la giustizia: e questo appare molto sconveniente. La sconvenienza arriva fino a tal punto da fare l'ingiustizia simile a Dio: ché come Dio non è sottomesso ad alcuna legge, così neppure l'ingiustizia.

BOSONE - Al tuo ragionamento non mi posso opporre. Ma, siccome Dio ci comanda di perdonare gratuitamente a coloro che ci offendono (cf Mt 6, 12), sembra contraddittorio che egli comandi a noi quello che egli non può fare senza sconvenienza.

ANSELMO - Non c'è in questo nessuna ripugnanza, perché Dio ce lo comanda affinché non ci azzardiamo di usurpare quello che è esclusivamente suo: nessuno ha il diritto di vendicarsi se non colui che è il Signore di tutti (cf Rm 12, 19). Quando le autorità terrene fanno ciò con giustizia, è lui che lo fa, lui che le ha istituite a questo scopo.

BOSONE - Hai tolto la contraddizione che mi pareva ci fosse. Ma voglio avere la tua risposta anche su un altro punto.

Dio è talmente libero da non sottostare a nessuna legge né al giudizio di alcuno. E' così benigno che non è possibile pensare a un altro che lo sia più di lui. E' giusto e conveniente solo quello che egli vuole.

Suscita perciò meraviglia il dire che egli non vuole o che non gli è lecito perdonare l'ingiuria fattagli: lui al quale siamo soliti chiedere perdono anche per le ingiustizie fatte al prossimo.

ANSELMO - Ciò che dici della sua libertà, volontà e benignità è vero; ma dobbiamo farci di questi suoi attributi un'idea ragionevole, così da non dare l'impressione che essi ripugnino alla sua dignità. La libertà infatti è ordinata solo a ciò che è utile o conveniente, e la benignità è indegna di tal nome se commette qualche cosa che sconviene a Dio.

Quanto poi alla frase "ciò che egli vuole è giusto e ciò che egli non vuole non è giusto", essa non significa che qualsiasi cosa sconveniente voluta da Dio diventi giusta per il fatto che egli la vuole. Se Dio volesse mentire non ne seguirebbe che la menzogna è giusta, ma piuttosto che egli non è Dio. Infatti la volontà in nessun modo può volere la menzogna, purché non si tratti di una volontà in cui la verità si è corrotta, o meglio di una volontà che si è corrotta abbandonando la verità.

Quando dunque si dice: "Se Dio volesse mentire" non si dice altro che "se Dio fosse di natura tale da voler mentire"; non ne segue però che la menzogna sia giusta. A meno che non si intenda come l'enunciazione di due cose impossibili: se ci fosse, questa ci sarebbe anche quella, ma in realtà non c’è né questa né quella. Come, per esempio: se l'acqua fosse secca,. il fuoco sarebbe umido; nessuna delle due affermazioni è vera. Così si può dire con tutta verità "se Dio vuole una cosa, questa è giusta" solo nel caso che la cosa voluta non sia sconveniente.

Se Dio vuole che piova, è giusto che piova; e se Dio vuole che qualche uomo sia ucciso, è giusto che sia ucciso. Quindi, se non è conveniente che Dio faccia qualcosa di ingiusto o disordinato, non è in potere della sua libertà, benignità, volontà lasciare impunito il peccatore che non rende a Dio quello che gli ha tolto.

BOSONE - Mi porti via tutto quello che pensavo di poterti obiettare.

ANSELMO - Considera anche queste altre ragioni in forza delle quali non è conveniente che Dio faccia così.

BOSONE - Ascolto volentieri quanto dici.

 

Questo sito utilizza i cookie e tecnologie simili necessarie al funzionamento e per una migliore navigazione. Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookies

Privacy Policy