SERMONE XLIV
I. Perché lo sposo è grappolo e per chi e che cosa significhi Engaddi. II. Quali siano le vigne di Engaddi e quale il loro balsamo, quale il grappolo di Cipro e il suo vino. III. Donde il fluido del balsamo, cioè la soavità della mansuetudine, o quali mosche la distruggono. IV. Come la mansuetudine si recuperi attraverso la grazia, o come il vino dello zelo è spremuto dal grappolo di Cipro.
I. 1. Il mio diletto è per me un grappolo di Cipro nelle vigne di Engaddi (Cant 1,13). Se il diletto è raffigurato nella mirra, a più forte ragione lo e nella soavità di un grappolo. Dunque il Signore mio Gesù è per me mirra nella morte, grappolo nella risurrezione; egli si è fatto per me saluberrima bevanda, temperata da lacrime. È morto per i nostri peccati, è risuscitato per la nostra giustificazione, affinché, morti al peccato viviamo per la giustizia. Dunque anche tu, se hai pianto i tuoi peccati hai bevuto l’amarezza; se poi hai già respirato alla speranza di una vita più santa, l’amarezza della mirra si è cambiata per te in vino che rallegra il cuore dell’uomo. E questo forse voleva significare il fatto che questo vino, mescolato con mirra, fu offerto al Salvatore in croce. E per questo non volle bere, perché aveva sete di quest’altro. Tu dunque dopo le amarezze della mirra, come ho detto, sperimentando il vino della giocondità, potrai dire anche tu senza essere temerario: Il mio diletto è per me un grappolo di Cipro nelle vigne di Engaddi. Engaddi ha un duplice significato, tutti e due servono a un’unica interpretazione. Significa infatti «fonte del capretto», e designa chiaramente il battesimo dei gentili e le lacrime dei penitenti. Significa anche «occhio della tentazione» che in pari tempo spande lacrime e bada alle tentazioni che non mancano mai nella vita dell’uomo sulla terra. Ma anche il popolo dei gentili che camminava nelle tenebre non poté mai da sé conoscere i lacci delle tentazioni e tanto meno evitarli, fino a che per grazia di colui che illumina i ciechi ricevette gli occhi della fede; finché venne alla Chiesa che ha l’occhio della tentazione; fino a che si affidò, per essere istruito, a uomini spirituali i quali, illuminati dallo Spirito di sapienza e ricchi della loro esperienza possono veramente dire: «Non ignoriamo le astuzie del diavolo e le sue macchinazioni».
II. 2. Dicono che in Engaddi crescono degli arbusti di balsamo che gli abitanti del posto coltivano a mo’ delle viti; per questo forse le ha chiamate «vigne». Diversamente , che ci fa un grappolo di Cipro nelle vigne di Engaddi? Chi mai porta grappoli da una vigna all’altra? Si usa, è vero, dove mancano, portarne da altrove, ma non dove ci sono. Dunque chiama vigna di Engaddi i popoli della Chiesa che possiede un liquore balsamico, lo spirito di mansuetudine, con il quale lenisce blandamente quelli che sono ancora teneri pargoli in Cristo, e consola i dolori dei penitenti. Se poi qualche fratello è implicato in qualche delitto, un uomo ecclesiastico che ha ricevuto questo spirito cercherà di istruire questo tale nello stesso spirito di bontà, considerando se stesso, perché anche lui non cada in tentazione. In questo tipo, quanti debbono essere battezzati la Chiesa è solita ungerli anche corporalmente con olio materiale.
3. Ma poiché le ferite di quell’uomo che incappò nei ladroni e fu portato sul giumento del pio Samaritano all’albergo della Chiesa sono state sanate non solo ungendole con olio, ma insieme con olio e vino, il medico spirituale ha bisogno anche del vino dello zelo ardente, insieme con l’olio della mansuetudine, come colui al quale conviene non solo consolare i pusillanimi, ma anche correggere gli inquieti. Se infatti vedrà che colui che era stato ferito, vale a dire che aveva peccato, non si è affatto emendato con le dolci e amorevoli esortazioni usate nei suoi riguardi, ma piuttosto abusando della mansuetudine e pazienza del medico sarà divenuto ancora più negligente, dormendo più tranquillo nel suo peccato, visto inutile l’olio delle ammonizioni bisognerà che usi dei rimedi più forti, versando sulle piaghe il vino della compunzione, usando cioè con lui i rimproveri e le invettive, e se il caso lo richiede e la durezza è tanta, userà anche contro il disprezzatore il bastone della censura ecclesiastica. Ma dove prenderà questo vino? Nelle vigne di Engaddi non si trova vino, ma olio. Lo cerchi dunque in Cipro, perché quell’isola è ricca di vigne e produce ottimo vino, e prendendo di là un enorme grappolo che una volta gli esploratori venuti da Israele portarono appeso a una trave, figurando con un bell’esempio chi precedeva il coro dei Profeti, chi seguiva quello degli Apostoli, e il grappolo in mezzo Gesù, prendendo dunque questo grappolo dica a se stesso: Grappolo di Cipro è per me il mio diletto.
III. 4. Abbiamo visto il grappolo: vediamo ora come se ne spreme il vino dello zelo. Se contro un uomo che pecca un altro uomo peccatore non si sdegna, ma piuttosto quasi stillando verso di lui come una rugiada di soavissimo balsamo, gli dimostra un tenero sentimento di compassione, questo sappiamo da dove viene, e già l’avete udito, ma forse non ci avete badato. È stato detto infatti che dalla considerazione di se stesso deriva che uno si dimostra mansueto verso tutti, mentre l’uomo, per consiglio del sapientissimo Paolo, per essere condiscendente verso coloro che cadono in peccato considera se stesso, e la possibilità di essere anche egli tentato. Non trae forse di qui la sua radice l’amore del prossimo, del quale è ordinato nella legge:Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18; Lc 10,27). L’amore fraterno in verità ha la sua prima origine nell’intimo del cuore umano, e da una certa dolcezza naturale insita nell’uomo verso se stesso, come da un umore terreno, prende vigore e forza, per cui con l’aiuto della grazia produce frutti di pietà; di modo che ciò che l’anima naturalmente appetisce per sé non pensa di doverlo negare, quando lo possa e convenga farlo, a un suo simile, in forza di un certo diritto di umanità, e anzi volentieri e spontaneamente lo offre. Vi è dunque nella natura, se non è guasta dal peccato, questo liquore di grazia ed esimia soavità, di modo che si sente piuttosto facile nel compatire i peccatori che non aspra nell’indignarsi contro di essi.
5. Tuttavia, poiché secondo la sentenza del Saggio le mosche che stanno per morire rovinano questo soave unguento (Eccl 10,1) e la natura una volta perso non ha in sé il modo di ripararlo, sente di cadere in quella lamentevole situazione che la Scrittura giustamente descrive tosi:L’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza (Gen 8,21). Non è una buona adolescenza quella in cui il figlio più giovane chiede che gli venga data la sua porzione della paterna eredità, e comincia a volere che gli sia diviso quello che più dolcemente si possiede in comune, e a voler avere da solo quello che non diminuisce facendone parte agli altri; dividendolo invece, si perde. Infatti: Dissipò tutti i suoi beni, vivendo da dissoluto con le meretrici (Lc 15, 13). Chi sono queste meretrici? Vedi se non siano quelle stesse che rovinano il soave unguento, cioè le concupiscenze carnali, delle quali la Scrittura, ammonendoti molto salutarmente ti dice: Non andare dietro le tue concupiscenze (Eccli 18,30). E il Saggio dice di esse che stanno per morire: Il mondo passa con le sue concupiscenze (1 Gv 2,17). Quando dunque noi vogliamo singolarmente soddisfarle, ci priviamo della singolare soavità del bene sociale e comune. Queste sono davvero quelle mosche schifose e noiose che deturpano in noi la grazia della natura, lacerando la mente con affanni e sollecitudini, e rovinando la soavità della grazia sociale. Perciò quell’uomo viene chiamato il più giovane, perché la sua natura, depravata dalla lubricità di una insensata adolescenza ha perso ogni sentimento di virile maturità e di sapienza, e venuta nei guai con animo inaridito disprezza tutti all’infuori di sé, divenuta priva di affezione.
IV. 6. Dunque, dall’inizio di una tale pessima e miserrima adolescenza, i sensi dell’uomo e i suoi pensieri sono inclini al male, e anche la natura è più pronta all’indignazione che alla compassione. Di qui l’uomo, quasi del tutto spoglio della sua umanità, mentre nel bisogno desidera che gli altri uomini gli vengano incontro con sentimenti umani, non vuole agire così con quelli che sono nello stesso bisogno, ma piuttosto giudica, disprezza, deride gli uomini, lui che è uomo, lui peccatore tratta male quelli che peccano, non considerando se stesso, come soggetto anch’egli a sbagliare. Da questo male la natura è incapace di risorgere da sé, come ho detto, né potrà recuperare l’olio della connaturale mansuetudine una volta perduto. Tuttavia quello che non può la natura lo può la grazia. Dunque, l’unzione dello Spirito avendo pietà di quest’uomo, si degnerà di irrorarlo nuovamente con la sua benignità, e questi subito ritornerà uomo, anzi, riceverà qualche cosa di meglio della grazia che ha dalla natura. Nella fede e nella mansuetudine lo fece santo, (Eccli 45,4) e gli darà non olio, ma balsamo delle vigne di Engaddi.
7. Non vi è dubbio che dalla fonte del capretto fluiscono i carismi migliori, e tinti da essi, i capretti si mutano in agnelli, e fanno passare i peccatori dalla sinistra alla destra, una volta che sono stati abbondantemente unti dell’unzione della misericordia, in modo che dove abbondò il peccato, sovrabbondi la grazia. Non ti sembra che sia in certo modo ritornato uomo quest’uomo che avendo deposta la selvatichezza di un animo secolare, e avendo recuperato con una grazia più abbondante l’unzione dell’umana man suetudine che le mosche delle passioni carnali avevano in lui completamente distrutto, dall’uomo che porta in sé, anzi che è egli stesso, prende materia e forma per compatire gli altri uomini, di modo che giudica ormai come cosa degna di morte non solo il fare agli altri quello che non sopporterebbe fatto a sé, ma anche il non fare a tutti tutte quelle cose che vorrebbe venissero fatte a se stesso?
8. Ecco di dove proviene l’olio. E il vino di dove? Dal grappolo di Cipro. Se infatti ami il Signore Gesù con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, forse che, se lo vedrai ingiuriato e disprezzato, potrai sopportare questo con animo tranquillo? Certamente no; ma subito, preso dallo spirito di giudizio e di ardore, e come un forte ebbro di vino, pieno dello zelo di Finees, dirai con Davide: Mi divora lo zelo..., perché i miei nemici hanno dimenticato le tue parole (Sal 118,139); e con il Signore: Lo zelo della tua casa mi ha divorato (Sal 68,10). È dunque vino questo ferventissimo zelo, spremuto dal grappolo di Cipro, e l’amore di Cristo è un ,calice inebriante. E anche il nostro Dio è un fuoco che consuma (Dt 4,24) e il Profeta diceva che un fuoco era stato mandato dal cielo nelle sue ossa, perché ardeva del divino amore. Avendo frattanto dall’amore fraterno l’olio della mansuetudine, e dall’amore divino il vino dello zelo, disponiti sicuro a curare le ferite di, colui che è incappato nei ladroni, imitando egregiamente il piissimo Samaritano. Di’ anche con sicurezza insieme con la sposa: Grappolo di Cipro è per me il mio diletto nelle vigne di Engaddi, vale a dire: lo zelo per la giustizia, l’amore del diletto mio io li tengo tra gli affetti della pietà. E di questo basta. La mia infermità mi costringe a una pausa, come capita spesso, e così il più delle volte mi costringe a lasciare incompiute le discussioni, e a rimandare il resto della materia a un altro giorno. Ma che? Io sono preparato ad essere flagellato (Sal 37,18), sapendo che riceverei castighi inferiori a quanto merito. Che io sia flagellato davvero, che io sia flagellato per le mie cattive opere, e se mai le piaghe siano reputate a merito, forse avrà pietà del flagellato colui che non ha trovato in me un bene da poter rimunerare, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE XLV
I. La duplice bellezza dell’anima, cioè l’innocenza e l’umiltà. II. Il rimprovero rivolto alla sposa sull’umiltà è segno di compiacimento; i suoi occhi di colomba. III. Il suo intuito spirituale. IV. La lode dello sposo per cui la sposa sente la sua bellezza. V. Parola del Verbo all’anima o risposta dell’anima al Verbo. VI. La duplice bellezza dello sposo.
I. 1. Come sei bella, arnica mia, come sei bella, i tuoi occhi sono come di colomba (Cant 1,14). Bene, ottimamente; dall’amore ha origine la presunzione della sposa, dall’amore l’indignazione dello Sposo. Lo dimostra come va a finire la cosa. Difatti, alla presunzione segue la correzione, a questa tiene dietro l’emendazione, e questa è seguita dalla rimunerazione. È presente il Diletto, sparisce il Maestro e il Re, la dignità si spoglia, si mette da parte la riverenza. Cede il fasto dove prende piede l’affetto. E a quel modo che una volta Mosè parlava come amico a un amico e il Signore rispondeva, così’ ora tra il Verbo e l’anima, come tra due vicini, si instaura un discorso molto familiare. E non-fa meraviglia. Da un’unica ,fonte d’amore confluisce per entrambi il vicendevole amore e il vicendevole ardore. Perciò da una parte e dall’altra volano parole più dolci del miele, vi sono sguardi vicendevoli pieni di soavità, santi indizi di amore. Infine lo Sposo chiama amica la sposa, la dice bella, la chiama ancora bella, ricevendo in cambio da lei le medesime espressioni affettuose. Non è superflua questa ripetizione, è conferma di vero amore, e forse indica qualche cosa di recondito da scoprire.
2. Cerchiamo la duplice bellezza dell’anima: questo mi sembra suggerire il testo. Ornamento dell’anima è l’umiltà. Non dico questo da me stesso, avendolo già detto prima il Profeta: Aspergimi con issopo e sarò mondato (Sal 50,9) volendo significare con quell’umile erba che ha virtù purgative l’umiltà. Con questa il Re Profeta, dopo la grande caduta, confida di venire lavato, in modo da recuperare quasi un niveo candore d’innocenza. Tuttavia, in colui che ha gravemente peccato, l’umiltà, anche se è_da amare, non è tuttavia da ammirare. Ma se uno conserva l’innocenza e vi unisce l’umiltà, non ti sembra che possieda un’anima veramente bella? Maria Santissima non cessò di essere santa e non le mancò l’umiltà; perciò il Re fu preso dalla sua bellezza, perché aveva associato l’umiltà con l’innocenza. Guardò, dice, l’umiltà della sua serva (Lc 1,48). Beati dunque coloro che custodiscono monde le loro vesti, vale a dire della semplicità e dell’innocenza, a condizione però che vi aggiungano l’ornamento dell’umiltà. Questi tali si sentiranno dire:Come sei bella, amica mia, come sei bella! Oh! Se tu lo dicessi anche una sola volta all’anima mia, o Signore Gesù: ecco tu sei bella! Oh! Se custodissi in me l’umiltà. Poiché ho malamente conservato la prima veste. Sono tuo servo, non oso infatti dirmi amico, io che non mi sento ripetere la testimonianza della mia bellezza. Mi basta se la sento una volta sola. Ma anche questo è in questione? So che cosa fare: venererò come serva l’amica; io, deforme omiciattolo ammirerò la stragrande bellezza che è in lei. Chissà se almeno per questo troverò grazia agli occhi dell’amica, e in grazia di lei anch’io verrò annoverato tra gli amici? E poi c’è l’amico dello Sposo, e gode oltremodo per la voce dello Sposo (Gv 3,29). Ecco, la sua voce risuona alle orecchie della diletta. Ascoltiamo e godiamo. Sono vicini, parlano insieme; stiamo vicini anche noi; non ci sottragga a questo colloquio nessuna preoccupazione secolare, nessuna lusinga di piaceri corporali.
II. 3. Ecco, dice, tu sei bella, amica mia, ecco tu sei bella. «Ecco» è una parola che indica ammirazione, le altre sono parole di lode. È veramente da ammirare colei che non è divenuta umile dopo aver perso la santità, ma perché rimanendo santa, vi ha aggiunto l’umiltà. A ragione viene ripetutamente detta bella colei a cui non mancò l’una e l’altra bellezza. È un uccello raro sulla terra e il non perdere la santità, e nella santità rimanere umili. E perciò beata colei che realizzò entrambe queste cose. E poi è stato provato, non ha coscienza di colpa alcuna, eppure non rifiuta la correzione. Noi invece, quando siamo rei di grossi peccati, sopportiamo a mala pena di essere ripresi: costei invece, pur senza peccato, sente con animo tranquillo le cose amare che vengono dette contro di lei. Poiché se desidera vedere la gloria dello Sposo, che c’è di male? È piuttosto una cosa che merita lode. E tuttavia, sgridata, ne fa penitenza, e dice: Il mio diletto è per me un fascetto di mirra, riposerà sempre sul mio seno. Vale a dire: mi basta, non voglio più ormai conoscere se non Gesù e Gesù Crocifisso. Grande umiltà! Innocente nelle azioni, assume i sentimenti del penitente, e colei che non ha di che pentirsi ha tuttavia di che far penitenza. Perché dunque, dici, è stata sgridata se non ha fatto nulla di male? Ma ascolta ora il modo di fare e la prudenza dello Sposo. Come un giorno l’obbedienza di Abramo fu messa alla prova, cosî ora l’umiltà della sposa. E come quegli, adempiuta l’obbedienza, si sentì dire:Ora so che temi Dio (Gen 22,1-18) così ora a questa, con parole un poco diverse, viene ora detto: ora conosco che sei umile. Questo significano le parole: Come sei bella. E per questo ripete la lode, per indicare che alla gloria della santità ha aggiunto l’ornamento dell’umiltà. Ecco tu sei bella, amica mia, ecco tu sei bella. Ora conosco che tu sei bella non solo per l’amore che hai per me, ma anche dalla tua umiltà. Non ti dico ora bella tra le donne, né bella nelle guance o nel collo, come dicevo prima, ma ti proclamo bella semplicemente: non bella in paragone di altri, non con distinzione, non in parte.
4. E aggiunge: I tuoi occhi come di colomba (Cant 1,14). Viene ancora lodata apertamente l’umiltà. Considera il fatto che essa, rimproverata per il desiderio di cercare cose troppo alte, subito non ha indugiato a scendere a cose più semplici, tanto da dire: Il mio diletto è per me un fascetto di mirra.C’è veramente una grande distanza tra il volto della gloria e il fascetto di mirra, ed è perciò una bella prova di umiltà l’accettare di essere richiamata di là qui. Dunque: I tuoi occhi come di colomba. Ormai, dice, non cammini in cose grandi, né in cose meravigliose più alte di te; ma come una semplicissima colomba ti contenti di cose più semplici, nidificando nei fori della pietra, dimorando nelle mie piaghe, e guardando le cose che mi riguardano, la mia incarnazione e passione con occhi di colomba.
III. 5. Ma poiché lo Spirito. Santo è apparso sotto forma di colomba, l’occhio della colomba potrebbe piuttosto significare qui, più che la semplicità, l’intuito spirituale. E se vi piace si può confrontare questo testo con quello dove i compagni dello Sposo hanno promesso alla sposa di farle dei pendenti d’oro, non pensando certo alle orecchie corporali, come ho spiegato allora, ma intendendo informare l’udito del cuore. Per questo poté capitare che il cuore, maggiormente purificato dalla fede, che viene dall’udito, fosse reso più adatto a vedere ciò che prima non era in grado di contemplare. E poiché ricevendo gli orecchini la sposa parve, aver progredito per una visione più acuta nell’intelligenza spirituale, piacque allo Sposo, al quale piace sempre che sia veduto di preferenza nello spirito quello che vi è in lui. Ed elencando ciò che ha detto in sua lode dice: I tuoi occhi come di colomba, come per dire: «Ormai guardami in spirito, perché Spirito è davanti alla tua faccia Cristo Signore. Hai ora possibilità di farlo, perché i .tuoi occhi sono come di colomba. Prima non l’avevi, e perciò fosti meritevole di rimprovero; ora avrai facilità di vedere perché i tuoi occhi sono di colomba, vale a dire spirituali. Non potrai vedere tutto quello che chiedevi, poiché sei ancora in questa vita, ma quanto ti potrà essere sufficiente per il momento. In realtà bisogna condurti di chiarezza in chiarezza; e perciò vedi come puoi adesso: man mano che potrai di più, vedrai anche di più».
6. Non penso, fratelli, che sia mediocre questa visione, né che sia comune a tutti, anche se è inferiore a quella che si godrà in futuro. Deducetelo anche dalle cose che seguono.
IV. Segue infatti il testo: Ecco tu sei bello, diletto mio, ecco tu sei bello (Cant 1,15). Vedi come sta già in alto e come ha portato in su la punta della mente colei che per un certo diritto di proprietà acclama come suo diletto il Signore di tutte le cose. Bada infatti come non dica semplicemente «diletto», ma «diletto mio», per indicare che è suo. Visione davvero grande, dalla quale la sposa ha avuto un tale aumento di fiducia e di autorità, da non considerare più come Signore il Signore di tutte le cose, ma solo come diletto. Penso infatti che questa volta non siano state affatto immesse nei suoi sensi immagini carnali, o quella della croce o altre forme corporee qualsiasi. Sotto queste immagini infatti, come lo vide il Profeta, non vi era nello Sposo né bellezza, né decoro (Is 53,2). Ora invece la sposa,. avendolo veduto, lo dichiara bello e leggiadro, dando a vedere che le era apparso in una visione migliore. Il diletto infatti parla con la sposa bocca a bocca, come una volta con il santo Mosè, ed essa vede apertamente, Dio, e non solo per enigmi e figure. E tale lo pronuncia con la bocca quale lo contempla con la mente, mediante una visione davvero sublime e soave. I suoi occhi vedranno il Re nella sua bellezza, non tuttavia come Re, ma come diletto. Lo abbia pure visto altri sopra un trono eccelso ed elevato, e altri attesti che gli è apparso faccia a faccia: a me sembra che in questo l’eminenza sia nella sposa, perché là si dice che fu visto il Signore, qui invece il diletto. Dice infatti: Ho veduto il Signore seduto sopra un soglio eccelso ed elevato (Is 6,1); e ancora: Ho visto il Signore faccia a faccia, ed rimasta salva la mia vita(Gen 32,30). Ma: Se io sono il Signore, dice, dov’è il mio timore? (Mal 1,6). Che se ad essi viene fatta la rivelazione con il timore, perché dov’è il Signore, ivi è il timore, io se avessi da scegliere, tanto più volentieri e più caramente sceglierei la visione della sposa, in quanto la vedo fatta in un sentimento migliore, quale è l’amore. Il timore infatti comporta la pena, ma la carità perfetta caccia via il timore. C’è in verità molta differenza tra l’apparire terribile nei consigli sugli uomini, e apparire bello tra i figli dell’uomo: Ecco tu sei bello, diletto mio, e leggiadro. Queste parole veramente suonano amore, non timore.
V. 7. Ma forse nascono obiezioni nel tuo cuore, e ti chiedi dubbioso: «Come mai vengono riferite le parole del Verbo dette all’anima, e di riscontro quelle dell’anima al Verbo, di modo che essa ha udito la, voce di chi le parlava e le diceva che era bella, ed essa a sua volta subito loda con le stesse parole colui che l’aveva lodata? Come possono avvenire queste cose? Poiché noi parliamo con la parola, non parla la parola. Così’ l’anima non ha modo di parlare se la bocca del: corpo non le forma la parole per il discorso». Fai bene a cercare una spiegazione. Ma bada che è lo Spirito che parla, e ciò che si dice va inteso in senso spirituale. 0gni volta perciò che senti o leggi che il Verbo e l’anima parlano tra di loro o a vicenda si guardano, non immaginare che passino tra l’uno e l’altra voci materiali, né che appariscano immagini corporee dei due interlocutori. Ascolta piuttosto ciò che tu debba pensare al riguardo. Spirito è il Verbo e spirito è l’anima, e hanno le loro lingue con cui parlano l’uno con l’altra e manifestano la loro presenza. Lingua del Verbo è il fervore della sua degnazione,. lingua dell’anima è invece il fervore della devozione. L’anima che non ha questa è senza lingua, come un bambino che non ha l’uso della parola, e non può intavolare alcun discorso con il Verbo. Dunque, quando il Verbo muove questa sua lingua, volendo parlare all’anima questa non può non sentire. Viva infatti è la Parola di Dio, ed efficace, e più penetrante di ogni spada affilata, arrivando fino alla divisione dell’anima e dello spirito (Eb 4,1.2). E dall’altra parte, quando l’anima muove la sua lingua, molto meno il Verbo la può ignorare, non solo perché è presente dappertutto, ma specialmente perché senza uno stimolo che viene da lui, la lingua della devozione non può muoversi per parlare.
8. Per il Verbo dunque dire all’anima: Sei bella, e chiamarla amica equivale a infondere in lei la spinta ad amare e il desiderio di essere amata; viceversa, chiamare «diletto» il Verbo e proclamarlo «bello» significa testimoniare senza finzione e frode che ama e che è amato, ammirare la sua degnazione ed essere piena di stupore di fronte alla sua grazia. La sua bellezza è invero il suo amore, e tanto più gran de in quanto previene sempre. Perciò la sposa dall’intimo del cuore e con la voce del sentimento interno tanto maggiormente e ardentemente grida a se stesso di doverlo amare quanto più lo ha sentito prima amante che amato. Pertanto le parole del Verbo sono l’infusione del dono, la risposta dell’anima è l’ammirazione unita al ringraziamento. E perciò ama tanto maggiormente in quanto si sente nell’amare vinta; e tanto più presa da meraviglia in quanto si riconosce prevenuta. Per questo non contenta di dire una volta «bello», ripete «leggiadro», designando con questa ripetizione una bellezza singolare.
VI. 9. Oppure volle esprimere nelle due nature di Cristo una bellezza degna di ogni ammirazione, in una la bellezza della natura, nell’altra quella della grazia. Come sei bello, Signore Gesù, al cospetto dei tuoi Angeli, nella forma di Dio, nella tua eternità! Come sei bello per me, Signore mio, nello stesso spogliarti di questa tua bellezza! Infatti, per il fatto che ti sei annichilito, che ti sei spogliato tu, lume perenne, dei naturali raggi, maggiormente rifulse la tua pietà, risaltò maggiormente la tua carità, più splendida irradiò la grazia. Come sei bella per me nel tuo nascere, o Stella di Giacobbe, come esci splendido fiore dalla radice di Jesse, e hai visitato come luce di gioia me che giacevo nelle tenebre, nascendo dall’alto! Come fosti ammirabile e stupendo anche per le superne Virtù quando venivi concepito per opera dello Spirito, quando nascevi dalla Vergine, nell’innocenza della vita, nella ricchezza del tuo insegnamento, nello splendore dei miracoli, nella rivelazione di misteri! Come dopo il tramonto, splendido risorgesti, Sole di giustizia, dal cuore della terra! Come bello infine nel tuo vestito, o Re della gloria, te ne sei tornato nell’alto dei cieli! Come non diranno le mie ossa per tutte queste cose: chi è come te, Signore?
10. Pensa dunque che la sposa, contemplando il diletto, abbia mirato in lui tutte queste cose quando diceva: Come sei bello, diletto mio, come sei leggiadro! E non solo queste, ma inoltre certamente qualche cosa della bellezza della natura superiore, che sfugge totalmente al nostro intuito, ed eccede la nostra esperienza. Dunque la lode ripetuta richiama la bellezza dell’una e dell’altra sostanza. Ascolta poi come tripudia alla presenza e alla voce del diletto, e davanti a lui canta con un carme nuziale le cose che piacciono agli amanti. Segue infatti: Il talamo nostro fiorito, le travi delle nostre case sono di cedro, i soffitti di cipresso (Cant 1,15-16). Ma riserviamo all’inizio di un altro sermone il canto della sposa, affinché anche noi fatti più alacri dopo il riposo, esultiamo e ci rallegriamo più liberamente in esso, a lode e gloria del suo Sposo, Gesù Cristo Signore nostro che è Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE XLVI
I. Quale il letto o la casa, quali le travi o il soffitto che la sposa descrive. II. Quali fiori di esercizi è bene che precedano la quiete della contemplazione. III. La casa spirituale, e con quali legni si edifichi o si adorni.
I. 1. Il talamo nostro e fiorito, le travi delle nostre case sono di cedro, i soffitti di cipresso (Cant 1,15-16). Canta la sposa il carme nuziale, descrivendo con belle parole la camera da letto e i talami. Invita al riposo lo Sposo: questo è infatti il meglio, riposare ed essere con Cristo; ma è necessario uscire per guadagnare, per quelli che devono essere salvati. Tuttavia, pensando di aver trovato una buona occasione riferisce ora che il talamo è pronto, e, indicando il letto, invita come ho detto, il diletto al riposo, e come i discepoli che andavano ad Emmaus non reggendo più all’ardore del cuore, lo spinge ad entrare nell’ospizio della mente, costringendolo a passare la notte con sé e dicendo con San Pietro: «Signore, è bello per noi stare qui» (Mt 17,4).
2. Ora investighiamo il contenuto spirituale di queste cose. Nella Chiesa il «letto» in cui ci si riposa penso che siano anche i monasteri, nei quali si vive in tranquillità fuori dalle cure e dalle sollecitudini della vita. E questo letto si dimostra fiorito quando la condotta e la vita dei fratelli, modellata sugli esempi e le istituzioni dei Padri, risplende come se fosse ornata di olezzanti fiori. Per «case» intendi le riunioni del popolo cristiano: le travi che legano fortemente le pareti sono figura dei principi dell’uno e dell’altro ordine, che con giuste leggi impediscono che ognuno viva a suo talento, e come pareti inclinate e muro che crolla, siano tra loro discordi, e cosî tutta la struttura dell’edificio vada in rovina. I soffitti poi che poggiano sulle travi e formano un bel cassettonato, penso che stiano a indicare i mansueti e disciplinati costumi del clero ben formato, e gli uffici amministrati come si deve. Come si potranno infatti reggere gli ordini dei chierici e le loro amministrazioni, se non saranno sostenuti dai principi come dalla forza e bellezza delle colonne che danno sicurezza per la loro robustezza?
3. Che porle travi siano dette di cedro e il cassettonato di cipresso, questo riguarda la natura di questa specie di legno che conviene assai bene ai predetti ordini. Il cedro infatti, essendo legno che non marcisce e per di più profumato e di notevole altezza, indica bene quali devono essere gli uomini ai quali viene affidato il compito di travi. Devono essere validi e costanti coloro che vengono costituiti a capo degli altri, nonché longanimi nella speranza, e che si innalzino con la punta della mente alle cose eccelse; i quali anche spandendo dappertutto il buon odore della loro fede e della loro vita esemplare, possano dire con l’Apostolo: Siamo infatti dinanzi a Dio il buon profumo di Cristo in ogni luogo (2 Cor 2,15). Cosi pure il cipresso, legno di buon odore e che non marcisce, dimostra che ogni membro del clero dev’essere di fede e di vita intemerata, di modo che sia con, ragione destinato a ornare i soffitti per il decoro della casa. Sta infatti scritto: Alla tua casa conviene la santità per la durata dei giorni, Signore (Sal 92,5). Qui viene espresso il decoro della santità e la perseveranza di una indefettibile grazia. Occorre dunque che un uomo che viene scelto a ornamento e decoro della casa sia adorno di buoni costumi, e non solo lo sia sempre nell’intimo suo, ma abbia anche buona testimonianza dalla gente di fuori. Vi sono anche altri sensi indicati dalla natura di questi legni da intendersi spiritualmente; ma li ometto per essere breve.
4. È bello però notare ancora come tutto lo stato della Chiesa viene compreso in un breve versetto, vale a dire, l’autorità dei prelati, il decoro del clero, la disciplina del popolo e la quiete dei monaci. Nella considerazione di tutte queste cose si rallegra grandemente la santa madre Chiesa; essa le mostra tutte al. diletto quando senza nulla attribuire a sé riferisce tutto alla bontà di lui, in quanto autore di tutto. Se usa infatti le parole «nostro» e «nostre» non é segno di usurpazione ma di affetto, in quanto per la fiducia che le ispira il grande amore, non sente estraneo tutto quello che appartiene a colui che tanto ama. Né pensa che le sarà impedito di partecipare alla familiarità e al riposo dello Sposo, avendo sempre avuto cura di cercare non il proprio interesse, ma quello di lui; e questa è la ragione per cui ha osato dichiarare comuni a sé e allo Sposo, insieme, sia il letto, sia le case. Ha detto infatti: «il nostro letto», e le «travi delle nostre case», e i «nostri soffitti», associando arditamente se stessa nel possesso di tali cose a colui al quale non dubita di essere unita nell’amore. Non cosî quella che non ha ancora rinunciato alla propria volontà; costei riposa da sola, da sola abita: o piuttosto non da sola ma con le meretrici abita, vivendo in modo dissoluto, voglio dire con le concupiscenze carnali, con le quali dà fondo ai suoi beni e alla parte della sostanza paterna che ha chiesto le venisse divisa.
II. 5. Del resto tu che senti o leggi queste parole dello Spirito Santo, pensi di poter applicare a te stesso alcune delle cose che vengono dette, e di riconoscere in te qualcosa della felicità della sposa che dallo stesso Spirito è cantata in questo carme d’amore, perché non si dica anche di te Senti lasua voce, ma non sai donde venga o dove vada (Gv 3,8)? E forse aspiri anche tu alla quiete della contemplazione, e fai bene; solo non dimenticare i fiori dei quali leggi essere cosparso il letto della sposa. Abbi dunque cura anche tu di ornare il tuo con fiori di buone opere, facendo precedere il santo ozio della contemplazione dall’esercizio delle virtù, come fiore che precede il frutto. Diversamente vorresti goderti un riposo troppo delicato, senza desiderarlo dopo la fatica, e, trascurando la fecondità di Lia, brameresti goderti gli amplessi della sola Rachele. Ma questo è un ordine a rovescio, l’esigere cioè il premio prima del merito, e prendere il cibo prima di aver lavorato, mentre dice l’Apostolo: Chi non lavora non mangi (2 Ts 3,10). Dai tuoi decreti ricevo intelligenza (Sal 118,104), dice, perché tu sappia che non sarà dato affatto di gustare la contemplazione se non all’obbedienza dei comandamenti. Non pensa re dunque di poter in alcun modo per amore della tua quiete, portare pregiudizio agli atti della santa obbedienza o alle tradizioni degli anziani. Diversamente non dormirà con te lo Sposo in un solo letto, specialmente in quello che ti sarai cosparso, invece di fiori, di cicute e di ortiche. Per questo motivo non esaudirà le tue orazioni, e chiamato non verrà; né si darà con abbondanza al disobbediente, lui che tanto amò l’obbedienza da preferire di morire piuttosto che disobbedire. E neppure approva il vano ozio della tua contemplazione colui che dice per mezzo del Profeta: Ho faticato sopportando (Is 1,14), indicando quel tempo in cui esule dal cielo e dalla patria di somma quiete, operò la salvezza su questa terra. Temo piuttosto che si debba applicare anche a te quella spaventosa affermazione che Dio pronunzia contro la perfidia dei Giudei: Non posso sopportare i vostri noviluni, sabati e assemblee sacre, io detesto i vostri noviluni e le vostre feste, sono per me un peso (Is 1,13-14). E piangerà su di te il Profeta dicendo: La videro i suoi nemici, e derisero i suoi sabati (Lam 1,7). Perché infatti il nemico non deriderebbe colui che è ripudiato dal diletto?
6. Mi meraviglia l’impudenza di taluni, che non sono tra noi, i quali dopo averci turbati tutti con la loro singolarità e irritati per la loro impazienza, dopo averci scandalizzati per la loro disobbedienza, ardiscono nonostante tutto invitare il Signore di ogni purità con istantissime preghiere al letto così immondo della loro coscienza. Ma quando stendete le mani, dice, io distolgo gli occhi da voi, e anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto (Is 1,15). E che? Il letto non è fiorito, ma è piuttosto puzzolente; e tu vi inviti il Re della gloria? Lo fai per riposarvi o per discutervi? Il centurione non vuole che Gesù entri sotto il suo tetto perché se ne reputa indegno, eppure la sua fede è famosa in tutto Israele; e tu lo spingi ad entrare da te, macchiato da tanti sordidi vizi? Grida il Principe degli Apostoli: Allontanati da me che sono uomo peccatore (Lc 5,8) e tu dici: Vieni da me Signore, perché sono santo? Siate, dice, tutti unanimi nell’orazione e nell’amore per i fratelli (1 Pt 3,8). E il Vaso di elezione: Alzando al cielo mani pure, senza ira e contese (1 Tm 2,8). Vedi come vanno d’accordo tra di loro e come parlano con lo stesso spirito della pace e della tranquillità d’animo che deve avere colui che prega il Principe degli Apostoli e il Dottore dei Gentili? Va’ ora tu, alza tutto il giorno le tue mani a Dio, tu che tutto il giorno rechi molestie ai fratelli, distruggi la concordia e ti separi dall’unità.
7. «E che cosa vuoi che io faccia?», dici. Per prima cosa che tu purifichi la tua coscienza da ogni inquinamento di ira, di disputa, di mormorazione, di livore o di qualsiasi altra cosa che si sa essere contraria alla pace con i fratelli o all’obbedienza degli anziani, cercando di eliminare tutte queste cose dall’abitazione del cuore. In secondo luogo devi circondarti dei fiori delle buone opere e dei lodevoli studi e dei profumi delle virtù, vale a dire di tutte le cose che sono vere, giuste, sante, amabili o che sono in buona reputazione, di tutto ciò che è virtù o lodevole disciplina: pensa a queste cose, procura di esercitarti in esse. Dopo tutto questo potrai con sicurezza chiamare lo Sposo perché, quando lo avrai introdotto, potrai dire con verità anche tu: Ilnostro letto è cosparso di fiori, dal momento cioè che la tua coscienza manderà profumo di pietà, di pace, di mansuetudine, di giustizia, di obbedienza, di gioia, di umiltà. Così riguardo al letto.
III. 8. Per casa poi, in senso spirituale, ognuno riconosca se stesso, a condizione tuttavia che non cammini più secondo la carne, ma secondo lo spirito,poiché santo è il tempio di Dio che siete voi (1 Cor 3,17). Badate dunque, o fratelli, a questo edificio spirituale che siete voi, perché non succeda che quando comincerà ad elevarsi in alto, vacilli e cada in rovina se non sarà sostenuto e legato da travi robuste; cercate, dico, di dargli dei soffitti che non marciscono e ben fermi, vale a dire quel timore di Dio che dura in eterno, la pazienza, di cui è scritto che la pazienza dei poveri non resterà mai delusa(Sal 9,19), la longanimità pure, che reggendo inflessibile sotto il peso di qualsiasi struttura, non viene meno per i secoli eterni della vita beata, come dice il Salvatore nel Vangelo: Chi persevererà fino alla fine sarà salvo (Mt 10,22); e soprattutto la carità che non viene mai meno, perché l’amore è forte come la morte, tenace come gli inferi la gelosia (Cant 8,6). Cercate poi di disporre sotto questi soffitti e concatenare le travi e le altre cose preziose e belle, quelli almeno che avranno sotto mano queste cose, disponendo il cassettonato a decoro della casa. Si tratta del dono di una parola piena di sapienza e scienza, della profezia, della grazia delle guarigioni, del dono di interpretare i sermoni e altre simili che si conoscono più come utili e come ornamento che necessarie per la salvezza. Riguardo a queste cose non ho un comando da dare, ma do un consiglio: poiché è risaputo che tali legni con fatica si cercano e con difficoltà si trovano, e ancora con pericolo vengono lavorati, sono infatti rari quelli che la nostra terra, specialmente in questi tempi, produce, consiglio piuttosto e ammonisco di non mettere troppo impegno a cercare questi, ma a preparare i soffitti con altri legni che, anche se sembrano meno ricercati, non sono alla prova meno solidi, si trovano più facilmente e più sicuramente.
9. Voglia Iddio che io abbia abbondanza di tali legni che crescono fitti nel giardino dello Sposo della Chiesa: pace, bontà, benignità, gaudio nello Spirito Santo, il venire incontro ai miseri con volto ilare, il dare con semplicità, godere con chi gode, piangere con chi è nell’afflizione. Non ti sembra che una casa, per quanto riguarda i soffitti, sia abbastanza, anzi abbondantemente adorna quando i suoi cassettonati sono composti di tale varietà di legni? Signore, amo il decoro della casa dove dimori (Sal 25,8). Dammi sempre di questi legni, ti prego, con i quali ti possa sempre offrire bene adorno il talamo della coscienza: della coscienza mia e altrui. Mi contenterò di questi. Vi saranno anche di quelli che vorranno aderire a questo mio consiglio, perché penso che anche tu sia contento; le altre cose le lascio ai santi Apostoli e agli uomini apostolici. Ma anche voi carissimi, anche se non possedete quegli altri legni ma ave te questi ultimi, abbiate fiducia; accostatevi con fiducia alla pietra angolare, scelta, preziosa; venite tuttavia edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti anche voi come pietre vive, cioè case, per offrire ostie spirituali accette a Dio, per Gesù Cristo Sposo della Chiesa e Signore nostro, che è benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE XLVII
I. Il fiore del campo, del giardino o del talamo. II. Ancora diversamente sullo stesso argomento, e perché in particolare si definisce fiore del campo. III. Perché si dice fiore delle convalli, e a quale opera di Dio dobbiamo attendere.
I. 1. Io sono fiore del campo e giglio delle valli (Cant 2, 1). Penso che questo sia detto riguardo ai fiori di cui la sposa dice essere adorno il talamo. Affinché non attribuisca a sé quei fiori che adornano e rendono grazioso il letto, lo sposo viene a dire che lui è il fiore del campo, e i fiori non nascono dal talamo, ma nel campo, ed essere suo dono e sua partecipazione tutto quello che splende ed esala grato odore. Perché nessuno possa rimproverare la sposa dicendole: Che cosa hai tu che non abbia ricevuto? E se lo hai ricevuto, perché ti vanti quasi non l’avessi ricevuto? (1 Cor 4,7). Così il geloso amante e ugualmente benigno educatore dimostra con bontà e degnazione alla sua diletta a chi debba attribuire la bellezza e il soave profumo del letto di cui si gloriava. Io sono il fiore del campo, dice; da me proviene quello di cui ti vanti. Molto salutarmente siamo ammoniti da questo passo che non bisogna affatto gloriarsi o, se uno si gloria, si glorii nel Signore. Questo secondo la lettera; e ora scrutiamo, con l’aiuto di colui del quale parliamo, quale senso spirituale vi si nasconda.
2. E per prima cosa nota come un fiore possa trovarsi in tre posti: nel campo, nel giardino o sul talamo. Così ti sarà più facile capire perché lo Sposo abbia scelto di chiamarsi fiore del campo. Nel campo, come nel giardino, il fiore nasce, non così sul talamo. Manda profumo e fa bella figura su di esso, ma non sta diritto come sta nel campo o nel giardino, ma piuttosto giace, essendovi stato portato, non nato. E per questo occorre curarlo spesso, e mettere sempre nuovi fiori, perché non mantengono a lungo il profumo né la bellezza. E se, come ho detto nel precedente sermone, per letto fiorito si intende la coscienza adorna di buone opere, vedi chiaramente come, per mantenere la similitudine, non basta operare il bene una volta o l’altra, ma occorre sempre aggiungere nuove opere buone, affinché, seminando con abbondanza, tu abbia anche a mietere con abbondanza. Diversamente il fiore dell’opera buona appassisce e marcisce, e in breve tempo perde la bellezza e il vigore, se non venga seguito ripetutamente e continuamente da nuovi atti di pietà. Questo riguardo al fiore sul talamo.
3. Non così nel giardino, e neppure similmente nel campo. Una volta prodotti, infatti, i fiori provvedono da sé per mantenersi nella loro freschezza. Ma sono ancora differenti tra di loro quelli del giardino e quelli del campo: nel giardino c’è bisogno della mano e dell’arte: dell’uomo, il campo invece da se stesso produce i fiori naturalmente, senza l’aiuto e la cura dell’uomo. Hai già indovinato qual è quel campo non solcato da aratro, né scavato dalla zappa, né ingrassato da concime, né seminato da mano di uomo, e pure abbellito da quel nobile fiore sul quale sappiamo che ha riposato lo Spirito del Signore? Ecco, dice, il profumo del figlio mio è come odore di un campo pieno di frutti benedetto dal Signore (Gen 27,27). Quel fiore di campo non aveva ancora rivestito la sua bellezza, e già esalava il suo profumo, quando lo presenti in spirito il santo vecchio Patriarca, cadente nel corpo e impedito nella vista, ma dall’odorato fino, quando pieno di gaudio, usci in quella esclamazione. Non volle pertanto lo Sposo chiamarsi fiore del talamo, essendo egli sempre fresco, e neanche fiore di giardino, perché non fosse creduto generato per operar di uomo. Giustamente invece e in modo convenientissimo: «Io sono fiore del campo», dice, lui che spuntò senza concorso di uomo, ed in seguito non fu guasto da alcuna corruzione, affinché si adempisse quanto era stato predetto: Non lascerai che il tuo santo veda la corruzione (Sal 15,10).
4. Ma se vi piace, ecco un’altra ragione da non disprezzare, come penso. Non è certo senza una ragione che dal Saggio viene descritto il molteplice spirito, perché sotto una unica corteccia della lettera molte volte sono nascoste molte intelligenze della sapienza. Cosi, secondo la divisione predetta dei vari fiori, si può intendere per un fiore la verginità, un fiore il martirio, un fiore la buona azione: nel giardino la verginità, nel campo il martirio, l’opera buona sul talamo. E bene si colloca nel giardino la verginità, alla quale è familiare la verecondia che rifugge dal pubblico, ama il nascondimento e sottostà alla disciplina. E poi nel giardino il fiore è al chiuso, mentre è esposto nel campo, ed è sparso sul talamo. Così hai l’orto chiuso, il fonte sigillato(Cant 4,12). Questo significa la difesa del pudore nella vergine, e la custodia di una inviolata santità, a condizione che la vergine sia davvero santa di corpo e di spirito. Bene pure il martirio e significato nel fiore del campo, perché i martiri sono esposti al ludibrio di tutti, fatti spettacolo agli angeli e agli uomini. Non è forse di essi quella voce del salmo: Siamo divenuti l’obbrobrio dei nostri vicini, scherno e ludibrio di chi ci sta intorno (Sal 78,4). Sta bene pure la buona azione come fiore sul talamo; essa infatti dona quiete e sicurezza alla coscienza. Dopo un’opera buona si riposa più sicuramente nella contemplazione, e con tanta maggior fiducia uno si appresta a intuire ed investigare le cose sublimi, quanto più è conscio di non aver mancato alle opere di carità per amore della propria quiete.
5. Il Signore Gesù è, in qualche modo, tutte queste cose. Egli è il fiore di giardino, generato vergine da un virgulto vergine. Egli è anche fiore di campo, martire, corona dei martiri, modello di martirio. Egli è stato condotto fuori della città, ha sofferto la sua passione fuori dell’accampamento, fu innalzato sulla croce, alla vista di tutti, disprezzato da tutti. Egli è ancora il fiore del talamo, specchio ed esempio di ogni beneficenza, come egli stesso dichiarò ai Giudei: Ho compiuto molte opere buone tra di voi (Gv 10, 32). Se dunque il Signore è tutte queste tre cose, per quale ragione dei tre ha preferito chiamare se stesso «Fiore del campo»? Certamente per incoraggiare la sposa a sopportare con pazienza la persecuzione che prevedeva essere per lei imminente, in quanto voleva piamente vivere in Cristo. Egli si professa più volentieri di essere quello in cui più desidera avere degli imitatori; ed è questo che ha detto altre volte: la sposa brama sempre la quiete, ed egli sprona alla fatica, dicendole chiaro che nel regno dei cieli è necessario entrare attraverso molte tribolazioni. Per questo quando, dopo essersi unita come sposa la novella Chiesa, si disponeva a tornare al Padre, le diceva: Viene l’ora in cui chiunque vi uccide crederà di rendere culto a Dio (Gv 16,2); e ancora: Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi (Gv 15, 20). Puoi anche tu trovare nel Vangelo molti passi simili che si riferiscono ai mali da soffrire.
6. Io sono il fiore del campo e il giglio delle valli. Mentre dunque la sposa mostra il letto, lo Sposo la richiama al campo, invitandola al lavoro. E non pensa che vi sia qualche cosa più adatta a persuaderla a ingaggiare la lotta, che di proporre se stesso come modello di combattimento o come premio di esso. Io sono fiore di campo. Da queste parole si comprende in verità l’una e l’altra cosa, quale sia cioè il modello del combattente e quale la gloria del trionfante. Signore Gesù, tu sei per me tutte e due queste cose, e specchio nella sofferenza e prezzo di colui che patisce. L’una cosa e l’altra sono di sprone e invitano con forza. Tu addestri le mie mani alla battaglia, con l’esempio della tua fortezza, tu incoroni il mio capo, dopo la vittoria, con la presenza della tua maestà; sia perché ti vedo lottare, sia perché ti attendo quando mi coronerai, quando sarai tu la mia corona, con entrambe le cose mi leghi a te come con doppia fune irresistibile. Trascinami dietro a te (Cant 1, 3): ti seguo volentieri, e più volentieri ancora godo di te. Se sei così buono, o Signore, per quelli che ti seguono, quale sarai per quelli che ti raggiungono? Io fiore del campo: chi mi ama venga al campo, non ricusi di ingaggiare la battaglia con me e per me, affinché possa dire: Ho combattuto la buona battaglia (2 Tm 4,7).
III. 7. E poiché non i superbi o gli arroganti, ma piuttosto gli umili che non sanno presumere di se stessi, sono idonei al martirio, aggiunge di essere anche «giglio delle valli» cioè corona degli umili, designando con l’eminenza di questo fiore la speciale gloria della loro futura esaltazione. Questa avverrà quando ogni valle sarà ricolmata e ogni montagna e collina sarà spianata, e allora quel candore della vita eterna apparirà, giglio veramente non dei colli, ma delle valli. Il giusto germoglierà come giglio, dice, (Os 14, 6). Quale giusto, se non l’umile? E poi quando il Signore si chinava sotto le mani del servo Giovanni Battista, e questi tremava davanti alla maestà, Lascia, disse, così conviene che noi adempiamo ogni giustizia (Mt 3,15), facendo consistere la perfezione della giustizia nella perfezione dell’umiltà. Il giusto dunque è umile, il giusto è valle. E se saremo trovati umili germoglieremo anche noi come gigli, e fioriremo in eterno davanti al Signore. E non si manifesterà veramente «giglio delle valli» quando trasformerà il nostro umile corpo per conformarlo al suo corpo glorioso? Non dice «il nostro corpo», ma «il corpo della nostra umiltà», per significare che solo gli umili saranno illuminati dal meraviglioso ed eterno candore di questo giglio. Ciò sia detto per il fatto che lo Sposo si è chiamato «fiore» dei colli e «giglio delle valli».
8. E ormai sarebbe anche buona cosa sentire che cosa lo Sposo dica, di conseguenza, della sua diletta; ma l’ora non lo permette. Secondo la nostra Regola infatti, non è lecito anteporre nulla all’opus Dei, con questo nome il nostro padre Benedetto volle indicare le solenni lodi che ogni giorno si rendono a Dio nell’oratorio, per indicarci chiaramente quanto egli ci voglia intenti a questa opera. Perciò vi esorto, dilettissimi, a perseverare sempre puramente e strenuamente alle divine lodi; strenuamente, vale a dire che stiate davanti al Signore con alacrità e insieme con, riverenza, non pigri, non sonnolenti, non sbadigliando, non risparmiando la voce, senza troncare a metà le parole, non saltandone delle intere, non con voci rotte o flebili, o biascicando con voce nasale, ma con voce e con affetto virile, come conviene a chi canta le parole dello Spirito Santo; con purezza poi, di modo che, mentre salmeggiate non pensiate ad altro che a ciò che cantate. E non dico solo di evitare i vani pensieri e quelli oziosi, ma anche quelli che i fratelli incaricati dei vari servizi sono costretti ad avere di frequenza per le comuni necessità. E non consiglierei neppure di fermarsi su quei pensieri che poco prima, seduti nel chiostro, e intenti alla lettura vi sono venuti alla mente, o quelli che: riportate freschi dalla mia viva voce in questo auditorio dello Spirito Santo. Sono cose salutari, ma non si ripensano salutarmente durante le salmodie. Lo Spirito Santo infatti non accetta come cosa gradita quanto gli puoi offrire di diverso da ciò che devi, trascurando quello che è tuo dovere di offrire. Possiamo noi fare sempre la sua volontà per sua ispirazione e per la grazia e misericordia dello sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE XLVIII
I. Come giglio fra le spine, così l’anima fra le colpe. II. Encomio dello sposo che e paragonato al melo fra gli alberi della selva; che cosa significhi essere lodati dallo sposo o lodare lo sposo. III. L’ombra del diletto e il suo dolce frutto, cioè la fede e la contemplazione.
I. 1. Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle (Cant 2,2). Non sono buone le fanciulle che pungono. Considera il pessimo germoglio di quella nostra terra che è stata maledetta. Quando, dice, la coltiverai, ti germoglierà triboli e spine (Gen 3,18). Pertanto fino a che l’anima è nel corpo si trova tra le spine, e necessariamente è soggetta alle punture delle tentazioni e delle tribolazioni. E se essa è un giglio, come dice lo Sposo, veda quanto deve essere vigilante e sollecita nel custodire se stessa, circondata come è da ogni parte da spine che protendono tutto intorno i loro aculei. E il fiore è così tenero che non può resistere alla minima puntura di una spina, che non appena lievemente lo preme, lo perfora. Senti quanto sia giusta e necessaria l’esortazione che ci fa il Profeta di servire il Signore nel timore, e così l’Apostolo, dove dice che dobbiamo operare la nostra salvezza in timore e tremore? Conoscevano essi per propria esperienza la verità di questa sentenza in quanto amici dello Sposo, che non dubitavano minimamente che potesse applicarsi anche alla loro anima la frase: Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle.
E difatti uno di loro dice: Mi sono convertito nel mio dolore, mentre esso mi trafigge come una spina (Sal 31,4). Bene trafitto colui che per questo si è ravveduto. Bene sei punto, se ne resti compunto. Molti, quando sentono la pena, correggono la colpa; uno così può dire: Mi sono ravveduto nel mio dolore, mentre esso mi trafigge come una spina. Spina è la colpa; spina è la pena, spina il falso fratello, spina il cattivo vicino.
2. Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle. Oh, candido giglio! Oh, fiore tenero e delicato! Tu ti trovi tra gli increduli e i sovvertitori. Cammina con cautela tra le spine. Il mondo è pieno di spine; ce n’è in terra, ce n’è nell’aria, ve ne sono nella tua carne. Vivere tra queste e non restare offesi è effetto della divina potenza, non della tua forza. Ma abbiate fiducia, dice il Signore, io ho vinto il mondo! Dunque, anche se ti accorgi che da ogni lato sono rivolti verso di te gli aculei delle tribolazioni non si turbi né si spaventi il tuo cuore, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata, la virtù provata la speranza; la speranza poi non delude (Rm 5,3-5). Considera i gigli del campo, come prosperano e splendono tra le spine. Se l’erba che oggi è verde e domani viene bruciata è così custodita da Dio, quanto maggiormente avrà cura della sua diletta e carissima sposa? Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano (Sal 144,20). Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle. Non è veramente una piccola prova di virtù conservarsi buono tra i cattivi, e mantenere il candore dell’innocenza e la soavità dei costumi tra i maligni, soprattutto se ti mostri pacifico con quelli che odiano la pace, e amico con i nemici. Questo in verità ti insinua specialmente l’addotta similitudine del giglio per una certa sua speciale proprietà, per cui non cessa di dar risalto e bellezza con il suo candore alle stesse spine che io pungono. Non ti sembra pertanto che il giglio realizzi in qualche modo la perfezione del Vangelo che ci comanda di pregare per quelli che ci calunniano e ci perseguitano e di fare del bene a coloro che ci odiano? Dunque, anche tu fa’ lo stesso (Lc 10,37) e la tua anima sarà la diletta del Signore, e ti loderà per te dicendo:Come il giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle.
II. 3. Come il melo tra gli alberi delle foreste, così il mio diletto tra i figli (Cant 2,3). La sposa ricambia la lode allo Sposo che l’ha lodata, dal quale essere lodato equivaleva diventäre degno di lode, e lodare il quale corrisponde a conoscere e ammirare lui che è degno di lode. E come lo Sposo loda la sposa paragonandolo a uno splendido fiore, così a sua volta essa dimostra la sua singolare gloria e la sua eminenza paragonandola a un albero eccellente. Mi fa tuttavia meraviglia che sia stato preso come esempio un albero che non sembra avere nulla di straordinario, come ce ne sono altri, e pare pertanto non essere degno di essere adoperato come esempio in quanto non adatto ad esprimere la lode dello Sposo. Come il melo, tra gli alberi delle foreste, così il mio diletto tra i figli. Del resto non sembra ne avesse grande stima la stessa sposa, che lo ha scelto solamente tra gli alberi delle selve che sono sterili, né portano frutto adatto per l’alimento dell’uomo. Perché dunque, omesse altre piante migliori e più nobili, è stata presa questa pianta mediocre per tessere l’elogio dello Sposo? Ha dovuto forse essere lodato con misura colui che non ha ricevuto secondo misura lo Spirito? L’esempio preso da questa pianta lascia supporre che abbia di più grandi di lui; egli che non ha eguali. Che cosa dire a questo riguardo? Lo devo ammettere: piccola lode, perché lode di un piccolo. Non viene infatti qui proclamato: Grande il Signore e degno di ogni lode (Sal 47,2), ma piccolo il Signore, e amabile fuori di misura, piccolo veramente colui che è nato per noi.
4. Dunque qui non si esalta la maestà, ma è lodata l’umiltà, e come è degno e giusto, ciò che è stoltezza e debolezza di Dio passa davanti alla fortezza e alla sapienza degli uomini. Questi sono infatti piante selvatiche e infruttuose perché, secondo il Profeta tutti hanno traviato, sono divenuti inutili, più nessuno fa il bene, neppure uno (Sal 13,3). Come melo tra gli alberi delle foreste così il mio diletto tra i figli. Tra gli alberi delle foreste il Signore Gesù è l’unica pianta che fa frutto, che emerge come uomo tra`» gli uomini, ma di poco fatto meno degli angeli. Fattosi uomo infatti si assoggettò in modo meraviglioso agli angeli, e, restando Dio, come tale li conservò a soggetti. Vedrete, è detto, gli angeli salire e scendere sul figlio dell’uomo (Gv 1,15) per il fatto che nel medesimo uomo Cristo Gesù servono la debolezza e ammirano la maestà. Poiché, dunque, alla sposa è cosa molto dolce il fatto che egli si è abbassato, più volentieri ne esalta la grazia, ne mette in evidenza la misericordia, ne ammira con stupore la degnazione. Le piacque perciò ammirare l’uomo tra gli uomini, non Dio tra gli angeli; come il melo eccelle tra gli alberi delle foreste, e non tra le piante dei giardini. Né pensa la sposa che ci sia una diminuzione delle lodi dove, dalla considerazione della debolezza, viene messa in risalto la pietà e la bontà. Mentre infatti sembra limitare, secondo un aspetto, le lodi, sotto un altro aspetto loda maggiormente, considerando meno la gloria della dignità, per dar più rilievo alla bellezza della degnazione. Come dunque l’Apostolo dice che ciò che è stoltezza e debolezza di Dio è più sapiente e più forte degli uomini, ma non degli angeli, e come il Profeta dichiara Cristo bello tra i figli dell’uomo, ma non tra gli angeli, così la sposa, parlando senza dubbio nel medesimo Spirito, sotto la figura di un albero fruttifero e di alberi selvatici intese, in questo passo, presentare l’uomo-Dio superiore in bellezza a tutti gli uomini, ma non agli angeli.
5. Come melo tra gli alberi delle foreste, così il mio diletto tra i figli. E bene tra i figli, perché essendo il Figlio unico del Padre cercò di acquistargli, senza invidia, molti figli che non si vergogna di chiamare fratelli, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. A buon diritto egli viene anteposto a tutti quelli adottati per grazia, lui che è figlio per natura. Giustamente come melo, perché a guisa di albero fruttifero fornisce il refrigerio dell’ombra e ottimo frutto. Non è forse veramente un albero fruttifero colui i cui fiori sono frutto di onore e di onestà? Infine è un albero di vita per chi ne gusta (Pr 3,18). Non potranno paragonarsi a questo tutti gli alberi della foresta, perché anche se fossero belli e grandi e sembrino portare vantaggio pregando, servendo, insegnando, aiutando con esempi, solo Cristo, tuttavia, sapienza di Dio è albero di vita, solo lui è il pane vivo che discende dal cielo e dà la vita al mondo.
III. 6. Perciò dice: Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato e il suo frutto è dolce al mio palato (Cant 2,3). Con ragione aveva desiderato l’ombra di lui, dal quale le veniva il refrigerio e l’alimento. Le altre piante invece, della foresta, anche se forniscono il sollievo dell’ombra, non danno però un alimento vitale, non frutti perenni di salvezza. Uno solo è infatti l’autore della vita, uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che dice alla sua sposa: Io sono la tua salvezza (Sal 34,3). Non Mosè, dice, vi ha dato il vero pane dal cielo, ma il mio Padre vi dà dal cielo il pane vero (Gv 6,32). Per questo dunque aveva principalmente desiderato l’ombra di Cristo, perché solo lui dà refrigerio contro l’ardore dei vizi, non solo, ma riempie anche con il diletto delle virtù. Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato. La sua ombra e la sua carne; sua ombra e la fede. Maria fu adombrata dalla carne del proprio Figlio, io dalla fede del Signore. Ma anche a me in un certo modo fa ombra la sua carne della quale mi nutro nel mistero. E la santa Vergine ha sperimentato anche lei l’ombra della fede, come le fu detto: Beata te che hai creduto (Lc 1,45). Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato. E il Profeta: Spirito, dice, è davanti alla, nostra faccia Cristo Signore, alla sua ombra viviamo tra le nazioni (Lam 4,20). All’ombra tra le nazioni, alla luce con gli angeli. Siamo nell’ombra fino a che cam. miniamo nella fede e non nella visione; e perciò è nell’ombra il giusto che vive di fede. Ma chi vive di intelligenza perché non più nell’ombra, ma nella luce. Giusto era Davide che viveva di fede quando diceva a Dio:Dammi intelligenza e avrò vita (Sal 118,144), sapendo che alla fede sarebbe subentrata l’intelligenza, all’intelligenza si sarebbe rivelata la luce della vita, e questa avrebbe seguito la luce. Prima si viene all’ombra, poi si passa a ciò di cui è ombra, perché se non crederete, non comprenderete (Is 7,9).
7. Vedi come la fede è vita e ombra della vita. All’opposto, la vita che trascorre nelle delizie, non essendo secondo la fede è morte e ombra di morte.Quella vedova, dice l’A--postolo, che vive nelle delizie, pur vivendo è morta (1 Tm 5,6). E infine: La sapienza della carne è morte (Rm 8,6). Ma è anche ombra della morte, di quella morte cioè che strazia in eterno. Anche noi eravamo una volta seduti nelle tenebre e nell’ombra della morte, vivendo secondo la carne e non secondo la fede, morti ormai alla giustizia, in procinto di venire assorbiti dalla morte seconda. Quanto infatti l’ombra è vicina al corpo di cui è ombra, altrettanto la nostra vita di allora era vicina all’inferno. Se non fosse che il Signore mi ha aiutato, l’anima mia rischiava di abitare nell’inferno (Sal 93,17). Ma ora dall’ombra della morte siamo passati all’ombra della vita, e più ancora siamo passati dalla morte alla vita, vivendo all’ombra di Cristo, se pure vivi e non morti. Non penso infatti che sia la stessa cosa essere alla sua ombra e vivere in essa, perché non tutti quelli che hanno la fede vivono effettivamente di fede. E la fede che è senza le opere è morta (Gc 2,20) né può dare la vita che essa non ha. Perciò il Profeta avendo detto: Spirito è davanti alla nostra faccia Cristo Signore, non si contentò di aggiungere: «Siamo nella sua ombra», ma: Alla sua ombra viviamo tra le nazioni. Anche tu dunque, sull’esempio del Profeta cerca di vivere alla sua ombra, affinché anche tu un giorno possa regnare nella luce di lui. Non ha infatti solo l’ombra: ha anche la luce. Egli per la carne é ombra di fede, per lo spirito è luce di intelligenza. È infatti carne e spirito. Carne per chi vive nella carne, spirito davanti alla nostra faccia, vale a dire in futuro, se tuttavia dimentichi delle cose che sono dietro ci protendiamo a quelle che ci stanno davanti, e là giungendo possiamo sperimentare la verità della sua parola: La carne non giova a nulla; è lo spirito che vivifica (Gv 6,64). E non ignoro che qualcuno, vivente ancora nella carne, ha detto: Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così (2 Cor 5,16). Questo per San Paolo. Ma noi che non abbiamo ancora meritato di essere rapiti in paradiso, non ancora al terzo cielo, cibiamoci frattanto della carne di Cristo, veneriamo i misteri, seguiamone gli esempi, conserviamo la fede, e così in verità viviamo alla sua ombra.
8. Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato. Forse la sposa si gloria di aver sperimentato qualche cosa di più felice nello Sposo, per il fatto che dice non di vivere, come il Profeta, ma di essersi seduta all’ombra dello Sposo. Sedere, infatti, equivale a riposarsi. Ora, dice di più riposare all’ombra che vivere, come vivere è più che essere semplicemente all’ombra. Il Profeta applica dunque a sé ciò che è comune a molti dicendo: Viviamo alla sua ombra; la sposa, invece, si vanta della sua singolare prerogativa di sedersi a questa sua ombra. Così con fatica viviamo noi che, consci dei nostri peccati, serviamo il Signore con timore, mentre la sposa devota e amante soavemente riposa. Il timore ha . con sé la pena (2 Gv 4,18), l’amore la soavità. Perciò dice: Il suo frutto è dolce al mio palato (Cant 2,3), intendendo il gusto della contemplazione di lui, che aveva ottenuto soavemente innalzata per l’amore. Ma questo nell’ombra, perché attraverso uno specchio e in modo oscuro (1 Cor 13,12). E sarà, quando cadranno le ombre con il crescere della luce, anzi, saranno del tutto scomparse, e subentrerà la chiara e perpetua visione, e non solo vi sarà dolcezza al palato, ma sazietà del ventre, senza fastidio e nausea però: Mi siederò all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato. Anche noi mentre la sposa riposa, facciamo una pausa glorificando per il gusto ricevuto il Padre di famiglia che ci ha invitato a questo banchetto, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore che e sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE XLIX
I. La cella vinaria, che è la chiesa primitiva o lo zelo della giustizia che arde nell’amore per la contemplazione di Dio. II. La discrezione è la carità ben ordinata. III. Come ciò che secondo la ragione è da anteporre, si debba talora posporre in base all’ordine della carità e come di ciò che torna a maggior gloria di Dio si debba maggiormente godere. IV. Quale utilità traiamo in base all’ordine della carità.
I. 1. Il Re mi ha introdotto nella cella del vino e ha ordinato in me la carità (Cant 2,3). Come sembra indicare il senso letterale di questa affermazione, dopo il desiderato, dolce e oltremodo familiare colloquio avuto con il diletto, partito questo, la sposa ritorna alle giovinette, così ripiena e accesa dalla vista e dal colloquio con lui da apparire simile a una ubriaca. E ad esse che si stupiscono per la novità della cosa e .ne chiedono la ragione risponde che non fa meraviglia se sembri accesa di vino, dal momento che era stata introdotta nella cella vinaria. Questo secondo la lettera. Secondo lo spirito pure la sposa non nega di essere ebbra, ma di amore, non di vino, a meno che si dica che l’amore è vino. Il Re mi ha introdotto nella cella vinaria. Quando lo Sposo è presente e la sposa rivolge a lui il discorso, allora viene chiamato «Sposo» o «diletto», oppure «colui che l’anima mia ama»; parlando invece di lui alle giovinette lo chiama «Re». Perché questo? Credo che la ragione sia perché alla sposa amante e diletta convenga di trattare più familiarmente, per quanto spetta a lei, con i nomi dell’amore, e alle giovinette, come a quelle che hanno bisogno di disciplina, sia necessario far ricorso a una parola che incuta la reverenza dovuta alla maestà.
2. Il Re mi ha introdotto nella cella vinaria. Quale sia questa cella vinaria tralascio qui di spiegarlo, perché mi ricordo di averlo già detto. Tuttavia se il discorso viene riferito alla Chiesa, quando i discepoli ripieni di Spirito Santo erano ritenuti dal popolo ubriachi di mosto, Pietro, quale amico dello Sposo, prendendo le difese della sposa alzatosi in mezzo ad essi disse: Costoro non sono ubriachi, come voi credete (At 2,15). Bada che egli non negò che fossero ebbri, ma che fossero ebbri come quelli li stimavano. Erano infatti si ebbri, ma di Spirito Santo, non di mosto. E quasi per dimostrare al popolo che in verità erano stati introdotti nella cella vinaria, Pietro risponde di nuovo per tutti: Accade invece quello che predisse il Profeta Gioele: negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. (At 2,16-17). Non ti sembra che sia stata una cella vinaria quella casa in cui i discepoli erano radunati insieme quando venne all’improvviso dal cielo un rombo come di vento che si abbatte gagliardo e riempi tutta la casa dove si trovavano (At 2,2) e adempì la profezia di Gioele? E ciascuno di loro non uscì forse ebbro dall’abbondanza di quella casa, avendo bevuto al torrente di tanta voluttà, e non poteva dire in verità: Mi ha introdotto nella cella vinaria?
3. Ma anche tu se con spirito raccolto, mente sobria e libera dalle vane sollecitudini, entri da solo nella casa dell’orazione, e stando davanti al Signore a uno degli altari, tocchi con la mano del santo desiderio la porta del cielo, e ammesso ai cori dei santi dalla tua penetrante devozione, poiché l’orazione del giusto penetra i cieli (Eccli 35,21), alla loro presenza deplori umilmente le miserie e le calamità a cui vai soggetto, con frequenti sospiri e gemiti inenarrabili esponi le tue necessità, implori pietà; se farai questo, dico, confido in colui che ha detto: Chiedete e riceverete (Gv 16,24) perché se persevererai nel bussare non te ne andrai vuoto. Ma quando tornerai a noi pieno di grazia e di carità, non potrai, essendo fervente di spirito, dissimulare il dono ricevuto, che comunicherai senza invidia, e sarai a tutti, nella grazia che ti è stata data, non solo gradito, ma oggetto di ammirazione, e potrai anche tu dire con verità: Mi ha introdotto nella cella vinaria. Solamente cerca di stare attento a non gloriarti in te stesso, ma nel Signore. Non direi che ogni dono, sia pure spirituale, venga dalla cella vinaria, dato che presso lo Sposo vi sono altre celle e dispense, che contengono in sé diversi doni e carismi, secondo le ricchezze della sua gloria: di questo mi ricordo di aver altrove ampiamente discusso. Non sono forse queste cose nascoste presso di me, sigillate nei miei forzieri? (Dt 32, 34). Dunque, secondo le diversità delle celle vi sono diverse specie di grazie, e a ciascuno si manifesta lo Spirito per l’utilità comune. E sebbene a uno venga concesso il linguaggio della sapienza, a un altro il linguaggio della scienza, a un altro il dono della profezia, a un altro il dono di far guarigioni, a un altro la varietà delle lingue, ad altri l’interpretazione delle lingue, e ad altri simili doni non potrà tuttavia uno di costoro dire per queste cose che fu introdotto nella cella vinaria. Difatti questi doni provengono da altre celle e tesori.
4. Ma se uno pregando ottiene di essere rapito in estasi contemplando qualche divino arcano, e subito ritorni in sé acceso da veemente amore, ardente di zelo per la giustizia, nonché ferventissimo in tutti gli studi spirituali e nell’esercizio delle sue mansioni, di modo che possa dire: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco (Sal 38,4); costui veramente quando avrà cominciato, per l’abbondanza della carità, a dare segni di una ubriachezza buona e salutare del vino di delizia, dimostrerà in verità di essere entrato nella cella vinaria. Sono due infatti le estasi della beata contemplazione, una nell’intelletto e l’altra nell’affetto, una nella luce, l’altra nel fervore, una nella cognizione, l’altra nella devozione; perciò l’affetto della pietà e il petto acceso d’amore e l’infusione della santa devozione, e anche lo spirito ripieno di ardente zelo, non si riportano da altrove che dalla cella vinaria. E a chiunque è dato di alzarsi dall’orazione con l’abbondanza di questi doni, può con verità dire: Il Re mi ha introdotto nella cella vinaria.
II. 5. Segue: Ha ordinato in me la carità (Cant 2,4). Cosa del tutto necessaria. Lo zelo, per esempio, diventa insopportabile senza la scienza. Dove dunque c’è una forte emulazione, là è massimamente necessaria la discrezione, che è l’ordine della carità. Lo zelo senza la scienza è sempre meno efficace e meno utile, molte volte anzi si rivela dannoso. Più dunque è fervente lo zelo e veemente lo spirito e più profusa è la carità, tanto maggiormente c’è bisogno di una scienza vigilante che contenga lo zelo, temperi lo spirito, ordini la canta Perciò la sposa per non essere considerata eccessiva e insopportabile per l’impeto dello spirito che sembra aver riportato uscendo dalla cella vinaria, specialmente dalle giovanette, aggiunge di aver anche ricevuto il dono della discrezione, cioè l’ordine della carità. La discrezione infatti mette ordine in ogni virtù, l’ordine conferisce la misura e il decoro, e anche la perpetuità. Cosi e detto: Per il tuo ordine sussiste il giorno (Sal 118,91), dove chiama «giorno» la virtù. È, dunque, la discrezione non tanto una virtù, quanto piuttosto una certa moderatrice e guida delle virtù, ordinatrice degli affetti e maestra dei costumi. Togli questa e la virtù diventerà vizio, e la stessa affezione naturale si cambierà piuttosto in perturbazione e sterminio della natura. Ordinò in me la carità. Questo si è compiuto quando nella Chiesa Dio ha stabilito alcuni come Apostoli, altri come Profeti, altri come Evangelisti, altri come pastori e maestri per la riunione di tutti i santi. Ma occorre che tutti questi sianô legati e associati da un’unica carità nell’unità del corpo di Cristo: e questo non lo potrà fare questa carità se non sarà ordinata. Se infatti ognuno si lascia trasportare dal suo impulso secondo lo Spirito che ha ricevuto, e indifferentemente si orienta a tutto ciò che vuole, secondo il capriccio e non secondo il giudizio della ragione, mentre nessuno si contenterà dell’ufficio assegnatogli, ma tutti senza discrezione cercheranno di mettere mano a ogni cosa, non vi sarà più unità, ma piuttosto confusione.
III. 6. Ha ordinato in me la carità. Oh, se il Signore Gesù ordinasse anche in me quel poco di carità che mi ha dato, di modo che cosi io mi preoccupi di tutte le cose che interessano lui, in modo però da curare anzitutto ciò che riguarda il mio dovere o il mio impegno; ma in realtà cosi prima questo che io sia maggiormente interessato a quelle altre molte cose che non mi riguardano in modo speciale. Non sempre infatti quello a cui prima si deve badare è quello che deve stare più a cuore, e spesso ciò che e prima oggetto di sollecitudine e meno utile e per questo deve avere meno importanza in ordine all’affetto. Spesso pertanto ciò che si mette al primo posto perché è comandato, viene giudicato meno importante dalla ragione, e quando la verità giudica che una cosa da preferirsi, l’ordine della carità impone di farla con più amore. Per esempio a me è comandato di aver cura di tutti voi. Ora, qualunque cosa io preferissi a questa incombenza che mi impedisca di vigilare nell’esecuzione di questo dovere e in modo tale da essere a. voi utile secondo le mie forze, anche se per caso agissi per motivi di carità, ciò non mi sarebbe consentito dall’ordine della ragione. Ma se io mi applico a questo compito prima che a ogni altra cosa, come e mio dovere, e non godo dei maggiori interessi di Dio che sento per caso realizzati per mezzo di un altro, è chiaro che in parte osservo e in parte no l’ordine della carità. Se invece io mi applico in modo speciale a ciò che è mio compito, e riservo un maggiore affetto a quello che è più importante, mi trovo ad avere in ogni caso mantenuto l’ordine, e nulla mi impedisce di dire anch’io: Ha ordinato in me la carità.
7. Se poi dici che. è difficile che uno goda più per un grande bene altrui che per uno proprio piccolo, osserva anche da questo l’eccellenza della grazia nella sposa, e come non tutte le anime possano dire: Ha ordinato in me la carità. Perché si sono fatte scure le facce di alcuni di voi a questo discorso? Lunghi sospiri indicano infatti la tristezza del vostro animo e l’abbattimento della vostra coscienza. In realtà se misuriamo noi stessi da noi, sentiamo come per alcuni di noi, come dimostra l’esperienza della nostra imperfezione, sia rara virtù non invidiare la virtù degli altri e invece piuttosto godere di essa, congratularsene più che non fosse propria, quando uno si vede superato nella virtù. Ancora poca luce abbiamo in noi, o fratelli, quanti abbiamo questi sentimenti.
IV. Camminiamo finché abbiamo la luce, affinché non ci sorprendano le tenebre. Camminare equivale a progredire. Camminava l’Apostolo che diceva:Non penso di essere già arrivato alla perfezione (Fil 13,13). E aggiunge: Questo soltanto so, dimentico del passato mi protendo verso il futuro. Questo soltanto so, come per indicare che gli è rimasta una cosa come rimedio, speranza, consolazione. Che cosa è questo? Dimentico del passato mi protendo verso il futuro. Grande fiducia, che il grande vaso di elezione non si ritiene perfetto e dice di progredire! Dunque il pericolo di essere sorpreso nelle tenebre della morte sta per chi è seduto, non per chi cammina. E chi è seduto se non colui che non si preoccupa di progredire? Guardati da questo, e se sarai sorpreso dalla morte sarai nel refrigerio. Dirai a Dio: Ancora imperfetto mi hanno visto i tuoi occhi (Sal 138,16) e nel tuo libro, tuttavia, tutti saranno scritti. Chi tutti? Certamente coloro che sono trovati desiderosi di progredire. Segue infatti: Saranno formati i giorni, e nessuno di essi,sottintendi: perirà. Per giorni intendi i proficienti, che se saranno sorpresi dalla morte saranno perfezionati in quello che loro manca: Saranno formati e nessuno di essi sarà lasciato informe.
8. «E come, dirai, io posso progredire se sono invidioso del fratello che progredisce»? Se soffri del fatto di essere invidioso, senti, ma non acconsenti. È una passione che un giorno guarirà, non un’azione degna di condanna. Solamente non fermartici sopra, meditando l’iniquità sul tuo giaciglio, in modo cioè da favorire la malattia, soddisfare la peste, perseguitare l’innocente dicendo male del bene da lui compiuto, deprimendolo, stravolgendolo e impedendo che faccia altro bene. Del resto non nuoce a chi cammina proteso verso cose migliori il fatto che non sia lui che opera, ma il fatto che abita in lui il peccato. Non c’è dunque condanna per colui che non fa servire le sue membra all’iniquità; non la lingua alla detrazione, né altro membro del suo corpo a danneggiare o nuocere in qualsiasi maniera, ma piuttosto si confonde dei cattivi sentimenti che prova confessando e piangendo il vizio inveterato, e cercando con la preghiera di liberarsene; e quando non ci riesce diventa più mite verso tutti, e più umile di fronte a se stesso. Quale sapiente condannerebbe un uomo sano che ha imparato dal Signore ad esser mite ed umile di cuore? E non è certamente malato chi si è fatto imitatore del Salvatore, Sposo della Chiesa, Signore nostro che è Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE L
I. La carità, qual è nell’affetto e quale è nell’atto, e su quale è data la legge; perché Dio comanda cose impossibili. II. Il triplice effetto della carne, della ragione e della sapienza; l’ordine trasposto della carità attuale. III. L’ordine della carità dell’affetto in base al quale ogni cosa ha il suo valore secondo quello che è.
I. 1. Voi forse vi aspettate che andiamo avanti nel commento del testo, pensando che sia finito quello sul versetto di cui abbiamo ultimamente parlato. Ma io penso ad altro; ho ancora da offrirvi dei frammenti del convito di ieri che avevo raccolto per me, affinché non andassero perduti. E andranno perduti se non li offrirò a nessuno. Perché, se vorrò tenerli per me solo, io perirò. Non voglio pertanto privare di essi il vostro appetito, che ben conosco, specialmente perché vengono dall’alimento della carità, tanto più gustosi quanto più fini, tanto più saporiti quanto più minuti. Diversamente sarebbe gravemente mancare alla carità il defraudare della stessa carità. Dunque sono qui: Ha ordinato in me la carità.
2. C’è la carità effettiva e quella affettiva. Circa la prima che consiste nelle opere penso sia stata data una legge agli uomini, e ci sia un preciso comandamento. Riguardo quella che è nell’affetto, chi ne possiede tanta quanto è comandata? La prima, dunque, è comandata per il merito, questa altra è data in premio. Non neghiamo che con la grazia di Dio si possa sperimentare l’inizio e il progresso nella presente vita, ma riserviamo la sua perfezione alla felicità futura. Come dunque potrebbe essere oggetto di comando quella che in nessun modo si può realizzare completamente? O se a te piace che sia stato dato un precetto per la carità affettiva, io non discuto, purché anche tu ammetta che questa da nessun uomo può essere praticata in questa vita nella sua perfezione. Chi infatti oserebbe arrogarsi quello che Paolo confessa di non aver raggiunto? Non sfuggì al Maestro che il peso del precetto eccedeva le forze degli uomini, ma giudicò utile ammonirli con il fatto stesso della sua insufficienza, affinché sapessero bene a quale perfezione della giustizia fosse necessario tendere, secondo le forze. Dunque, comandando cose impossibili non si rendono gli uomini prevaricatori, ma umili, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia soggetto a Dio, perché dalle opere della legge non sarà giustificato nessun uomo davanti a lui. Ricevendo dunque il comando, e sentendo la nostra deficienza, grideremo verso il cielo e Dio avrà misericordia di noi, e sapremo in quel giorno che egli ci ha salvato non per le opere di giustizia che noi avremo fatto, ma secondo la sua misericordia.
3. E questo direi nel caso che ammettiamo che sia stata data una legge circa la carità affettiva. Però questo sembra convenire piuttosto alla carità attiva, perché dopo aver detto: Amate i vostri nemici, il Signore ha aggiunto subito circa le opere: Fate del bene a quelli che vi odiano (Lc 6,27).
E così la Scrittura: Se il tuo nemico avrà fame dagli da mangiare, se avrà sete dagli da bere (Rm 12,20). Qui si parla di atti, non, di affetto. Ma senti anche il Signore che comanda circa l’amore di Lui: Se mi amate, osservate i miei comandi (Gv 14,15). Anche qui ci si rimanda alle opere con l’ingiunzione di osservare i comandamenti. Ora sarebbe stato superfluo ammonire di compiere le opere, se già ci fosse stata la dilezione dell’affetto. In questo senso devi pure prendere le parole con cui ti si comanda di amare il prossimo tuo come te stesso, sebbene non sia espresso così chiaramente. Non ti è forse sufficiente per adempiere questo comandamento dell’amore del prossimo osservare alla perfezione quello che è prescritto a ogni uomo secondo la legge di natura: Non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te (Tb 4,16). E così quell’altro: Fate agli altri tutte quelle cose che volete che gli uomini facciano a voi? (Mt 7,12).
4. E non, dico questo perché siamo senza affezione, e con cuore arido muoviamo solo le mani per operare. Ho letto tra gli altri grandi e gravi mali degli uomini, descritti dall’Apostolo, anche questo: senza affetto (Rm 1,31).
II. Ma c’è un affetto che proviene dalla carne, e ve n’è uno che è guidato dalla ragione, e ce n’è uno che produce la sapienza. La prima affezione quella che l’Apostolo dice che non è soggetta alla legge di Dio, né lo può essere; la seconda all’opposto è quella che descrive consenziente alla legge di Dio, perché è buona; e non c’è dubbio che c’è di stanza tra l’essere consenziente e l’essere opposta. La terza è molto distante dall’una e dall’altra, e questa gusta e sperimenta quanto è dolce il Signore che elimina la prima e rimunera la seconda. La prima infatti è dolce, ma turpe; la seconda è secca, ma forte; l’ultima è pingue e soave. Per la seconda, pertanto, si compiono le opere, e in essa la carità siede: non quella carità affettiva la quale, crescendo con il condimento del sale della sapienza porta alla mente la grande moltitudine delle dolcezze del Signore; ma piuttosto una certa carità attiva, la quale, anche se non ristora ancora soavemente con quel dolce amore, accende tuttavia fortemente dell’amore di lui. Non vogliate, dice, amare con le parole e con la lingua, ma con opere e verità (1 Gv 3,18).
5. Vedi come passa cautamente tra l’amore vizioso e l’affettuoso, distinguendo dall’uno e dall’altro questa carità fattiva e salutare. Né in questa dilezione riceve la finzione della lingua bugiarda, né esige il gusto che sperimenta la sapienza. Con le opere, dice, amiamo e con verità (1 Gv 3, 18): dobbiamo cioè muoverci a operare il bene più per impulso della viva verità che per affetto di quella saporosa carità. Ha ordinato in me la carità. Quale delle due? L’una e l’altra, ma con ordine opposto. Poiché l’attiva preferisce le cose inferiori, l’affettiva quelle superiori. Infatti: nella mente ben affezionata non vi è dubbio che l’amore di Dio sia da anteporre all’amore dell’uomo, e fra gli uomini i più perfetti siano da preferire ai più deboli, il cielo alla terra, l’eternità al tempo, l’anima al corpo. Tuttavia in una attività ben ordinata spesso, o anche sempre, si trova un ordine opposto. Così riguardo alla cura del prossimo, più ci sta vicino e più ce ne occupiamo, assistiamo con più diligente premura i fratelli più infermi; lavoriamo più per la pace in terra che per la gloria del cielo, per diritto di umanità e spinti dalla stessa necessità; la preoccupazione delle cure temporali a stento ci permette di pensare alle cose eterne; e ci occupiamo quasi di continuo delle infermità del nostro corpo, posponendo la cura dell’anima; e le stesse nostre membra più inferme, come dice l’Apostolo, circondiamo di più grande onore e rispetto, mettendo in atto con ciò in un certo modo il detto del Signore: Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi (Mt 20,16). Infine, chi dubita che parli con Dio un uomo che prega? E tuttavia quante volte da quel colloquio siamo distolti e strappati per ordine della carità, per andare da quelli che hanno bisogno della nostra opera o della nostra parola! Quante volte la pia quiete piamente cede ai tumulti degli affari! Quante volte con buona coscienza si mette da parte un libro per andare a faticare in un lavoro manuale! Quante volte per amministrare cose terrene, giustissimamente sospendiamo le stesse celebrazioni della S. Messa! Ordine a rovescio; ma la necessità non ha legge. La carità attiva dispone dunque il suo ordine secondo il comando del padre di famiglia, cominciando dagli ultimi, pia certamente e giusta, senza accettazione di persone, né considerando il valore delle cose, ma le necessità degli uomini.
6. Ma non così la canta affettiva: questa stabilisce il suo ordine cominciando dalle cose prime. È infatti sapienza, per la quale le cose hanno sapore secondo che sono, sicché per esempio quelle cose che la natura ha di più grandi anche la: stessa affezione sente maggiormente, di meno le minori, le minime minimamente. Nella carità attiva l’ordine è fatto dalla verità della carità; qui invece è riservato alla carità della verità. Infatti in questo sta la vera carità, che quelli che sono più bisognosi ricevano per primi; e di nuovo in questo appare rara la verità, se teniamo con l’affetto l’ordine che quella tiene con la ragione.
III. Ma tu se ami il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le tue forze, e con affetto più fervente sorpassi quell’amore di cui si contenta la carità attiva, e ti senti tutto acceso di quel divino amore, al quale questo fa da gradino, per aver ricevuto in pienezza lo Spirito, allora tu gusti veramente Dio, sebbene non del tutto come Egli è, il che è impossibile a ogni creatura, ma certamente per quanta è la tua capacità di gustarlo, In seguito gusterai anche tu stesso come sei, quando sentirai di non aver nulla in te che ti renda degno di amarti se non in quanto sei di Dio: in quanto tutto quello per cui tu ami lo hai effuso in lui. Ti gusterai come sei quando per la stessa esperienza dell’amore tuo e dell’affetto che avrai verso di te, troverai che tu non sei nulla che sia degno di essere amato da te se non per colui senza del quale tu sei niente.
7. E ora il prossimo che tu devi amare come te stesso, perché abbia per te sapore secondo quello che è, non avrà certo altro sapore che quello che tu senti per te. Se dunque tu non ti ami se non perché ami Dio, di conseguenza tutti quelli che similmente lo amano tu li ami, come te stesso. Pertanto un uomo nemico, che non è nulla per il fatto che non ama Dio, non puoi amarlo come te stesso che ami Dio. Non è la stessa cosa amare perché ami e amare perché ama. Pertanto affinché tu lo senta come è, lo gusterai non secondo quello che è, perché di fatto non è nulla, ma secondo quello che forse sarà in futuro, il che è vicino al nulla, in quanto è sospeso al dubbio. Che se fosse certo che non tornerà in seguito all’amore di Dio, allora necessariamente non ti saprà quasi di niente, ma niente affatto, perché in eterno non sarà nulla. Eccettuato questo che non solo non è più da amare, ma per di più è da odiare, secondo quel detto: Non odio forse, o Signore, quelli che ti odiano, e detesto i tuoi nemici (Sal 138,21)? per il resto a nessun uomo, anche se inimicissimo, la carità ambiziosa permette che venga negato un qualche affetto. Chi è sapiente e comprenderà queste cose?
8. Dammi un uomo che con tutto se stesso ami Dio sopra tutte le cose; e ami se stesso e il prossimo in quanto amano Dio; ami il nemico in quanto forse un giorno lo amerà anche lui; che ami i consanguinei con pii familiarità, secondo la natura; i suo maestri spirituali con più profusione per la grazia, e in questa maniera ami con un amore ordinato tutte le altre cose di Dio, disprezzando la terra, sospirando il cielo, usando di questo mondo come se non ne usasse, e che fra le cose di cui si serve e di cui fruisce discerne con un certo intimo sapore della mente le transitorie dalle eterne, e alle transitorie dà relativa importanza, e cura solamente ciò che è necessario e in quanto è tale, abbracciando con eterno desiderio le cose eterne, dammi un tale uomo, dico, e io ardisco di dichiararlo sapiente in quanto per lui tutte le cose hanno veramente sapore secondo quello che sono, e in verità e con sicurezza egli può gloriarsi e dire: Ha ordinato in me la carità. Ma dov’è quest’uomo, o quando si trovano queste cose? Lo dico piangendo: fino a quando odoriamo e non gustiamo, vedendo davanti a noi la patria senza raggiungerla, sospirando e salutandola da lontano? O Verità, patria degli esuli, fine dell’esilio! Ti vedo ma non mi si lascia entrare, trattenuto dalla carne, ma neanche degno di esservi ammesso, lordo Come sono di peccati. O Sapienza che ti estendi da un confine all’altro forte nel costituire e contenere le cose, e disponi tutte le cose con soavità nel suscitare e ordinare gli affetti! Dirigi i nostri atti come lo richiede la nostra temporale necessità, e disponi i nostri affetti come richiede la tua eterna verità, perché ognuno di noi possa con sicurezza gloriarsi in te e dire: Ha ordinato in me la carità. Tu sei infatti la forza di Dio e la sapienza di Dio, o Cristo Sposo della Chiesa e Signore nostro, Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LI
I. I fiori o i frutti di cui è ripiena la Chiesa e l’anima fedele. II. La sposa cerca di sostentarsi con la fede e le opere delle giovinette, perché lo sposo è assente. III. Quale sia la sinistra, quale la destra dello sposo e quali le conseguenze di questi nomi. IV. Quando la mente ha la sinistra sotto il suo capo, quando sopra; la speranza che è fra l’una e l’altra.
I. 1. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore (Cant 2,5). È cresciuto l’amore perché più numerosi del solito ne sono stati gli incentivi. Vedi infatti con quanta larghezza questa volta le sia stato concesso non solo di vedere ma anche di parlare con il diletto. Nella stessa visione che le è stata concessa egli le si è mostrato con volto più sereno, con parole più dolci, con discorsi più prolungati. Né solo ha goduto della sua conversazione, ma ha avuto motivo di gloriarsi delle sue lodi. Inoltre ha sperimentato il refrigerio della sua ombra, si è cibata del suo frutto, ha bevuto al suo calice. Non si può infatti pensare che sia uscita digiuna dalla cella vinaria, nella quale si vanta di essere stata ultimamente introdotta; ma assetata si, perché chi beve ne avrà ancora sete (Eccli 24,29). Dopo tutte queste cose, andatosene, come di solito, lo Sposo, essa si mostra languente di amore, cioè a causa dell’amore. Quanto più dolce aveva provato la sua presenza, tanto più sentiva molesta ora la sua assenza. La sottrazione della cosa che ami, infatti, ne fa crescere il desiderio, e più ardente è il desiderio, tanto più ne soffri la mancanza. Prega perciò la sposa di essere confortata dai profumi dei fiori e dei frutti, fino a che ritorni colui la cui assenza le è oltremodo molesta. Questo è il filo del racconto.
2. Ora tentiamo di cavarne il frutto spirituale che vi si nasconde, con la guida dello Spirito. E se è la comune Chiesa dei santi che qui si sente parlare, nei fiori e nei frutti siamo designati noi e tutti coloro che in tutto il mondo si sono convertiti dal mondo. Nei fiori viene mostrata la novella e ancora tenera vita degli incipienti, nei frutti la fortezza dei proficienti e la maturità dei perfetti. Da questi circondata la madre gravida e fruttificante, per la quale vivere è Cristo e morire un guadagno, sopporta con grande pazienza la pena del suo tardare, perché secondo la Scrittura le viene dato del frutto delle sue mani, come da primizie dello Spirito, e la lodano in pubblico le sue opere. Se invece, secondo il senso morale, vuoi applicare queste due cose a una singola anima, i fiori cioè e i frutti, puoi intendere per fiori la fede e per frutti le opere. E non senza ragione, penso io, pensi in questo modo se, come fiore che precede il frutto, così bisogna che la fede preceda le buone opere. Diversamente, senza fede è impossibile piacere a Dio, come dice San Paolo, il quale dice di più: Tutto quello che non viene dalla fede è peccato (Rm 14,23). Pertanto, né c’è frutto senza fiore, né senza fede vi è opera buona. Ma anche la fede senza le opere è morta, come appare inutile il fiore a cui non tiene dietro il frutto. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore. Dunque, dalle buone opere radicate in una fede sincera, riceve conforto l’anima abituata alla quiete ogni volta che le viene sottratta, come suole accadere, la luce della contemplazione. Chi mai infatti, non dico di continuo, ma a lungo, fino a che è in questo corpo, può godere della luce della contemplazione? Ma ogni volta che cade, come ho detto, dalla contemplazione, sempre ritorna alla vita attiva, per ritornare di qui, come da vicino, più familiarmente, allo stesso punto, perché queste due cose sono compagne e abitano insieme: Marta cioè è sorella di Maria. E anche se scende dalla luce della contemplazione, non si lascia cadere nelle tenebre del peccato o nell’ignavia dell’ozio, ma si trattiene nella luce delle buone opere. E perché tu sappia che anche le opere buone sono luce, dice: Splenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5,16): il che senza dubbio è stato detto delle opere che gli uomini potevano vedere.
II. 3. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore. Quando è vicino colui che si ama l’amore vive, languisce quando chi si ama è lontano. E questo altro non è che un certo tedio del desiderio impaziente dal quale e necessariamente presa l’anima di chi ama fortemente quando l’oggetto del suo amore è assente; mentre, tutta protesa nell’aspettativa sente come un ritardo anche l’affrettarsi. E perciò chiede di essere circondata da un cumulo di frutti di buone opere con i profumi della fede, tra i quali, tardando lo Sposo, nel frattempo riposa. Dico a voi la mia esperienza. Se talvolta ho appreso che qualcuno di voi, da me esortato, aveva fatto dei progressi, allora non mi è rincresciuto di aver preferito, lo confesso, la fatica dei discorsi al mio riposo e alla mia quiete. Quando per esempio, dopo un sermone, un tipo iracondo si trova mutato in mite, un superbo in umile, un pusillanime in forte; e chi è mite, umile e forte è cresciuto, ognuno nella sua grazia, e si riconosce diventato migliore di prima; così chi forse si era intiepidito e languiva nella vita spirituale, e gli intorpiditi e i sonnolenti, se all’infuocata parola del Signore pare si siano infervorati e svegliati; e se coloro che, abbandonata la fonte della sapienza, si erano scavate le cisterne della volontà propria che sono incapaci di contenere acqua, per cui a ogni comando, come si sentissero schiacciati da un peso, con cuore arido mormoravano, non avendo in sé nessun umore di devozione: se tutti costoro, dico, ricevuta la rugiada della parola e la pioggia abbondante mandata da Dio al suo popolo, dimostrano di aver rifiorito nelle opere dell’obbedienza, divenuti in tutto ossequienti e devoti, allora vi dico, non ha più motivo di tristezza la mia mente per l’interrotta applicazione alla gioiosa contemplazione, dal momento che mi trovo circondato da tanti fiori e frutti di pietà. Sopporto con pazienza di venire strappato agli amplessi dell’infeconda Rachele, quando mi trovo tra l’abbondante frutto dei vostri profitti. Non rimpiangerò affatto di aver interrotto la quiete della contemplazione per preparare i miei sermoni quando vedrò germogliare in voi il mio seme e crescere i frutti della vostra giustizia. La carità, infatti, che non cerca l’interesse proprio, mi ha già da molto tempo facilmente persuaso di questo, cioè di non preferire nessuna delle cose che io desidero ai vostri interessi.
Pregare, leggere, scrivere, meditare, e tutte le altre, cose che interessano la vita interiore, tutto ho considerato come una perdita per voi.
4. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore. Queste cose ha dunque dette la sposa alle giovanette in assenza dello Sposo, ammonendole a progredire nella fede e nelle opere buone, fino a che egli ritorni, comprendendo che in questo vi è e il beneplacito dello Sposo e la loro stessa ,salvezza e in più la sua propria consolazione. So di aver spiegato più a fondo questo passo nel libro dell’amore di Dio e sotto un altro aspetto, se migliore o peggiore lo giudichi il lettore, se qualcuno vorrà vederli tutti e due. Non sarò certamente giudicato da un uomo prudente riguardo ai diversi sensi, purché sia in nostro favore da una parte e dall’altra la verità, e la carità, alla quale le Scritture devono servire, porti edificazione a tante più persone quanti più saranno i sensi veri che da esse nel suo lavoro ricaverà. Perché poi dovrebbe dispiacere nei sensi della Sacra Scrittura ciò che sperimentiamo ogni giorno e continuamente nell’uso delle cose? A quanti usi del nostro corpo, per portare un esempio, viene impiegata la, sola acqua? Così una sola frase della Parola di Dio non è strano che abbia diversi sensi, adattabili alle diverse necessità e usanze delle anime.
III. 5. Segue: La sua sinistra è sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccerà (Cant 2,6). Anche su questo passo nel predetto opuscolo [De diligendoDeo] ricordo di aver parlato diffusamente; ma manteniamo l’ordine del discorso. È chiaro che lo Sposo è di nuovo presente, penso per rinfrancare con la sua presenza la sposa languente. Come non si sentirà ristabilita alla sua presenza, lei che si era abbattuta per la sua assenza? Dunque, Io Sposo non può sopportare che la sua diletta sia in angustia; è già lì; non può infatti tardare quando è chiamato da così intensi desideri. E anche perché ha saputo che per tutto il tempo della sua assenza, la sposa è rimasta fedele nel compiere le buone opere e sollecita nel progredire, per il fatto cioè che aveva chiesto di ammassare attorno a sé fiori e frutti. Per questo è tornato questa volta con una più ricca ricompensa di grazia. Ecco, con un braccio sostiene il capo della diletta che giace, e prepara l’altro per abbracciarla e stringerla al cuore. Felice l’anima che si adagia sul petto di Cristo e riposa tra le braccia del Verbo! La sua sinistra sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccerà. Non dice: «Mi abbraccia», ma mi abbraccerà, perché tu sappia che, non ingrata per la prima grazia, previene la seconda con il ringraziamento.
6. Impara a non essere tardo o fiacco nel ringraziare, impara a mostrarti riconoscente a ogni singolo dono. Considera, dice, con diligenza le cose che ti vengono servite (Pr 23,1) affinché nessuno dei doni di Dio sia privo del dovuto ringraziamento, sia che, si tratti di doni grandi, mediocri o anche piccolissimi. Ci viene comandato di raccogliere i frammenti perché non vadano perduti, vale a dire che non dobbiamo dimenticarci neppure dei minimi benefici. Non è forse perduto ciò che si dona a un ingrato? L’ingratitudine è nemica dell’anima, rende vani i meriti, disperde le virtù, fa perdere i benefici. L’ingratitudine è un vento bruciante, che dissecca per sé la fonte della pietà, la rugiada della misericordia, il flusso della grazia. Per questo la sposa, non appena ha sentito la grazia della mano sinistra dello Sposo, ha reso grazie, senza aspettare la pienezza che è nella destra. Né quando si è, ricordata che la sinistra già era sotto il suo capo si dichiarò similmente abbracciata dalla destra ma disse: Mi abbraccerà.
7. Del resto, che cosa pensiamo che sia per il Verbo la «sinistra» e la «destra»? Forse che ciò che si dice parola dell’uomo ha queste parti corporee divise tra sé e lineamenti distinti che distinguono tra destra e sinistra? Quanto più colui che è Dio e parola di Dio non ammette affatto tale varietà, ma è colui che è, cioè tanto semplice nella sua natura da non avere parti, così unico da non ammettere numeri. È infatti la Sapienza di Dio, della quale è scritto: E della sua sapienza non vi è numero (Sal 146,5). Ma se una cosa è invariabile, questa è incomprensibile, e per ciò stesso ineffabile, necessariamente: dove, prego, troveresti parole per descrivere degnamente e descrivere propriamente quella maestà? E tuttavia diciamo in qualche modo di essa quello che in qualche modo sentiamo, per rivelazione dello Spirito Santo, di essa. Sappiamo dall’autorità dei Padri e dalla consuetudine delle Scritture che è lecito prendere delle similitudini; adatte dalle cose che conosciamo, e prendere a prestito parole conosciute, senza cercarne delle nuove, con le quali vengano rivestite congruamente e convenientemente le medesime similitudini. Diversamente sarebbe ridicola cosa insegnare cose ignote per mezzo di cose ignote.
8. Dunque, poiché si è soliti per destra e sinistra significare le cose avverse e quelle prospere, mi sembra che in questo luogo la «sinistra» stia a significare la minaccia del supplizio, e la «destra» invece la promessa del regno.
IV. Ora, vi e un momento in cui la nostra mente e premuta servilmente dal timore della pena; e allora si deve dire che la sinistra non è affatto sotto il capo, ma sopra il capo, né può l’anima che e in tali disposizioni dire in alcun modo: La sua sinistra è sotto il mio capo. Ma se progredendo da questo spirito di servitù sarà passata a un sentimento più degno di spontaneo ossequio, in quanto cioè sia provocata più dai premi che non stimolata dai supplizi, e ancor più se sia condotta dall’amore dello stesso bene, allora senza dubbio potrà dire: La sua sinistra è sotto il mio capo; in quanto ha superato con una migliore e più eccellente disposizione dell’animo quel timore servile che è significato nella sinistra, e con degni desideri si è avvicinata anche alla stessa destra che rappresenta le promesse secondo quello che il Profeta dice al Signore: Dolcezza senza fine alla tua destra (Sal 15,11). Per questo, concepita speranza, dice con fiducia: E la sua destra mi abbraccerà.
9. Tu vedi già ormai con me come a colei che ha bramato e ottenuto un posto tanto soave convenga anche applicarsi quel passo del Salmo che fa dire anche a lei: In pace con lui mi corico e mi addormento, (Sal 4,9) specialmente perché ne dà il seguente motivo: Perché tu solo, Signore, mi hai stabilito nella speranza (Sal 4,10). Ed è proprio così. Fino a che uno è spinto dallo spirito di servitù, ha poca speranza, molto timore, non ha pace né requie e la sua coscienza si dibatte tra la speranza e il timore, e massimamente perché soffre maggiormente per il timore della sovraeccellenza, giacché il timore ha la pena (1 Gv 4,18). E perciò non compete a lui dire: In pace con lui mi corico e mi addormento, dal momento che non è neppure in grado di affermare di essere stato stabilito nella speranza. Del resto se, poco alla volta, aumentando la grazia comincerà a diminuire il timore e a progredire la speranza, quando si sarà giunti al punto che la perfetta carità caccia fuori il timore, allora non apparirà una tale anima singolarmente costituita nella speranza, e potrà quindi anche in pace con lui dormire e riposare?
10. Mentre voi dormite tra gli olivi, dice, splendono d’argento le ali della colomba (Sal 67,14). Questo io penso sia stato detto perché c’è un luogo tra il timore e la sicurezza come tra la sinistra e la destra, cioè la speranza che sta nel mezzo, nella quale la mente e la coscienza, stesovi sotto il soffice strato della carità, soavissimamente riposa. E forse nel seguito di questo stesso cantico è designato questo passo dove, nella descrizione del cocchio di Salomone, tra le altre cose si dice: Nel mezzo ha steso la carità per le figlie di Gerusalemme (Cant 3,9-10). Poiché chi si sente stabilito nella speranza non serve più ormai nel timore, ma riposa nella carità. Infine riposa e dorme la sposa, per la quale viene detto: Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle, e le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia (Cant 2,7). Grande e stupenda degnazione che fa riposare l’anima in contemplazione sul suo petto, e inoltre la difende dalle preoccupazioni nocive, e la protegge dalle attività inquietanti e dalle molestie degli affari, né vuole che sia svegliata se non quando essa vuole. Ma questo tema è da affrontare non nelle strettezze di un sermone che sta per finire; piuttosto di qui se ne cominci un altro, perché non manchi la debita diligenza nell’esporre questo dolce passo. Non che, neppure allora, da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, specialmente in una materia così nobile ed eccellente e del tutto sovraeminente, ma la nostra capacità viene da Dio (2 Cor 3,5) dallo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LII
I. Coerenza della espressione di cui si dice: «Vi giuro, ecc.», espressione della divina degnazione riguardo all’anima. II. Qual è il sonno della sposa, dal quale lo sposo non vuole che la si risvegli. III. Quale estasi soprattutto si chiama contemplazione. IV. Chi siano le capre o i cervi dei campi, e l’esortazione delle fanciulle a non disturbare per un motivo futile la diletta.
I. 1. Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e le cerve dei campi, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia(Cant 2,7). Si proibisce alle giovinette, queste infatti chiama figlie di Gerusalemme, perché anche se delicate e molli e quasi ancora inferme per gli affetti e le azioni femminee, aderiscono tuttavia alla sposa con la speranza di progredire e di andare a Gerusalemme. Si vieta loro dunque di disturbare la sposa che dorme, perché contro la sua volontà non osino affatto svegliarla. Per questo infatti il dolcissimo sposo ha posto la mano sinistra sotto il capo, secondo quanto è stato già detto, per farla riposare e dormire nel suo seno. E ora, come prosegue la Scrittura, egli stesso come suo custode, con somma degnazione e benevolenza veglia su di lei, perché non sia costretta a svegliarsi disturbata dalle frequenti e minute necessità delle giovinette. Questo è il decorso letterale del testo. Se non che quello scongiuro fatto per le gazzelle e le cerve dei campi non sembra affatto avere una ragione di stare lî secondo il filo letterale del discorso: perciò tutto il motivo di queste parole sta nel loro senso spirituale. Ma qualunque esso sia, intanto è cosa buona per noi stare qui (Mt 17,4) e scrutare un poco la bontà della divina natura, la sua soavità, la sua degnazione. Che cosa mai infatti tu, uomo, hai sperimentato negli umani affetti di più dolce di quello che ora ti viene espresso del cuore dell’Altissimo? E ti viene espresso da colui che scruta le profondità di Dio, e non può ignorare ciò che vi è in lui, perché è il suo Spirito, né può affatto dire se non quello che ha visto presso di lui, perché è lo Spirito di verità.
2. E poi non mancano neanche tra di noi quei felici che hanno meritato di essere rallegrati di questo dono, e così in se stessi hanno fatto esperienza di questo soavissimo arcano; ma non screditiamo il passo della Scrittura che abbiamo tra le mani, dove apertamente viene descritto lo Sposo celeste oltremodo zelante per il riposo di una certa sua diletta, sollecito nel tenerla addormentata tra le sue braccia, perché non sia disturbata da qualche molestia o inquietudine nel suo dolcissimo sonno. Non sto in me stesso dalla gioia per il fatto che quella maestà non disdegna di chinarsi sulla nostra infermità con una unione così familiare e dolce, e la superna Deità non ha difficoltà a stabilire un connubio con un’anima ancora esule e a manifestarle l’affetto di uno Sposo preso da ardentissimo amore. Così, così non dubito sia in cielo, come leggo sulla terra, e sentirà certamente l’anima ciò che contiene la pagina, se non che questa non è in grado di esprimere totalmente quanto quella allora potrà comprendere e neppure ora può capire. Che cosa pensi che potrà allora ricevere quella che fin da quaggiù è favorita da tanta familiarità da sentirsi stretta dalle braccia di Dio, riscaldata dal seno di Dio, custodita dalla cura e dall’amore di Dio, perché nel sonno non sia disturbata da qualcuno, fino a che da sé si risvegli?
II. 3. Ma su, è tempo che diciamo, se possiamo, di che specie sia quel sonno di cui lo Sposo vuole che la sua delicata diletta dorma, e dal quale non sopporta che sia riscossa, se, non quando essa lo vuole; perché non accada che qualcuno, leggendo quanto scrive l’Apostolo: È ormai tempo di svegliarvi dal sonno (Rm 13,11), la preghiera che fa il Profeta perché Dio illumini i suoi occhi perché non si addormenti mai nella morte (Sal 12,4), resti turbato dall’equivoco dei nomi, e non sappia come pensare degnamente del sonno della sposa di cui si parla in questo passo. E non è simile a questo neppure quello di cui parla il Signore nel Vangelo a proposito di Lazzaro: Lazzaro, il nostro amico, dorme; andiamo a svegliarlo dal sonno (Gv 11,11). Questo infatti diceva della sua morte corporale, mentre i discepoli lo intendevano del sonno naturale. Ora, questo della sposa non è un sonno consistente nel dormire, o placido, dove i sensi carnali restano soavemente assopiti per un certo tempo, oppure orrido, che distrugge totalmente la vita; e molto di più differisce il sonno della sposa da quel dormire per cui ci si addormenta nella morte, quando si persevera irrevocabilmente nel peccato mortale. Ma piuttosto il vitale e vigile sopore di costei illumina il senso interiore, e cacciata la morte, dona la vita sempiterna. È in realtà un sonno che tuttavia non assopisce i sensi, ma li rende assenti. È anche una morte e non esito a dirlo, perché l’Apostolo, lodando alcuni che ancora vivevano nella carne, così dice loro: Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3).
4. Pertanto, anch’io chiamerei non a torto l’estasi della sposa una morte, che non strappa alla vita ma ai lacci della vita, perché possa dire: La nostra anima è stata liberata come un uccello dai lacci dei cacciatori (Sal 123,7). In questa vita, infatti, si cammina in mezzo ai lacci, dei quali non si ha timore tutte le volte che l’anima viene come strappata a se stessa da qualche santo e forte pensiero, se tuttavia la mente talmente si assenti o si elevi da oltrepassare questo nostro comune e usuale modo di pensare.; difatti: Invano si tende la rete sotto gli occhi di chi è fornito di ali (Pr 1,17). Come si temerebbe la lussuria dove non si sente neppure la vita? Andando invero l’anima in estasi esce, se non dalla vita, dai sensi della vita, per cui è inevitabile che non senta neppure le tentazioni della vita. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo? (Sal 54,7). Voglia Iddio che io muoia spesso di questa morte perché io sfugga ai lacci di morte, perché io non senta gli allettamenti mortiferi di una vita lussuriosa, perché sia insensibile al senso della libidine, all’ardore dell’avarizia, alla pressione delle sollecitudini, alla molestia degli affari! Muoia l’anima mia della morte dei giusti, affinché non resti irretito da alcuna ingiustizia, affascinato da alcuna iniquità. Buona morte quella che non toglie la vita, ma la trasferisce in meglio: buona morte quella per cui non cade il corpo ma l’anima viene sollevata.
5. Ma questo riguarda gli uomini. Muoia anche l’anima mia, se così si può dire, della morte degli angeli, perché elevandosi sopra la memoria delle cose presenti, si spogli non solo della cupidigia delle cose inferiori a sé e corporee, ma anche delle loro immagini, e così si trattenga puramente con essi dei quali imita la purezza.
III. Tale estasi, penso, sola o soprattutto si chiama contemplazione. Non sentirsi legato dalle cupidigie nella vita appartiene all’umana virtù; nel meditare il non essere avvolto da immagini corporali appartiene all’angelica purità. Ma è dono di Dio l’uno e l’altro. L’uno e l’altro essere rapito, trascendere te stesso, ma uno lontano, l’altro non molto. Beato chi può dire: Ecco mi sono allontanato fuggendo e mi fermai nella solitudine (Sal 54,8). Non si contentò di uscire, ma volle fuggire lontano da sé per poter riposare. Hai oltrepassato le lusinghe, della carne per non obbedire più ormai alle sue concupiscenze, né essere impastoiato dalle lusinghe delle passioni; hai progredito, ti sei separato da te, ma non sei ancora andato lontano se non riesci a trasvolare con una mente pura i fantasmi delle immagini corporee che irrompono da ogni parte. Fino a qui non ti promettere il riposo. Sbagli se pensi di trovare al di qua un luogo di riposo, una solitudine segreta, una luce serena, una dimora di pace. Ma dammi uno che sia arrivato là: subito lo vedo riposare, tale da poter dire: Ritorna, anima mia alla tua pace, perché il Signore ti ha beneficato (Sal 114,7). Qui veramente è il posto nella solitudine, e l’abitazione nella luce, davvero, secondo il Profeta, tabernacolo per il giorno che ripara il caldo, e ripara con sicurezza dal turbine e dalla pioggia, del quale anche il santo Davide dice: Mi ha nascosto nella sua tenda nel giorno della sventura, mi ha nascosto nel segreto della sua dimora (Sal 26,5).
6. Pensa dunque che la sposa si sia ritirata in questa solitudine, e qui per l’amenità del posto, si sia addormentata dolcemente tra gli abbracci dello Sposo, in altre parole, sia andata in estasi. Perciò le giovinette hanno avuto l’ordine di non svegliarla fino a che essa non lo voglia. Ma questo come?
IV. Non hanno infatti avuto un comando o una leggera ammonizione, come si suole fare, ma con una proibizione affatto nuova e inconsueta, per le gazzelle e le cerve dei campi. Con questo genere di fiere mi sembrano abbastanza bene espresse le anime sante spoglie dei loro corpi, e insieme gli Angeli che sono con Dio, a causa dell’acutezza della vista e della celerità della corsa. Queste due cose competono sia alle anime che agli Angeli, come sappiamo; facilmente infatti raggiungono la sommità e penetrano nell’intimo. Anche la loro vita descritta nei campi li indica liberi e sciolti nella contemplazione. Che cosa significa dunque lo scongiuro per questi? Certamente perché le inquiete giovanette non ardiscano per cose da nulla distogliere la diletta da così venerando consesso, al quale senza dubbio viene associata ogni volta che nella contemplazione va in estasi. E bene vengono spaventate adducendo la loro autorità, perché sanno che la loro importunità le priva della loro società. Badino le giovinette a chi recano offesa quando disturbano la madre, e non contino affatto sulla carità della madre, in modo che temano far irruzione in quel celeste consesso senza una grande necessità. Sappiano che così fanno quando disturbano più di quanto sia giusto l’anima che riposa nella contemplazione. Ed è lasciato alla sua volontà sia il badare a sé, sia attendere alle loro faccende, secondo che avrà giudicato opportuno, poiché alle giovinette è vietato di svegliarla finché essa lo voglia. Conosce lo Sposo di quanta carità la sposa sia piena anche verso il prossimo, e che come madre è molto sollecita per il profitto delle figlie, e che, non si sottrarrà né si negherà loro per nessuna ragione quanto e tutte le volte che sarà necessario; e per questo ha affidato sicuro alla sua discrezione questi interventi. Non è infatti come quei molti che vediamo bollati dal Profeta, che prendendo per sé quello che è grasso rigettano ciò che è debole (Ez 34,3). Forse il medico cerca quelli che stanno bene e non piuttosto i malati, e se capita si comporterà forse più da amico che da medico. A chi insegnerai, maestro buono, se scaccerai tutti gli ignoranti? Chi formerai, di grazia, all’amore della disciplina, se allontanerai tutti gli indisciplinati, o fuggirai da essi? In chi, ti prego, mostrerai la tua pazienza, se accetterai soltanto i mansueti, escludendo gli irrequieti?
7. Vi sono tuttavia tra quelli che siedono qui, di quelli che farebbero bene a osservare con più attenzione questo capitolo. Imparerebbero certamente quanta riverenza si debba ai superiori, inquietando temerariamente i quali si rendono contrari anche i cittadini del cielo, e comincerebbero forse ad essere un pochino più indulgenti del solito con noi, né reclamerebbero irriverentemente o con leggerezza quando ci dedichiamo alla contemplazione. È raro il tempo che mi è lasciato libero per la preghiera, come sanno bene, dalle cure esterne che premono, anche nel caso che essi mi sopportino con grande pazienza. Ma io mi sfogo con questo lamento con molto scrupolo, nel timore che vi sia qualche pusillanime che, oltre i limiti della propria pazienza, dissimuli le sue necessità, non osando disturbarmi. Mi fermo qui anche perché io non sembri dare piuttosto esempio di impazienza ai deboli. Sono i piccoli del Signore, che credono in lui; non voglio che patiscano scandalo per causa mia. Non userò di questo potere: essi piuttosto usino di me a loro piacimento; purché si salvino. Mi faranno cosa gradita se non mi risparmieranno, e in questo troverò il mio riposo se non avranno timore di disturbarmi per le loro necessità. Farò loro interesse finché potrò, e in essi servirò il mio Dio finché vivrò, in una carità sincera. Non cercherò il mio interesse, non ciò che è utile a me, ma quello che lo e a molti giudicherò utile anche a me. Questo solo chiedo, che il mio ministero sia ad essi accetto e fruttuoso, perché nel giorno cattivo trovi per questo misericordia agli occhi del loro Padre, e insieme dello Sposo della Chiesa Gesù, Cristo nostro: Signore, che con lui è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli.
SERMONE LIII
I. In che senso si dice: «La voce del diletto»; l’udito precede la vista. II. Quali sono i monti o i colli sui quali lo sposo sale o va saltando. III. Come i monti siano la stessa cosa che le pecore, cioè i cittadini del cielo. IV. Quali sono i salti dello sposo, con i quali sale o va saltando.
I. 1. Voce del mio diletto (Cant 2,8). Vedendo la sposa la nuova verecondia e il timore delle giovanette, che cioè stranamente avessero cominciato a non osare intromettersi nel suo santo riposo, né come facevano di solito prima, osassero disturbarla mentre era nel riposo della contemplazione, riconosce che questo è l’effetto della cura sollecita dello Sposo; esultando nello spirito sia per il loro progresso, poiché le vede corrette dalla loro eccessiva e vana inquietudine, sia perché si sente più libera in futuro di godere del suo riposo, sia anche per la degnazione e favore del suo Sposo, così zelante per la sua quiete, e che con tanto amore ha preso le difese dei suoi soavissimi, anzi, ferventissimi ozi, dice che tutto questo è effetto della voce del diletto suo, che egli per questo appunto ha rivolto alle giovanette. Infatti colui che con sollecitudine sta al comando, mai o raramente attende con sicurezza a se stesso, mentre sempre sta con il timore di non darsi abbastanza ai sudditi, e di non piacere a Dio per il fatto di preferire la dolcezza della propria quieta contemplazione all’utilità comune. Talora a chi si trova in questo soave riposo arriva una non piccola gioia e sicurezza, quando cioè da un certo timore e riverenza verso di sé, immesso da Dio nel cuore dei sudditi, viene a capire che a Dio piace il suo riposo, perché fa in modo che i sudditi preferiscano sopportare le loro necessità con pace piuttosto che disturbare temerariamente i graditi ozi del padre spirituale. La giusta trepidazione infatti dei pargoli: indica chiaramente che essi hanno udito di dentro una voce quasi minacciosa che li sgridava, la voce, senza dubbio, di colui che dice per mezzo del Profeta: Sono io che parlo con giustizia (Is 63,1). È voce di lui la sua ispirazione, l’infusione del suo timore.
2. Udita dunque questa voce, la sposa piena di gioia e di esultanza esclama: È la voce del mio diletto. Essa è l’amica e gioisce grandemente per la voce dello Sposo. E aggiunge: Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline (Cant 2,8). Conosciuta, per averne udita la voce, la presenza dello Sposo, subito fissa bene gli occhi curiosi per vedere colui che aveva udito. L’udito conduce alla vista: la fede viene dall’udito, e per essa vengono mondati i cuori perché possa vedersi Dio; così infatti è scritto: Purificando con la fede i cuori (At 15,9). Vede dunque venire colui che aveva udito parlare, osservando anche qui lo Spirito Santo quell’ordine che presso il profeta è così descritto: Ascolta, o figlia, e vedi (Sal 44,11). E perché si noti con più certezza che non a caso né senza ragione, ma di proposito e con ragione (quella ragione che prima abbiamo addotta) in questo passo si pone l’udito prima della vista, guarda come questo stesso ordine si trova osservato da quel santo che dice a Dio: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono (Gb 42,5). Ma anche dove si racconta come lo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste discese sugli Apostoli, non si dice forse che l’udito ha prevenuto la vista? Si dice infatti: Venne all’improvviso dal cielo un rombo come di vento che si abbatte gagliardo; e più sotto: Apparvero loro lingue come di fuoco (At 2,2-3). Anche qui dunque si dice che prima l’udito ha percepito la venuta dello Spirito Santo; e poi la vista. E di questo basti, perché anche voi, se volete ricercare su questo argomento, potrete trovare in altri passi della Sacra Scrittura cose del genere.
II. 3. Ma ora consideriamo quella cosa che richiede una più diligente ricerca, ed è assai difficile a comprendersi, per cui ho assolutamente bisogno, lo confesso, dell’aiuto dello Spirito Santo, perché possa mettere induce quali siano quei monti o quelle colline sulle quali la Chiesa ha contemplato con felice visione salire e saltare lo Sposo, credo quando veniva per operare la redenzione di colei della quale aveva anche desiderato la bellezza. Io penserei in questo modo, e senza incertezze perché trovo qualcosa di simile nel Profeta, dove questi evidentemente, sotto l’azione dello Spirito, prevede e descrive l’avvento del Salvatore. Nel sole ha posto la sua tenda, ed egli come Sposo che esce dalla stanza nuziale, esulta come un prode che percorre la via: egli sorge da un estremo del cielo, e la sua corsa raggiunge l’altro estremo (Sal 18,6-7). Questa corsa e questa rincorsa è conosciutissima; ed è pure molto noto da chi fu iniziata e terminata. Che dunque? Ci dipingeremo, leggendo queste cose sia nel Salmo sia nel presente Cantico, un uomo gigante, di alta statura, preso d’amore per una certa donnetta assente, e mentre si affretta ai desiderati amplessi, sorpassa questi monti e queste colline che vediamo innalzarsi a tanta altezza con la loro mole materiale sopra le pianure della terra, e di cui alcuni innalzano le loro vette fin sopra le nubi! Ma non è cosa decente fermarsi su immaginazioni corporee del genere, specialmente trattandosi qui di un cantico spirituale; e questo non è neppure lecito a noi che ricordiamo di avere letto nel Vangelo che Dio è spirito e che coloro che lo adorano lo devono adorare nello spirito (Gv 4,24).
4. Chi sono pertanto quei monti e colli spirituali, perché poi conseguentemente li conosciamo e quali salti lo Sposo, che è Dio, e perciò spirito, faceva in essi e sopra di essi, e di che specie? Se pensiamo che siano quei monti sui quali il Vangelo riferisce che una volta furono lasciate le novantanove pecore, mentre il loro Pastore è venuto sulla terra a cercare quella che si era perduta, la cosa rimane ancora oscura, e non si capacita l’intelletto, dato che non è facile trovare quelle spirituali e sopracelesti beatitudini, quali sono certamente le pecore che,là hanno dimorato, quali monti e quali colli similmente spirituali e di che natura abbiano per abitazione o per pascolare in essi. Tuttavia se non esistessero la Verità non ne avrebbe parlato. E neppure il Profeta, molto tempo prima avrebbe detto della suprema città Gerusalemme che le sue fondamenta sono sui monti santi (Sal 86,1), se veramente là non vi fossero dei monti santi.
Infine, che quella celeste abitazione abbia dei monti e dei colli spirituali non solo, ma vivi e ragionevoli, sentilo da Isaia: I monti e le colline canteranno lodi davanti a Dio (Is 55,12).
5. Chi pertanto sono questi se non gli stessi spiriti che abitano nei cieli, che la voce del Signore abbiamo detto chiamare pecore, di modo che sono la stessa cosa i monti e le pecore, a meno che in modo assurdo si voglia significare che i monti pascolano sui monti e le pecore nelle pecore.
III. E secondo la lettera il senso suona duro; secondo lo Spirito invece il senso suona dolce se avvertiamo sottilmente come il Pastore di entrambi i greggi, cioè Cristo Sapienza di Dio provvede un solo e medesimo pascolo di verità in modo diverso ai greggi celesti e a quelli della terra. Noi infatti uomini mortali, finché siamo nel luogo del nostro pellegrinaggio, dobbiamo mangiare il nostro pane con il sudore del nostro volto, mendicandolo fuori nella fatica e nel dolore, o dagli uomini dotti o dai libri sacri, o guardando gli attributi invisibili di Dio resi intelligibili attraverso le creature; gli Angeli, invece, vivono beati in ogni pienezza, sia pure non da se stessi, con tanta facilità quanta ne è loro donata. Sono infatti tutti istruiti da Dio: questo è promesso con verità certa, che conseguiranno un giorno gli eletti degli uomini, ma non è dato ancora di sperimentarlo con felicità sicura.
6. Pascolano pertanto i monti sui monti, o le pecore nelle pecore, quando quelle superiori sostanze spirituali ricevono abbondantemente dentro a se stesse, dal Verbo di vita, quanto è necessario per vivere senza fine la loro vita, la stessa cosa sia monti che pecore, monti per la pienezza e l’altezza, pecore per la mansuetudine. Pieni infatti di Dio, sublimi per i meriti, arricchiti di virtù, tuttavia essi sottomettono le alte cime con tutta e umile obbedienza e si inclinano con le loro vertiginose altezze al comando della maestà, come pecore mansuetissime che camminano in tutto al cenno del loro padrone, e lo seguono dovunque va. In questi monti, veramente santi, secondo il Profeta Davide, come la sapienza creata prima di tutte le cose, sono poste all’inizio le solite fondamenta della città del Signore; la quale è unica in cielo e sulla terra, sebbene in parte ancora pellegrinante, e in parte già regnante. E da questi, secondo Isaia, come da cembali, sonori, risuona di continuo il ringraziamento e la voce di lode, adempiendo così essi con soave ed incessante voce quello che abbiamo or ora ricordato del medesimo Profeta, che cioè i monti e le colline canteranno lodi davanti a Dio (Is 55,12), esosi pure ciò che quell’altro, parlando al Signore Dio disse: Beati coloro che abitano nella tua casa o Signore! Ti loderanno nei secoli dei secoli (Sal 83,5).
7. Questi dunque per tornare a ciò da cui ci siamo un poco allontanati, ma penso fosse necessario sono quei monti e quei colli sui quali la Chiesa vide il celeste Sposo con mirabile agilità salire quando si affrettava verso i suoi amplessi: e non solo salire, ma valicarli.
IV. Vuoi che ti dimostri questi salti dagli scritti dei Profeti o degli Apostoli? Non comincerò a riportare qui tutte le testimonianze che si possono desumere da essi su questo argomento da parte di chi ne ha il tempo: questo infatti sarebbe lungo, e non è il caso di farlo. Ma riferisco soltanto quelle cose che brevemente e apertamente sembrano dimostrare ciò che viene detto dei salti dello Sposo. Dice di lui Davide che pose nel sole la sua tenda, ed egli come uno sposo che esce dalla stanza nuziale, esulta come un gigante che percorre la via, egli sorge da un estremo del cielo (Sal 18,6-7). Ecco che grande salto ha fatto, dalla sommità del cielo fino alla terra. Non trovo in verità dove altro abbia posto nel sole la sua tenda, cioè nella luce e nella chiarezza si sia degnato di mostrare la sua presenza, lui che abita nella luce inaccessibile, se non sulla terra. Infine: Fu veduto sulla terra, e abitò tra gli uomini (Bar 3,38) sulla terra, ho detto, palesemente; perché ha posto nel sole la sua tenda, vale a dire nel corpo che si è degnato di prendere dal corpo della Vergine a questo fine, di mostrarsi in esso visibile lui che per sé è invisibile; e così ogni uomo potesse vedere la salvezza di Dio venuta a noi nella carne.
8. Sali dunque sui monti, vale a dire in quei supremi spiriti quando discese fino ad essi, degnandosi di spiegare loro il sacramento nascosto da secoli e il mistero grande della pietà. Ma oltrepassando questi superiori e più eminenti monti, vale a dire, i Cherubini e Serafini, nonché le Dominazioni, i Principati e le Potestà e le Virtù, si è degnato di scendere fino all’ordine inferiore degli Angeli, rappresentati dalle colline. Ma non si è fermato neppure in essi, ha valicato anche i colli. Egli infatti non si prese cura degli Angeli, ma del seme di Abramo si prese cura (Eb 2,16), che è inferiore agli Angeli, perché si adempisse la parola del ricordato Profeta, che così parla al Padre del Figlio: L’hai fatto poco meno degli Angeli (Sal 8,6). Questo in verità si può capire come detto a lode dell’umana natura per il fatto che l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, e dotato di ragione come gli Angeli, di poco tuttavia è inferiore all’Angelo a causa del suo corpo che viene dalla terra. Ma ascolta l’Apostolo Paolo che parla apertamente di lui: il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio: ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini (Fil 2,6) e ancora: Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge (Gal 4,4-5). Colui dunque che fu fatto da donna, che fu fatto anche sotto la legge, non solo scendendo travalicò i monti, cioè le maggiori e superiori beatitudini, ma anche i minori Angeli i quali, in paragone dei superiori, a ragione vengono designati con il nome di colline. Del resto chi è minimo nel regno dei cieli, è più grande di chiunque è composto di carne sulla terra, fosse pure quel grande Giovanni Battista. Poiché anche se in verità diciamo che il Dio uomo supera di gran lunga anche come uomo tutti i Principati e le Potestà, è tuttavia certo che se li sorpassa in maestà, è loro inferiore riguardo alla infermità della carne. Così dunque salì sui monti e valicò i colli quando si mostrò con somma degnazione inferiore non solo ai superiori, ma anche agli spiriti inferiori, e non solo a quegli spiriti superni, ma a quelli stessi che vivevano ancora nella carne, superando se stesso, e vincendo con la sua umiltà anche l’umiltà degli uomini. Era infatti soggetto a Maria e Giuseppe quand’era bambino a Nazareth, e già fatto giovane si chinò sotto le mani di Giovanni Battista. Ma il giorno è già avanzato, né d’altronde vogliamo scendere del tutto da questi monti.
9. Del resto se volessimo questa volta, come ci piace, esplorare tutte le cose amene, scrutare le oscure, c’è da temere che il sermone manchi della sua grata brevità, oppure che l’abbondante ed eccellente materia per la fretta non venga trattata con la dovuta diligenza. Fermiamoci qui per oggi, se vi piace, su questi monti, perché è cosa buona per noi lo stare qui, dove da Cristo pastore, collocati insieme ai santi Angeli in luogo di pascoli, ci nutriamo con maggior gaudio e abbondanza. Siamo infatti anche noi gregge del suo pascolo. Ruminiamo dunque come animali mondi le cose riguardanti il buon Pastore che abbiamo ingerito con avidità nell’odierno sermone, per ricevere con più attenzione in un altro sermone ciò che resta dello stesso capitolo, secondo che lo concederà lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LIV
I. Altra spiegazione riguardo ai predetti monti; il salto dello sposo e stato verso coloro del cui ministero si è degnato di servirsi. II. I colli che lo sposo sormonta sono gli spiriti aerei, designati col nome di Gelboe, monti sui quali salgono uomini e angeli. III. Per scontare la sua pena il diavolo ebbe in sorte un luogo nell’aria, posto fra i monti superiori e inferiori. IV. Esortazione a guardarsi dalla superbia sull’esempio dell’angelo significato dal nome di Gelboe. V. Il triplice timore che dobbiamo nutrire sempre per guardarci dalla superbia.
I. 1. Circa il versetto che è stato materia del sermone di ieri, voglio accennare a un altro senso che ho riservato per oggi; voi vedrete e sceglierete quello che meglio vi garba. Non è il caso di ripetere quanto abbiamo già detto, che penso non abbiate così presto dimenticato. A meno che non siano state scritte le cose come furono dette, senza tener conto dello stile, come in tutti gli altri sermoni, onde facilmente venga recuperato ciò che per caso sia stato omesso. Per la qual cosa sentite quest’altro: Eccolo che viene saltando sui monti, valicando le colline (Cant 2,8). Parla dello Sposo, il quale veramente è salito sui monti quando fu mandato dal Padre ad evangelizzare i poveri, non ha disdegnato di servirsi degli Angeli, divenuto lui stesso Angelo del Gran Consiglio; lui che era il Signore. Discese personalmente sulla terra lui che era solito delegare degli altri; personalmente il Signore ha manifestato la sua salvezza, agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia (Sal 97,2). Essendo dunque tutti, secondo il detto di San Paolo, spiriti mandati a servire quelli che conseguono l’eredità della salvezza, colui che era sopra di loro si fece uno di loro tra di essi, dissimulando l’ingiuria e accumulando la grazia. Ma ascolta lui stesso: Non sono venuto, dice, per essere servito, ma per servire e dare la mia vita per molti (Mt 20,28). Questo, nessuno degli altri lo ha fatto, così che egli ha superato con fedeli e devoti ossequi quelli stessi che erano apparsi come servitori. Buon ministro lui che ha dato la sua carne in cibo, il sangue in bevanda, la vita come prezzo. Buono davvero lui che ardente di spirito, fervente di carità, devoto per la pietà, non solo sale sui monti, ma sorpassa le colline, vale a dire supera e vince per l’alacrità nel servire, come colui che Dio, il suo Dio, ha unto con olio di letizia tra i suoi compagni, per cui singolarmente esultò come gigante che percorre la strada. Così sorpassò Gabriele e lo prevenne alla Vergine, come attesta lo stesso Arcangelo quando dice: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te! (Lc 1, 28). E che? Colui che hai lasciato in cielo lo trovi adesso nell’utero? In che modo? Volò e «prevolò» sulle ali del vento. Sei stato vinto, o Arcangelo, ti ha sorpassato colui che ti ha mandato innanzi.
2. Oppure saliva sui monti quando un tempo era solito apparire ai padri, il che sembra convenire maggiormente alla lettera del testo. Non dice infatti: «che sale sui monti», ma che sale nei monti affinché si comprenda che sale in essi lui stesso che fa e dà di salire; come parla nei Profeti opera nei giusti quando agli uni fornisce, le parole, agli altri le opere. Aggiungi che alcuni di loro rappresentavano la sua persona, di modo che ognuno di loro parlava non come un angelo, ma come il Signore. Per esempio quell’Angelo che parlava, con Mosè non diceva: «Io sono del Signore», ma Io sono il Signore(Es 10,2; 31,13...). E questo capitava spesso. Saliva dunque nei monti, vale a dire negli Angeli, nei quali parlava e mostrava la sua presenza tra gli uomini. Saliva agli uomini, ma negli Angeli, non in sé: non nella sua natura, ma in una creatura soggetta. Chi infatti sale, passa da luogo in luogo, il che non succede in Dio; dunque saliva nei monti, cioè negli Angeli lui che non poteva farlo in sé; e saliva fino ai colli, cioè ai Patriarchi e ai Profeti e agli altri uomini spirituali della terra. Ma valicava pure i colli quando non solo ai grandi e spirituali uomini, ma anche ad alcuni del popolo e anche ad alcune donne si degnò di parlare e di apparire sotto forma di Angeli.
II. Oppure per colli intende le potestà dell’aria che non figurano ormai più fra i monti perché a causa della superbia, sono decadute dall’altezza delle virtù, ma neppure si sgonfiano mediante la penitenza, fino all’umiltà delle valli, cioè alle valli degli umili. Di questo penso sia stato detto nel salmo: Imonti fondono come cera davanti al Signore (Sal 96,5). Questi colli dunque, gonfi e sterili, senza dubbio scavalca colui che sale nei monti, e lasciatili con disprezzo scende alle valli, affinché le valli abbondino di frumento. Al contrario quelli sono condannati a una eterna aridità e sterilità, secondo quell’imprecazione scagliata contro di essi dal Profeta: Né pioggia; né rugiada discendano su di voi (2 Re 1,21). E perché tu sappia che dice queste cose riferendosi agli Angeli decaduti, rappresentati dai monti di Gelboe, aggiunge: dove molti caddero di spada. Quanti dell’esercito di Israele fin dal principio caddero su questi maledetti monti, e ogni giorno cadono! Di questi scrive il medesimo Profeta dicendo a Dio: Come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali tu non conservi il ricordo e che la sua mano ha abbandonato (Sal 87,6).
3. Non fa dunque meraviglia se questi restano sterili e infruttuosi, non monti celesti, ma aerei colli, sui quali non scende né rugiada né pioggia, in quanto l’autore della grazia e largitore delle beatitudini li scavalca per scendere nelle valli, per irrorare con la celeste pioggia gli umili che sono sopra la terra, perché portino frutto con la pazienza, dove il trenta, dove il sessanta, e dove il cento per uno. E poi ha visitato la terra, l’ha inebriata, l’ha ricolmata delle sue ricchezze. Ha visitato la terra, non l’aria, perché della misericordia del Signore è piena la terra (Sal 32,5). Infine: Ha operato la salvezza nella nostra terra (Sal 73,12); lo ha fatto forse anche nell’aria? Questo contro Origene che sostiene con impudente menzogna che il Signore della gloria sarà, di nuovo crocifisso nell’aria per i demoni, mentre San Paolo ben conscio di questo mistero afferma che Cristo, risorgendo dai morti più non muore, la morte non ha più potere su di lui (Rm 6,9).
4. Ma non solo ha visitato la terra colui che ha oltrepassato l’aria, ma anche il cielo, come dice la Scrittura: Signore, la tua grazia è nel cielo e la tua fedeltà fino alle nubi (Sal 35,6). Fino alle nubi, infatti, è il cielo che abitano i santi Angeli, che non ha sorpassato lo Sposo, ma è salito in essi, per imprimere in essi le due impronte dei suoi piedi, la misericordia e la verità; delle quali impronte del Signore mi ricordo di aver trattato esaurientemente nei sermoni precedenti. Dalle nubi poi in c’è l’abitazione dei demoni in fondo a quest’aria, ed essi non ritengono nessuna impronta del passaggio di Dio. Come infatti non ci può essere nel diavolo la verità, quando nel Vangelo della verità è detto di lui che non stette nella verità (Gv 8,44) ma fu bugiardo fin dall’inizio? E neppure si potrebbe dire che è misericordioso, mentre si dice di lui, sempre nello stesso Vangelo che fu omicida fin dall’inizio. Ora, quale il padre di famiglia, tali anche i suoi domestici. Ben a proposito dunque la Chiesa, cantando a riguardo dello Sposo che abita in alto e guardarle cose umili in cielo e sulla terra, non fa nessuna menzione di quegli spiriti superbi che si trovano nell’aria, perché Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili (Gc 4,6).
5. Lo vede dunque salire nei monti e valicare le colline, secondo l’imprecazione di Davide: Il Signore visiti tutti i monti che sono intorno, ma da Gelboe passi oltre (2 Re 1,21). Intorno al diavolo che èraffigurato in Gelboe, vi sono monti visitati dal Signore: sopra gli Angeli, e sotto gli uomini.
III. Al diavolo è toccato in sorte, in pena del suo peccato, di cadere dal cielo in un luogo di questo cielo, a metà tra cielo e terra, perché veda e arda, d’invidia, e questa stessa invidia gli serva di tormento, come dice la Scrittura: L’empio vede e si adira, digrigna i denti e si consuma (Sal 111,10). Come si deve sentire misero alla vista dei cieli, nei quali scorge innumerevoli monti fulgidi di divino splendore, che fanno risuonare le divine lodi, sublimi nella gloria e abbondanti nella grazia! Come più misero ancora si sente quando guarda la terra, che ha anch’essa parecchi monti tra il popolo dei redenti, solidi per la fede, eccelsi per la speranza, spaziosi per la carità, coltivati da virtù, pieni del frutto di opere buone, che ricevono come dai salti dello Sposo la quotidiana benedizione della celeste rugiada! Con quanto dolore e rancore pensiamo noi che questo empio, avidissimo di gloria guardi questi monti che gli stanno intorno, mentre all’opposto vede sé e suoi degni di disprezzo, perché incolti, tenebrosi, infecondi di ogni bene, così che si sente l’obbrobrio degli uomini e degli Angeli, lui che tutti disprezzava, secondo il detto del Salmo: Il Leviatan che hai creato per fartene gioco (Sal 103,26).
6. E questo perché a causa della loro superbia li ha oltrepassati lo Sposo, salendo sui monti che stanno attorno, come una fonte che sale dal mezzo del Paradiso, irriga tutto e riempie ogni vivente di benedizioni. Beati coloro che meritano ogni tanto, o anche raramente, di essere saziati al torrente di questa voluttà, nei quali anche se non scorre di continuo, sgorga in certe ore l’acqua della sapienza e il fonte della vita, per essere anche in essi sorgente di acqua che zampilla alla vita eterna. Questo fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, in modo perenne e abbondante. Voglia Iddio che anche nei nostri monti che sono in terra, provocando quasi una inondazione, non disdegni di fare alcuni salti, da cui sufficientemente irrigati anche a noi che siamo valli, possano stillare sia pur rare gocce, perché non restiamo del tutto aridi e sterili. Vi è miseria, penuria e grande fame in quelle regioni che non vengono mai bagnate da questi salti e istillazioni, mentre il fonte della sapienza passa oltre: E poiché non ebbero la sapienza, dice, perirono a causa della loro insipienza (Pr 18,4).
7. Eccolo che viene salendo nei monti, valicando i colli. Sale per valicare non volendosi fermare da tutti. Non tutti infatti sono graditi a Dio.
IV. Fratelli, se come sapientemente dice San Paolo, queste cose sono state scritte per la nostra correzione, consideriamo i salti discreti e circospetti dello Sposo, come cioè sale sia presso gli Angeli che presso di noi e presso gli umili, scavalcando i superbi; perché eccelso è il Signore e guarda le cose umili, e conosce da lontano le cose alte (Sal 137,6). Badiamo a questo dico, perché siamo attenti a prepararci ai salutari salti dello Sposo, affinché, nel caso che ci trovi indegni della sua visita, non passi oltre da noi come già fece con i monti di Gelboe. Che hai da insuperbirti, terra e cenere? Anche dagli Angeli è passato oltre il Signore, avendo in esecrazione la loro superbia. Serva dunque il rifiuto degli Angeli alla emendazione degli uomini; e stato scritto difatti per la loro correzione. Concorra al mio bene anche il male del demonio, e lavi le mie mani nel sangue del peccatore. «In che modo?», chiedi. Senti. Certamente al diavolo superbo risuonò come bruciante tortura quella orribile e spaventosa maledizione riferita da Davide che dice di lui, rappresentato da Gelboe, come abbiamo detto: Visiti il Signore i monti che sono all’intorno, ma da Gelboe passi oltre.
8. Veramente io, leggendo questo e rivolgendo gli occhi su me stesso, guardandomi bene, mi vedo infetto da quella peste che il Signore ha tanto aborrito nell’Angelo da costringerlo a passar oltre da lui mentre si degnava di concedere la grazia della sua visita ai monti circostanti, sia degli Angeli che degli uomini; e allora, pieno di timore e tremore dico a me stesso: «Se così è stato trattato l’Angelo, che sarà di me che sono terra e cenere? Quello si è insuperbito nel cielo, io nell’immondezzaio. Chi non troverà meno intollerabile la superbia nel ricco che nel povero? Guai a me! Se è stato trattato tanto duramente quel potente per essersi innalzato, che cosa si esigerà da me che sono misero e superbo? Del resto già sconto la pena, già soffro l’acerbo castigo. Non senza ragione da qualche tempo mi sento l’animo invaso da un certo quale languore, da una aridità della mente e da una insolita inerzia dello spirito. Correvo bene; ed ecco una pietra di inciampo nella via: vi ho urtato e sono caduto. È stata trovata in me la superbia, e il Signore, adirato, si è allontanato dal suo servo. Ecco la ragione di questa sterilità dell’anima mia, e della carenza di devozione di cui soffro. Come mai si è così disseccato il mio cuore, si è coagulato come latte, è diventato come terra senza acqua? Né riesco a spremere lacrime di compunzione tanta è la durezza di cuore. Non ha gusto per me il Salmo, non ho voglia di leggere, non provo piacere a pregare, non mi vengono, come di solito, pensieri nella meditazione. Dov’è quell’ebbrezza di spirito? Dov’è la serenità della mente e la pace, e il gaudio dello Spirito Santo? Perciò mi sento pigro nel lavoro manuale, sonnolento alle vigilie, irruente nell’ira, pertinace nell’odio, più indulgente alle chiacchiere e alla gola, meno ardente e più ottuso nella predicazione. Ahimè! Il Signore visita tutte le montagne che mi stanno intorno, ma non si avvicina a me. Sono forse per caso di quelle colline che lo Sposo ha scavalcato? Vedo infatti un altro che si distingue per astinenza, un altro di un’ammirabile pazienza, un altro profondamente umile e mansueto, un altro di molta misericordia e pietà, un altro che nella contemplazione va di frequente in estasi, quest’altro che con l’insistenza dell’orazione bussa e penetra i cieli e altri ancora che eccellono in altre virtù. Considero costoro, dico, tutti ferventi, tutti devoti, tutti unanimi in Cristo, tutti ricchi di doni celesti e di grazie, come davvero molti spirituali visitati dal Signore, e che ricevono frequentemente lo Sposo che sale in essi. Io, invece, che non trovo in me nessuna di queste cose, che altro posso considerarmi se non uno dei monti di Gelboe che oltrepassa nella sua ira e indignazione quel benignissimo visitatore di tutti gli altri?».
9. Figlioli, questo pensiero toglie l’arroganza dello sguardo, concilia la grazia, prepara ai salti dello sposo. Vi ho portato il mio esempio perché anche voi facciate così. Siate miei imitatori. Non lo dico riguardo all’esercizio delle virtù, o la disciplina dei costumi, o la gloria della santità; non oserei infatti arrogarmi nessuna, di queste cose che sia degna di imitazione; ma voglio che voi non risparmiate voi stessi, e impariate ad accusare voi stessi ogni volta che sentite, anche per poco, intiepidirsi in voi la grazia e languire la virtù, come io per tali cose accuso me stesso. Questo fa l’uomo che è curioso investigatore di se stesso e scruta le sue vie e i suoi sentimenti, e in ogni cosa sospetta sempre il vizio dell’arroganza, perché non si infiltri nell’animo suo. In verità ho imparato che nulla è più efficace per meritare la grazia, per conservarla, per recuperarla, che essere trovato in ogni tempo davanti a Dio con umili sentimenti e pieno di timore. Beato l’uomo che è sempre pavido (Pr 28,14). Temi dunque quando ti arriverà la grazia, quando se ne sarà andata, temi quando nuovamente ritornerà; e questo vuol dire essere sempre pavido. Si succedano a vicenda nell’animo questi tre timori, secondo che si sentirà che la grazia si degna di essere presente, o che, offesa, se ne va, o che, placata, torna di nuovo. Quando c’è temi di non corrispondervi degnamente; questo, infatti, ammonisce l’Apostolo dicendo: Vedete di non ricevere invano la grazia di Dio (2 Cor 6,1); e al discepolo: Non trascurare la grazia che è in te (1 Tm 4,14); e di se stesso diceva: La grazia di Dio in me non fu vana (1 Cor 15,10). Sapeva quest’uomo che aveva il consiglio di Dio, che si risolve in disprezzo del donatore il, non tener conto del dono, né impiegarlo allo scopo per cui è stato dato, e riteneva che questa fosse una intollerabile superbia, e per questo cercava con ogni cura di evitare questo male, e insegnava agli altri a guardarsene. Ma di nuovo qui c’è nascosta una fossa e non voglio che voi lo ignoriate, dalla quale questo medesimo spirito di superbia, tanto più pericolosamente quanto più occultamente tende insidie quasi leone dalla sua spelonca (Sal 9,30), come dice il Salmo. Se infatti non riesce a impedire la buona azione, tenta il maligno nell’intenzione, suggerendo e cercando di persuadere l’uomo ad attribuire a sé l’effetto della grazia. E questo genere di superbia, sappi che è molto più intollerabile del primo. Che c’è infatti di più odioso che quelle parole che taluni hanno proferito: La nostra mano forte ha operato tutte queste cose, e non il Signore?(Dt 32,27).
10. Così, dunque si deve temere quando la grazia è presente. Come comportarsi quando se ne va? Non c’è, forse, allora maggior motivo di temere? Molto di più veramente, perché dove ti viene meno la grazia, vieni meno anche tu. Ascolta che cosa dice il datore della grazia: Senza di me non potete far nulla (Gv 15,5). Temi dunque che, sottratta la grazia, tu non abbia a cadere; temi e trema quando senti che Dio è adirato con te; temi perché ti ha abbandonato il tuo custode. E non dubitare Che la causa ne sia la superbia, anche se non sembra, anche se non ti senti colpevole di nulla. Ciò, infatti, che tu non conosci, lo conosce Iddio, e chi ti giudica è Lui. Né è giustificato colui che raccomanda se stesso, ma colui che è giusto agli occhi di Dio (2 Cor 10,18). Ora, ti raccomanda, forse, Iddio quando ti priva della sua grazia? Oppure colui che agli umili dà la grazia, toglie all’umile la grazia che gli ha dato ? È, dunque, prova di superbia la privazione della grazia. Tuttavia, talvolta, viene sottratta non a causa della superbia già esistente, ma che verrebbe se la grazia non venisse sottratta. Ne abbiamo una prova evidente nell’Apostolo Paolo che sentiva suo malgrado gli stimoli della carne, non perché si fosse insuperbito, ma affinché non si insuperbisse. Ma sia che già ci sia, sia che non ci sia ancora, la superbia è sempre la causa per cui viene sottratta la grazia.
11. Che se la grazia, riconciliata, tornerà, allora c’è ancor più da temere una ricaduta, secondo quell’avvertimento. del Vangelo: Ecco che sei ridivenuto sano, va’ e non peccare più, perché non ti capiti qualcosa di peggio (Gv 5,14). Senti come ricadere sia peggio che cadere.. Perciò, crescendo il pericolo, cresca anche la paura. Beato te, se riempirai il tuo cuore di questo triplice timore, che tu tema, cioè, quando ricevi la grazia, tema maggiormente quando la perdi, e ancora molto di più quando l’hai recuperata. Fa’ così, e sarai nel convito di Cristo, un’idria ripiena Lino all’orlo, contenente cioè non solo due misure, ma tre, perché tu meriti la benedizione di Cristo che converta la tua acqua in vino di letizia, e la perfetta carità cacci via il timore.
12. Le cose stanno veramente così. L’acqua è il timore, perché questo porta refrigerio nell’ardore dei desideri carnali. Il principio della sapienza,dice la Scrittura, è il timore del Signore (Sal 110,10); e dice altrove: Gli ha dato da bere l’acqua della sapienza salutare (Eccli 15,3). Se il timore è sapienza, e la sapienza è acqua, anche il timore è acqua; e detto ancora: Il timore del Signore è fonte di vita (Pr 14,27). Ora idria è la tua mente. Contenenti, dice, ciascuna due o tre misure (Gv 2,6). Tre misure sono i tre timori. E le riempirono fino all’orlo (Gv 2,7). Non un solo timore, non due, ma tutti e tre insieme riempirono l’idria fino all’orlo; in ogni tempo temi Dio, e con tutto il cuore, e hai riempito così l’idria fino all’orlo. Dio ama un dono completo, un affetto pieno, un sacrificio perfetto. Cerca pertanto di portare alle celesti nozze un’idria piena, perché si possa dire anche di te: Lo ha riempito lo spirito del timore del Signore (Is 11,3). Chi teme così non trascura nulla. Come potrebbe entrare la negligenza dove c’è pienezza? Se non ciò che è capace di ricevere ancora, non è pieno. Perla stessa ragione non può uno temere così e nello stesso tempo nutrire pensieri di superbia. Se sei infatti pieno del timore del Signore, non c’è posto in te per la superbia. E così si deve dire degli altri vizi perché necessariamente tutti vengono esclusi dalla pienezza del timore. E allora, se temerai pienamente e perfettamente, la carità darà sapore alle tue acque alla benedizione del Signore. Senza la carità infatti il timore ha la pena (1 Gv 4,18). E la carità è il vino che rallegra il cuore dell’uômo. La carità perfetta caccia via il timore, e dove c’era acqua comincia ad esservi vino, a lode e gloria dello Sposo della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LV
I. Per quale motivo lo sposo è paragonato alla capra e al cerbiatto. II. Dobbiamo giudicare noi stessi per non essere giudicati.
I. 1. Il mio diletto è simile a un capriolo e a un cerbiatto (Cant 2,9). Questo versetto dipende dal precedente. Colui che aveva descritto poco fa come uno che saliva e si avvicinava saltando, ora lo paragona a un capriolo e a un cerbiatto. Questo paragone è ben a proposito, perché questo genere di animali è veloce nella corsa e agile nel salto. Pertanto qui si parla dello Sposo, e lo Sposo stesso è la Parola. Ora il Profeta dice di Dio che velocemente corre la sua parola (Sal 147,15) e quel passo conviene molto bene a questo, dove lo Sposo, che è la Parola di Dio, è descritto come uno che sale e valica i monti proprio come un capriolo e un cerbiatto. Questa è la ragione della similitudine. Aggiungi, inoltre, perché non venga trascurato alcun aspetto della similitudine, che il capriolo non solo si distingue per la velocità della corsa, ma anche per l’acutezza della vista. Questo riguarda quella parte del racconto in cui si dice che lo Sposo non solo sale, ma scavalca, perché senza un acuto e perspicace intuito, specialmente correndo, non potrebbe distinguere dove salire e dove oltrepassando scavalcare. Altrimenti, per designare solamente la sua velocità nel venire, poteva bastare il solo paragone del cerbiatto: si sa, infatti, che questi è rapidissimo nel correre. Ora invece, poiché questo Sposo, anche se preso da ardente amore sembri volare verso gli amplessi della sposa, sa tuttavia dirigere con prudente considerazione i suoi passi, o piuttosto i suoi salti ponendo con cautela il piede nel punto giusto; per questo, giustamente, fu assimilato pure al capriolo, affinché, mentre la velocità del cervo esprimeva il suo desiderio di salvare, l’acume del capriolo esprimeva il giudizio della sua elezione. Cristo, infatti, è giusto e misericordioso, salvatore e giudice; e poiché ama, vuole che tutti gli uomini siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità; e poiché giudica, sa chi sono i suoi, e conosce quelli che ha eletti da principio.
2. Questi, pertanto, sono i due beni dello Sposo, la misericordia, cioè, e la giustizia, raffigurati in questi due animali a noi presentati dallo Spirito Santo, affinché in testimonianza dell’integrità e perfezione della nostra fede, anche noi, imitando il Profeta, cantiamo al Signore la sua misericordia e la sua giustizia. Io non dubito che si possano trovare altri sensi circa la natura di questi da coloro che se ne intendono e sono investigatori di queste cose, che possano adattarsi utilmente e congruamente allo Sposo. Ma quello che abbiamo detto penso che possa bastare a rendere ragione dell’addotta similitudine. Molto a proposito tuttavia lo Spirito Santo ha parlato non di cervo ma di cerbiatto, nel che fece menzione dei Padri, dai quali discende Cristo secondo la carne, e ricorda l’infanzia dei Salvatore. Come cerbiatto infatti apparve il pargolo che nacque per noi. Ma tu che desideri l’avvento del Salvatore temi lo scrutinio del Giudice, temi gli occhi del capriolo, temi colui che dice per mezzo del Profeta: In quel tempo perlustrerò Gerusalemmecon lanterne (Sof 1,12). È di vista acuta: nulla sfuggirà al suo occhio. Scruterà i reni e i cuori, e lo stesso pensiero dell’uomo gli sarà manifesto. Che vi sarà di sicuro in Babilonia se a Gerusalemme è riservato lo scrutinio? Penso che in questo passo dal Profeta siano indicati con il nome di Gerusalemme coloro che in questo modo conducono una vita religiosa e imitano per quanto possono con una condotta onesta e ordinata i costumi della celeste Gerusalemme, e non come quelli di Babilonia che menano una vita disordinata, turbata e confusa da vizi e scelleratezze. I peccati di costoro sono manifesti, pronti ad essere giudicati, e non hanno bisogno di essere scrutati, ma aspettano solo la condanna. I peccati, invece, di me che sembro monaco e abitante di Gerusalemme, sono occulti, coperti dall’ombra del nome e dall’abito del monaco; e perciò sarà necessario che siano investigati con sottile discussione e, con l’aiuto di lucerne, siano dalle tenebre portati alla luce.
II. 3. Possiamo addurre anche qualche frase del Salmo per confermare quanto si è detto dello scrutinio di Gerusalemme. Dice infatti in persona del Signore: Nel tempo che avrò stabilito io giudicherò le giustizie (Sal 74,3). Dice, se non erro, che discuterà, ed esaminerà le vie dei giusti e le loro azioni. C’è molto da temere che quando si verrà a questo giudizio, sotto un così sottile esame, molte delle nostre cosiddette giustizie appariscano peccati. Una cosa è certa: Se ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati (1 Cor 11,31). Buon giudizio quello che mi sottrae e nasconde a quello stretto giudizio di Dio. Ho davvero il terrore di cadere nelle mani del Dio vivente voglio presentarmi al volto adirato di Dio già giudicato, non per essere giudicato. L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno (1 Cor 2,15). Giudicherò, pertanto, i miei mali, giudicherò anche il mio bene. Cercherò di correggere il male con azioni migliori, lavandolo con le lacrime, castigandolo con i digiuni e gli altri esercizi della santa disciplina. Nelle cose buone cercherò di avere umili sentimenti di me stesso, e secondo il precetto del Signore mi reputerò un servo inutile che ha semplicemente fatto quello che doveva fare. Starò attento a non offrire loglio invece del grano, né la paglia per il frumento. Scruterò la mia condotta e i miei sentimenti perché colui che deve scrutare Gerusalemme alla luce delle lampade non trovi nulla in me che non sia stato già scrutato e discusso. Non giudicherà,infatti, due volte la stessa cosa.
4. Chi mi darà di ricercare a fondo e dar la caccia a tutti i miei vizi, in modo tale da non aver per nulla a temere gli occhi del capriolo e non mi capiti di dover arrossire al lume delle lucerne? Anche ora sono veduto e non vedo. È presente l’occhio a cui tutto è manifesto, anche se esso non si vede. Vi sarà un tempo in cui conoscerò come anch’io sono conosciuto; ma ora conosco in modo imperfetto (1 Cor 13,12), non però imperfettamente sono conosciuto, bensì in modo perfetto. Temo l’aspetto di quell’esploratore che sta di là dalla parete. Questo infatti aggiunge di Lui la Scrittura, dopo averlo paragonato al capriolo per l’acume della vista: Ecco egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso i cancelli (Cant 2,9). Di questo parleremo a suo luogo. Temo, dunque, l’occulto esploratore delle cose occulte. La sposa non teme nulla, perché non ha coscienza di alcuna colpa. E che cosa dovrebbe temere l’amica, la colomba, la bella? Infatti, più sotto dice: Ora il mio diletto parla con me (Cant 2,10). Con me non parla, e perciò ne temo l’aspetto, perché non ho testimonianza in mio favore. Tu che cosa ti senti dire, o sposa? Che cosa ti dice il tuo diletto? Sorgi amica mia, mia colomba, mia bella (Cant 2,10). Ma anche questo voglio riservare al principio di un altro sermone, né ridurrò con la brevità quelle cose che richiedono diligenza, perché non mi capiti di essere trovato colpevole anche di questo, se per caso sarete trovati meno edificati in questa parte per l’intelligenza e l’amore dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LVI
I. Qual è la parete, quale la finestra o le fessure attraverso le quali lo sposo spia. II. Egli è dietro la parete di ognuno di noi; sulla sua presenza o assenza. III. Taluni costruiscono molte pareti per sé e lo sposo; quali sono le inferriate o le finestre secondo il senso morale.
I. 1. Eccolo, egli sta dietro il muro, guarda dalla finestra, spia attraverso i cancelli (Cant 2,9). Secondo la lettera sembra dire che colui che si scorgeva avvicinarsi saltando sia venuto fino all’abitazione della sposa, e stando dietro il muro guardi curiosamente attraverso le finestre e le fessure, non osando, per verecondia, entrare. Secondo lo spirito, invece, si intende che egli si avvicina, ma in altro modo, cioè come era conveniente agisse il celeste Sposo, e come conveniva venisse espresso dallo Spirito Santo. Il vero e spirituale senso non può infatti comportare nulla che sia disdicevole sia all’autore, sia al narratore. Dunque, si accostò alla parete quando aderì alla carne. La carne è la parete, e l’accostarsi ad essa dello Sposo è l’incarnazione del Verbo. I cancelli e le finestre per le quali si dice che egli guarda, penso che siano i sensi corporei e i sentimenti umani, attraverso i quali fece l’esperienza di tutte le umane necessità. Egli ha preso su di se le nostre debolezze e si e caricato dei nostri dolori (Is 33,4). Egli fece uso dei sentimenti umani e dei sensi corporei come di aperture e di finestre per conoscere per esperienza le miserie degli uomini, fattosi egli stesso uomo, per essere misericordioso. Egli le conosceva anche prima, ma in modo diverso. Conosceva la virtù dell’obbedienza, Lui, il Signore delle virtù, e tuttavia, secondo l’Apostolo, imparò da quelle cose che patì l’obbedienza (Eb 2,17). In questo modo imparò anche la misericordia, sebbene la misericordia di Dio sia eterna (Sal 102,17). Insegna anche lo stesso Dottore delle genti dove asserisce che Cristo è stato lui stesso provato in ogni cosa come noi, escluso il peccato (Eb 4,15) perché fosse misericordioso. Vedi come egli fu fatto ciò che era, e imparò quello che sapeva, e presso di noi cercò delle fessure e finestre per esplorare più accuratamente le nostre miserie. E tanti fori trovò nel nostro muro cadente e pieno di fenditure quante furono le esperienze che nel suo corpo fece della nostra infermità e corruzione.
2. Così dunque lo Sposo, stando dietro il muro, guardava attraverso le finestre e i cancelli. E dice bene «stando», perché egli solo nella carne stette, egli che non sentì il peccato della carne. Possiamo anche giustamente intendere nel senso che stette per la potenza della divinità colui che soccombette per l’infermità della carne, come dice egli stesso: Lo Spirito in verità è pronto, ma la carne è debole (Mt 26,41). Io penso che dimostri anche questo quanto il santo Davide diceva del Signore riguardo a questo mistero, profetando come profeta del Signore, parlando di Mosè, ma intendendo il Signore. Egli è infatti il vero Mosè che davvero è venuto con l’acqua, e non solo con l’acqua, ma con l’acqua e il Sangue (1 Gv 5,6). Dunque il citato Profeta: Disse di sterminarli, faceva dire al Padre, se Mosè suo eletto non fosse stato sulla breccia di fronte a lui, per stornare la sua collera dallo sterminio (Sal 105,23). In quale maniera, chiedo io, Mosè poté stare sulla breccia? Come poté stare se fu abbattuto, o non fu abbattuto se stette? Ma io ti mostro, se vuoi, chi veramente stette sulla breccia. Non conosco nessun altro che abbia potuto far questo se non il mio Signore Gesù, il quale certamente nella morte era vivo, il quale fu abbattuto nel corpo sulla croce, mentre per la divinità stava con il Padre, per un lato supplicando per noi, per l’altro mostrandosi propizio insieme con il Padre. E stava dietro il muro mentre ciò che in Lui giaceva era manifesto nella carne, mentre ciò che in Lui stava, in certo qual modo si nascondeva dietro la carne; cioè un solo e medesimo, manifesto come uomo e nascosto come Dio.
II. 3. E per ognuno di noi che desideriamo l’avvento di Lui, penso che egli stia dietro la parete, mentre questo nostro corpo, che è certamente corpo di peccato, ci nasconde per ora il suo volto, e ci vela la sua presenza. Infatti, finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontani dal Signore (2 Cor 5,6). Non perché nel corpo, ma perché in questo corpo che viene dal peccato e non è senza peccato. E affinché tu sappia che sono impedimento non i corpi, ma i peccati, senti cosa dice la Scrittura: I nostri peccati hanno scavato un abisso tra noi e il nostro Dio (Is 59,2). E magari mi sia di ostacolo soltanto il muro del corpo, e unico impedimento per me sia il peccato che è nella carne, e non si interpongano invece molte macerie dei vizi! Temo infatti, oltre il male che è nella natura, di avervi aggiunto per mia propria iniquità molti altri mali che costituiscono un ostacolo tra me e lo Sposo, di modo che per dire la verità dovrei dire che egli sta, non dietro il muro, ma piuttosto dietro le pareti.
4. Ma lo dico in modo più chiaro. Lo Sposo è egualmente e indifferentemente a disposizione ovunque, mediante la presenza della divina maestà e la grandezza della sua potenza. Per il fatto, tuttavia, dell’esibizione o del rifiuto della grazia si dice che per alcuni è lontano, per altri è vicino, questo tra gli Angeli soltanto e gli uomini, vale a dire tra le creature ragionevoli. Lontano dagli empi è la salvezza (Sal 118,155). E tuttavia un Santo dice: Perché, Signore, stai lontano? (Sal 9,22). Del resto egli, nella pia economia della sua grazia, si fa sentire lontano dai santi per un certo tempo, e mai in modo completo, ma solo in qualche maniera. Rispetto invece ai peccatori, dei quali è detto che Il tumulto dei tuoi avversari cresce senza fine (Sal 73,23) e altrove: Le vie di lui in ogni tempo sono corrotte (Sal 9,26), egli è sempre e molto lontano, e questo per effetto della sua ira e non della sua misericordia. Per questo prega il Santo il Signore dicendo: Non allontanarti con ira dal tuo servo (Sal 26,9), ben sapendo che potrebbe anche allontanarsi per effetto della sua misericordia. È, dunque, vicino il Signore ai suoi santi ed eletti, anche quando sembra essere lontano, e non ugualmente a tutti, ma ad altri più, ad altri meno, secondo la diversità dei meriti. Poiché, anche se il Signore è vicino a quanti lo invocano con cuore sincero (Sal 144,18) ed è: vicino a chi ha il cuore ferito (Sal 33,19), non lo è forse per tutti in modo tale che possano dire che egli è dietro la parete. Quanto invece è vicino alla sposa che è divisa da lui solo da una parete! Per questo lei brama di morire, e, rotto il muro divisorio, di essere con lui, che sa essere oltre quella parete.
5. Ma io, essendo peccatore, non desidero la mia dissoluzione, ma la temo, ben sapendo che pessima è la morte dei peccatori (Sal 33,22). Come non sarebbe pessima la morte, quando non viene incontro la Vita? Temo di uscire e nello stesso ingresso del porto io sono preso da tremore, mentre non ho fiducia che vi sia là chi mi riceve quando uscirò. Come potrei, infatti, uscire sicuro, se il Signore non custodisce la mia uscita? Ahimè! Sarò lo scherno di demoni, che mi arresteranno, se non mi assiste colui che mi redime e mi salva. Niente di ciò temeva l’anima di Paolo, che una sola parete impediva di vedere e abbracciare il diletto, vale a dire la legge del peccato che trovava nelle sue membra. Essa è la concupiscenza della carne, dalla quale non poté essere esente fino a che fu nella carne. Diviso da questa parete era pellegrino non molto lontano dal Signore; e perciò esprimeva il suo desiderio dicendo: Chi mi libererà da questo corpo di morte? (Rm 7,24), sapendo che attraverso la morte sarebbe giunto subito alla meta. San Paolo dunque confessava di essere impedito da una sola legge, vale a dire la concupiscenza, che tollerava suo malgrado insita radicalmente nella sua carne; per il resto, diceva, non sono consapevole di alcuna colpa (1 Cor 4,4).
III. 6. Ma chi può dire di essere simile a Paolo, che cioè ogni tanto non consenta a questa concupiscenza obbedendo al peccato? Sappia, pertanto, colui che avrà consentito al peccato, di aver interposto un altro muro, cioè lo stesso colpevole consenso al male; e un tale individuo non può gloriarsi che lo sposo stia dietro la parete, quando già ve ne sono più di una. Molto meno, poi, se al consenso sarà seguito l’effetto, perché allora vi sarà un terzo muro a tener distante e ,a impedire l’accesso dello Sposo, vale a dire l’atto stesso del peccato. Che cosa dire poi se la consuetudine avrà reso usuale il peccato, oppure anche l’abitudine sarà degenerata in disprezzo? Sta scritto infatti: L’empio quando viene nel profondo dei peccati, disprezza (Pr 18,31). Se uno esce in questo stato, non troverà forse migliaia di belve ruggenti pronte a divorarlo? Il suo accesso allo Sposo è, infatti, impedito non più da uno solo, ma da un numero stragrande di muri! Primo, la concupiscenza; secondo, il consenso; terzo, l’atto; quarto, la consuetudine cattiva; quinto, il disprezzo. Cerca, dunque, di resistere con tutte le forze alla prima concupiscenza, perché non ti trascini al consenso, e in tal modo tutta la costruzione della malignità svanirà né vi sarà più ostacolo perché lo Sposo si avvicini a te, salvo l’unica parete del corpo, e cosa possa anche tu gloriarti dicendo di lui: Eccolo che sta dietro la parete.
7. Ma devi anche con ogni vigilanza, fare in modo che egli trovi sempre aperte le finestre e i cancelli delle tue confessioni, attraverso le quali benignamente ti guardi dentro, perché il suo sguardo equivale al tuo profitto. Dicono che i cancelli siano finestre più piccole quali sogliono farsi fare quelli che scrivono libri per dare luce alle pagine. E penso che per questo siano detti cancellieri coloro che sono deputati per ufficio a scrivere carte. Ora, essendo due le specie di compunzione, una consistente nella tristezza per le nostre colpe, l’altra nell’esultanza per i doni divini, ogni volta che faccio quella confessione dei miei peccati che non si fa senza angoscia del cuore, mi vedo aprire un cancello, vale a dire una piccola finestra. Non v’è dubbio che attraverso questa guardo volentieri colui che sta di là dal muro, pio esploratore, perché Dio non disprezza un cuore contrito e umiliato (Sal 50,19). Ed esorta egli stesso a fare questo: Esponi tu le tue iniquità, perché tu sia giustificato (Is 43, 26). Che se di tanto in tanto con cuore dilatato nella carità, considerando la divina degnazione e misericordia, mi piacerà aprire l’animo alla voce di lode e al ringraziamento, penso che allora io apro allo Sposo che sta oltre la parete, non una piccola, ma una oltremodo ampia finestra, attraverso la quale, se non erro, guardo tanto più volentieri quanto più il sacrificio di lode gli rende onore. È facile trovare nelle Scritture le testimonianze per l’una o l’altra confessione; ma parlo a persone che conoscono queste cose, e voi non dovete essere sovraccarichi di cose superflue, essendo già, troppo il peso della ricerca delle cose necessarie: tanto grandi, infatti, sono i misteri di questo epitalamio e gli inni di lode che in esso vengono cantati alla Chiesa e al suo Sposo Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LVII
I. I gradi della degnazione di Dio o il suo «intuito», secondo quale criterio ad alcuno incuta timore e ad altri sicurezza. II. A chi in particolare si addice lo spiare la venuta dello sposo; le attestazioni divine. III. Per quali gradi l’anima esamina l’avvicinarsi o il venire dello sposo. IV. Vicissitudini della casta contemplazione; distinzione fra «amica», «colomba» e «bella» in Maria, Lazzaro e Marta.
I. 1. E il mio diletto mi parla (Cant 2,10). Vedete il procedimento della grazia, e badate ai gradi della divina degnazione. Considerate la devozione e la solerzia della sposa, con quale occhio vigile osservi la venuta dello Sposo, e in seguito nulla le sfugge delle cose di Lui. Egli viene, accelera il passo, si avvicina, è presente, guarda, parla, e nulla di questi vari momenti sfugge all’attenzione della sposa, nulla che non sia subito conosciuto da lei. Viene negli Angeli, si affretta nei Patriarchi, si avvicina nei Profeti, è presente nella carne, guarda nei miracoli, parla negli Apostoli. Oppure così: viene con l’affetto e la volontà di usare misericordia, si affretta con lo zelo nel portar soccorso, si avvicina umiliando se stesso, è presente ai presenti, guarda a quelli che saranno, parla insegnando e persuadendo circa il regno di Dio. Così dunque viene lo Sposo. Con lui sono le benedizioni e le ricchezze della salute, e tutte le cose che lo riguardano abbondano di delizie, piene certamente di giocondi e salutari misteri. Ora, colei che ama, veglia e osserva. E beata lei che il Signore avrà trovato vigilante. Non passerà oltre da lei, ma si fermerà e le parlerà, dirà parole d’amore: parlerà, infatti, come diletto. Così è infatti scritto: E il mio diletto mi parla. Giustamente diletto, che viene a parlare d’amore, non a rimproverare.
2. La sposa non è infatti di quelli che con ragione vengono rimproverati dal Signore, perché sapevano interpretare i segni del cielo, ma non avevano affatto conosciuto il tempo della sua venuta. Costei, infatti, tanto solerte e prudente e così bene vigilante, lo ha visto venire da lontano, e lo ha scorto saltante per la fretta, e, sorpassando i superbi, lo ha con acutezza notato, che con umiltà si avvicinava a lei umile; ed infine quando già stava presente nascondendosi dietro la parete, riconobbe tuttavia la sua presenza, e si accorse che guardava attraverso le finestre e i cancelli. E ora in ricompensa di tanta devozione e religiosa sollecitudine, le viene concesso di sentirlo parlare. In verità, se avesse guardato e non avesse per nulla parlato, quello sguardo sarebbe potuto sembrare sospetto, potendosi interpretare come segno di indignazione più che di dilezione. Cristo ha guardato Pietro senza dire parola; e forse per questo egli pianse, perché quando lo guardò non disse nulla. La sposa, invece, che dopo aver meritato di vederlo lo ha pure udito parlarle, non solo non piange, ma se ne gloria pure esclamando piena di gioia: E il mio diletto mi parla. Vedi come lo sguardo del Signore, pur essendo sempre lo stesso in sé, non ha però sempre la medesima efficacia, ma si adatta ai meriti di coloro che guarda, e ad alcuni incute timore, ad altri invece reca piuttosto consolazione e sicurezza. Guarda la terra, dice il Salmo, e la fa tremare (Sal 103,32), mentre all’opposto, guarda Maria e le infonde la grazia. Guardò, dice, l’umiltà della sua serva; d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata (Lc 1,48). Queste non sono parole di una che piange o trepida, ma di una che è nella gioia. Similmente in questo luogo guarda la sposa, ed essa non tremò né pianse come Pietro, perché non aveva sentimenti terreni come lui; con il suo sguardo invece portò la letizia nel suo cuore, testimoniando con le parole che il suo era stato uno sguardo d’amore.
3. E poi senti come le parole che dice sono non di uno che è sdegnato, ma di uno che ama.
II. Segue: Alzati, affrettati, amica mia, mia colomba, mia bella (Cant 2,10). Felice la coscienza che merita di sentirsi dire queste cose di se stessa! Chi c’è tra noi così vigilante e che osservi il tempo della sua visita e che investighi con, tale diligenza lo Sposo che va e che viene in tutti i singoli suoi momenti, di modo che quando verrà e busserà prontamente gli apra? Queste cose infatti non vengono riferite della Chiesa in modo che noi singoli, che insieme formiamo la Chiesa, non dobbiamo partecipare di queste sue benedizioni. A questo, infatti, tutti generalmente e indifferentemente siamo chiamati, per possedere come eredità tali benedizioni. Perciò un tale osava dire al Signore: Mia eredità per sempre sono le tue testimonianze, sono esse la gioia del mio cuore (Sal 118,111). Penso che parli di quella eredità che gli spettava come figlio del Padre suo che è nei cieli.
Inoltre, se figlio, anche erede: erede di Dio, coerede di Cristo. Con questa eredità si gloria di aver acquistato una grande cosa, le testimonianze del Signore. Oh, se potessi anch’io possedere almeno una testimonianza del Signore a mio riguardo, poiché quegli esulta non per una sola, ma per molte testimonianze! E dice di nuovo: Nella via delle tue testimonianze mi sono rallegrato, come in ogni sorta di ricchezze (Sal 118,14). E difatti, quali sono le ricchezze della salute, quali le delizie del cuore, quale la vera e cauta sicurezza dell’anima, se non le attestazioni del Signore? Poiché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda (2 Cor 10,18).
4. Perché mai noi fino a oggi restiamo ancora privi di queste raccomandazioni o attestazioni divine, e rimaniamo defraudati della paterna eredità? Quasi che noi non siamo stati affatto generati volontariamente da lui mediante la parola di verità, così non ricordiamo di essere stati in alcuna cosa da lui raccomandati, né di aver conseguito tali sue testimonianze a nostro riguardo. Dove è quello che dice l’Apostolo, che cioè lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio? (Rm 8,16). E come figli, se privi dell’eredità? La nostra stessa miseria ci accusa certamente di negligenza e di noncuranza. Poiché se qualcuno di noi in modo integro e perfetto, secondo la parola del Saggio, di buon mattino rivolge il cuore al Signore che lo ha creato e prega davanti all’Altissimo (Eccli 39,6) e nello stesso tempo con tutto il cuore cerca di preparare le vie del Signore, come dice il Profeta Isaia, e di raddrizzare i suoi sentieri, se può dire con il Profeta: I miei occhi sono sempre rivolti al Signore (Sal 24,15) e: Io pongo sempre innanzi a me il Signore (Sal 15,8) non è vero che costui otterrà benedizione dal Signore e misericordia da Dio sua salvezza? (Sal 23,5). Sarà visitato di frequente, né mai ignorerà il tempo della sua visita, nonostante colui che visita in spirito venga di nascosto e furtivo, perché è un verecondo amante.
L’anima sobria di mente e bene sveglia lo scorgerà quando ancora e lontano, e da allora si terrà: bene informata di tutte quelle cose, che la sposa con tanta solerzia , come abbiamo visto, ha intravisto ed ha notato, perché egli ha detto: Coloro che mi cercheranno fin dal mattino mi troveranno (Pr 8,17). Conoscerà infatti il desiderio del diletto che si affretta, e quando è vicino, e quando sarà presente lo sentirà subito; guarderà con occhi beati l’occhio che la guarda, quasi raggio di sole che si insinua attraverso le finestre e le fenditure della parete, e infine udrà da lui parole di esultanza e di amore, con cui sarà chiamata amica, colomba, bella.
III. 5. Chi è saggio e comprende queste cose (Os 14,10) in modo da poterle anche distinguere tra di loro, e designarle una per una, e spiegarle perché gli altri le comprendano? Se si chiede questo a me, confesso che preferirei io stesso udire queste cose da un esperto e che sia abituato ed esercitato in tali cose. Ma poiché un tale individuo, chiunque esso sia, preferisce nascondere con verecondia nel silenzio quello che ha percepito nel silenzio, e conservare per se il suo segreto, ritenendo questo modo di agire più sicuro per sé, parlo io che per ufficio ho il dovere di parlare, né posso tacere, esprimendo quanto ne so, sia per esperienza mia sia di altri, e che facilmente molti altri possono sperimentare, lasciando le cose più sublimi alla capacità di quelli che sono in grado di comprenderle. Se dunque sarò ammonito, o all’esterno da qualche uomo, o nell’intimo dallo Spirito, di difendere la giustizia e di osservare l’equità, questo salutare ammonimento sarà per me un avviso dell’imminente venuta dello Sposo, e servirà come di preparazione a ricevere degnamente il superno visitatore. Me lo indica il Profeta dicendo: Davanti a lui camminerà la giustizia (Sal 84,14) e, volgendosi al Signore:Giustizia e diritto sono la base del tuo trono (Sal 88,15). Tuttavia arriderà la medesima speranza se il suggerimento riguarderà l’umiltà o la pazienza, o anche la carità fraterna e l’obbedienza dovuta ai prelati, e massimamente la santità e la pace, la ricerca della purezza di cuore, perché secondo le Scritture: Alla casa di Dio conviene la santità (Sal 92,5) e la sua abitazione è nella pace (Sal 75,3), e i puri di cuore vedranno Dio (Mt 5,8). Tutto quello che mi verrà insinuato nell’animo di queste o qualsiasi altre virtù, sarà per me un segno che è imminente per l’anima mia la visita del Signore delle virtù.
6. Ma anche se un giusto, spinto dalla carità, mi avrà corretto e sgridato, avrò gli stessi sentimenti, sapendo che lo zelo e la benevolenza del giusto preparano la strada a colui che sale sopra il tramonto. Buon tramonto quando alla correzione del giusto resta in piedi l’uomo e cade il vizio, e il Signore sale sopra quello conculcandolo con i piedi e schiacciandolo perché non risorga. Non si deve dunque disprezzare l’ammonizione del giusto che è rovina del peccato e sanità del cuore, nonché via di Dio all’anima. E neppure si deve ascoltare con negligenza qualsiasi parola diretta ad accrescere la pietà, a nutrire le virtù e i buoni costumi, perché anche quella è una via per cui si fa vedere la salvezza di Dio. Se tali parole riescono piacevoli e gradite, in quanto senza noia e con avidità vengono ascoltate, allora si deve credere che non solo lo Sposo viene, ma si affretta, cioè viene con desiderio. Il suo desiderio, infatti, crea il tuo; e il fatto che tu ti affretti ad accettare la sua parola significa che egli si affretta ad entrare: non siamo infatti stati noi, maEgli per primo ci ha amati (1 Gv 4,10). Se poi ti capita anche di sentire una parola di fuoco, e per essa ti senti scottare la coscienza al ricordo del peccato, ricordati allora di chi dice la Scrittura che il fuoco cammina davanti a lui (Sal 96,3), e sta sicuro che egli è vicino. Infine, il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito (Sal 33,19).
7. Se poi a quelle parole non solo ti compungi, ma ti rivolgerai tutto al Signore, giurando e stabilendo di custodire i suoi precetti di giustizia, sappi allora che egli é ormai presente, soprattutto se ti sentirai infiammare dall’amore di lui. Leggi infatti le due cose riguardo a lui, che cioè il fuoco cammina davanti a lui, e che egli stesso è fuoco. Mosè dice, infatti, che egli è un fuoco che consuma (Dt 4,24). Le due cose differiscono tuttavia in quanto il fuoco che lo precede ha l’ardore, ma non l’amore: cuoce ma non brucia, muove, ma non promuove. Viene mandato innanzi per eccitare e preparare, e nello stesso tempo per farti riflettere a quello che sei da te stesso, perché ti sia più dolce la costatazione di quello che sarai tra poco per la grazia di Dio. Ma il fuoco che è Dio consuma sî, ma non affligge, arde soavemente, produce una felice desolazione. È, infatti, davvero un carbone distruggitore, ma che spiega talmente contro i vizi la forza del fuoco, lasciando invece nell’anima l’effetto di un unguento. Dunque, dalla forza da cui ti senti mutato, e dall’amore da cui ti senti infiammato comprendi che il Signore è presente, poiché la destra del Signore ha fatto meraviglie (Sal 117,16). Ma non si effettua questa trasformazione della destra dell’Altissimo (Sal 76,11) se non nel fervore dello Spirito e nella carità sincera, sicché possa un tale dire:Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco (Sal 38,4).
8. Consumata perciò da questo fuoco ogni macchia di peccato e ogni ruggine di vizi, se nella coscienza ormai purificata e rasserenata si produrrà improvvisamente una certa insolita larghezza di mente, e un’infusione di luce che illumina l’intelletto o all’intelligenza delle Scritture o alla conoscenza dei misteri, due cose che penso ci vengano date una per la nostra soddisfazione, l’altra per l’edificazione del prossimo, questo è senza dubbio l’occhio di colui che guarda, che fa brillare come luce la tua giustizia e come il meriggio il tuo diritto (Sal 36,6) secondo quanto dice il Profeta Isaia: Brillerà come sole la tua luce (Is 58,10). Tuttavia questo raggio di tanta chiarezza non si infonderà quasi attraverso porte spalancate, ma attraverso strette fessure, stando ancora in piedi questa sola, sconnessa parete del corpo. Sbagli se speri di più, per quanto progresso tu abbia fatto nella purezza del cuore, mentre dice quel grandecontemplativo: Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia (1 Cor 13,12).
9. Dopo questo sguardo di tanta degnazione e benevolenza, segue la voce che in modo blando e soave insinua la divina volontà; che non è altro che lo stesso amore, il quale non può restare ozioso, che sollecita e sprona alle cose che riguardano Dio. La sposa si sente dire di alzarsi e di affrettarsi, certamente verso gli interessi delle anime.
IV. La vera e genuina contemplazione comporta questo, che di tanto in tanto riempie di zelo e di desiderio di acquistare a Dio altri che come lei lo amino, quell’anima che ha fortemente acceso del fuoco divino, per cui molto volentieri sospende il riposo della contemplazione per applicarsi alla predicazione; e nuovamente, una volta raggiunto lo scopo, con tanto più ardore ritorni a questo suo ozio, quanto più fruttuosamente ricorda di averlo interrotto; e così, una volta saggiato il gusto della contemplazione, con più efficacia torni con alacrità a occuparsi del bene delle anime. Del resto tra queste vicissitudini il più delle volte l’anima è titubante e molto incerta, temendo, quando è contesa di qua e di là dai suoi affetti, di lasciarsi andare più del giusto da una parte o dall’altra, e di deviare così, sia pure per poco, dalla divina volontà. E forse voleva esprimere questo stato d’animo il santo Giobbe quando diceva: Se mi corico dico: quando mi alzerò? E di nuovo aspetto la sera (Gb 7,4); vale a dire: quando sono nel riposo mi rimprovero di aver trascurato il lavoro, e se sono occupato rimpiango di aver perso la quiete. Vedi come il sant’uomo è esitante tra il frutto del lavoro e il sonno della contemplazione; e come, sebbene sempre intento a opere buone, facesse sempre penitenza come se agisse male, e tutti i momenti cercasse gemendo la divina volontà. Unico rimedio, infatti, in simili frangenti è cercar rifugio nell’orazione e nel frequente gemito a Dio, perché si degni di mostrarci continuamente che cosa, quando e in che modo egli vuole che noi facciamo. Queste tre cose penso io, cioè la predicazione, l’orazione e la contemplazione sono espresse e significate in tre parole. Giustamente viene detta amica l’anima che si applica a procurare gli interessi dello Sposo predicando, consigliando, servendo. Con ragione viene dettacolomba quella che nell’orazione gemendo e supplicando per i suoi peccati non cessa di conciliarsi la divina misericordia. Giustamente è anche detta bella l’anima che ardente di celeste desiderio si riveste del decoro della superna contemplazione, nelle ore solamente in cui può farlo comodamente e opportunamente.
10. Ma vedi anche se possa adattarsi a questo triplice bene di un’unica anima quello che è detto di quelle tre persone conviventi in una sola casa, amici e familiari del Signore. Parlo di Marta che serviva, Maria che riposava, e Lazzaro che in un certo modo gemeva sotto la pietra del sepolcro, chiedendo la grazia della risurrezione. Queste cose sono state dette per il fatto che la sposa viene presentata così solerte e vigilante nell’osservare le vie dello Sposo, di modo che non le può essere nascosto quando e con quanta fretta verrà a lei, e non può essere sorpresa ignorando quando è lontano e quando è vicino, e che perciò ha meritato non solo di essere guardata con occhio di misericordia, ma è stata degnata della gioia di udire le sue parole d’amore e di godere grandemente per la voce dello Sposo.
11. Anche noi, sia pure arditamente, abbiamo aggiunto che qualsiasi delle nostre anime, se è similmente vigilante, verrà similmente salutata come amica, consolata come colomba, abbracciata come bella. Sarà reputato perfetto colui nell’anima del quale si noteranno queste tre cose unite convenientemente e opportunamente; che cioè sappia gemere per sé ed esultare in Dio, e nello stesso tempo sia in grado di venire in aiuto alle necessità del prossimo, cauto per sé, utile ai suoi. Ma chi sarà capace di questo? Voglia Iddio che queste qualità si conservino per lungo tempo in tutti noi, anche se non tutte nei singoli, ma le singole in diversi, come sembra che ci siano oggi. Abbiamo, infatti, Marta come amica del Salvatore in quelli che amministrano fedelmente le cose esterne. Abbiamo anche Lazzaro come colomba gemente: i novizi, che da poco morti ai peccati faticano per le ferite ancora fresche nel gemito, sotto il timore del giudizio, e come gli uccisi che dormono nei sepolcri, di cui nessuno più si ricorda, così essi non pensano alla stima, fino a che, al comando di Cristo, tolto il peso del timore che premeva su di loro come masso di pietra, possano respirare nella speranza del perdono. Abbiamo anche Maria contemplante in coloro che attraverso un lungo tirocinio, sono riusciti a ottenere qualche cosa di meglio e di più lieto, quando già fiduciosi del perdono si dilettano, senza saziarsi mai, non più di rievocare dentro di sé la triste immagine dei peccati, ma piuttosto di meditare giorno e notte nella legge del Signore, e ogni tanto, contemplando anche a viso aperto con ineffabile gaudio la gloria dello Sposo, vengono trasformati nella stessa immagine di chiarezza in chiarezza secondo l’azione dello Spirito del Signore. Vedremo in un altro sermone a quale scopo esorti la sposa ad alzarsi e affrettarsi colui che poco prima sembrava prenderne le difese perché non fosse disturbata nel sonno. Ci assista lui stesso per farci comprendere il significato di queste figure, lo Sposo cioè della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LVIII
I. Senso della parola in cui si dice alla sposa di affrettarsi e verso che cosa. II. Il tempo adatto alla potatura e che cosa sia l’inverno e che cosa la pioggia che la impedisce. III. Quali sono le nubi buone o cattive o le piogge, e quali i fiori che poi appassiscono. IV. La potatura della vigna secondo il senso morale, cioè dell’anima e quando sia necessaria, cioè sempre.
I. 1. Sorgi, affrettati amica mia, mia colomba, mia bella e vieni (Cant 2,10). Chi dice questo? Lo Sposo, senza dubbio. E non è forse egli stesso che poco prima proibiva severamente di svegliare la diletta? Come mai, dunque, ora solo le comanda di sorgere, ma anche di far presto? Viene in mente qualcosa di simile nel Vangelo. Quella notte infatti in cui il Signore veniva tradito, avendo comandato ai discepoli che erano con lui, stanchi per la lunga veglia, di dormire ormai e riposarsi, nella stessa ora: Alzatevi, disse, andiamo, ecco è vicino chi mi tradirà (Mt 26,45). Similmente anche adesso, quasi in uno stesso momento proibisce che si svegli la sposa, e la sveglia dicendo: Sorgi, e vieni. Che cosa significa questo improvviso cambiamento di volontà o di consiglio? Penseremo a una leggerezza dello Sposo che avrebbe voluto prima ciò che subito dopo non ha voluto più? Niente affatto. Ma riconoscete quanto sopra, se ben ricordate, vi ho spiegato, e non soltanto una volta, cioè l’alternarsi dell’ozio santo con la necessaria attività, e che non appartiene a questa vita l’abbondanza della contemplazione, né la continuità della quiete, mentre urge maggiormente il lavoro imposto dal dovere, e più costringente ne è l’utilità. Secondo il suo costume perciò lo Sposo, quando sente che la diletta ha riposato un poco sul suo seno, non esita a richiamarla nuovamente alle cose che sembrano più utili. Non che la forzi contro il suo volere: non farebbe infatti egli stesso ciò che ha proibito ad altri di fare. Ma essere trascinata dallo Sposo, è per la sposa ricevere da lui il desiderio di essere trascinata, il desiderio delle buone opere, il desiderio di portar frutto per lo Sposo, in quanto per lei vivere è lo Sposo e morire un guadagno.
2. C’è anche un desiderio veemente che non solo la spinge a sorgere, ma a farlo con premura. Così dice infatti il testo: Sorgi, affrettati e vieni. Non è di lieve conforto quello che sente, vieni, e non va’, con le quali parole comprende che non è tanto mandata, quanto condotta, e che lo Sposo verrà con lei. Che cosa riterrà difficile, con un tale compagno? Ponimi, dice altrove, accanto a te, e qualsiasi mano lotti pure contro di me (Gb 17,3). E così: Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me (Sal 22,4). Non viene dunque svegliata contro la sua volontà, poiché è indotta prima a volerlo: e questo non è altro che il desiderio che le viene infusa del santo lucro da procurare. Viene anche spronata all’opera prescritta e resa più sollecita dall’opportunità del tempo. È tempo di agire (Sal 118,126), dice, o sposa, perché l’inverno è passato (Cant 2,12) quando nessuno poteva operare. Anche la pioggia che aveva inondato la terra impedendo le colture, e, o soffocava i seminati o impediva le semine, è cessata, e l’acqua è scorsa via; sono apparsi i fiori nella nostra terra (Cant 2,11) mostrando che è arrivato il tepore della primavera, tempo adatto al lavoro e che si avvicina il tempo delle messi e dei frutti. Poi aggiunge dove e quale sia il primo lavoro da fare: È venuto, dice, il tempo della potatura (Cant 2,12). Viene dunque condotta alla coltura delle vigne, le quali, perché possano produrre frutti abbondanti per i coloni, è anzitutto necessario che siano liberate dai sarmenti sterili, tagliando via quelli nocivi, e potando la parte superflua. Questo secondo la lettera.
II. 3. Ora vediamo quello che spiritualmente ci viene suggerito attraverso questo schema quasi storico. Che le vigne siano le anime o le chiese, e quale sia la ragione di questo senso, già l’ho detto e voi lo avete compreso, e non avete bisogno di sentirvelo ripetere. Per revisionare queste anime o queste chiese, per correggerle, istruirle, salvarle, è invitata un’anima più santa, che tuttavia abbia ricevuto questo compito non spinta dalla sua ambizione, ma chiamata da Dio come Aronne. Ora questo invito che cosa altro è se non un certo stimolo di carità che piamente ci spinge a lavorare con zelo per la salute dei fratelli, per il decoro della casa del Signore, l’aumento dei frutti della sua giustizia, la lode e la gloria del suo nome?
Così ogni volta che colui che per ufficio ha il compito di guidare le anime e di esercitare la predicazione, sente il suo uomo interiore mosso da religiosi sentimenti intorno a Dio, allora sappia per certo che lo Sposo è presente e lo invita alle vigne. Per che fare se non per sradicare e distruggere, per edificare e piantare?
4. Ma siccome per questo lavoro, come per ogni altra cosa sotto il cielo, non ogni tempo è adatto e conveniente, aggiunge, colui che invita, che è venuto il tempo della potatura. Sapeva questo colui che esclamava: Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza; non diamo motivo di scandalo a nessuno perché non venga biasimato il nostro ministero (2 Cor 6,2-3). Egli ammoniva di amputare le cose viziose e superflue, e tutto quello che poteva essere motivo chi scandalo e impedire i frutti della salute, sapendo che era venuto il tempo della potatura. E perciò diceva anche a un fedele coltivatore delle vigne: Ammonisci, rimprovera, esorta (2 Tm 4,2) indicando nella prima e seconda parola l’amputazione o l’estirpazione, nell’ultima la piantagione. Queste cose diceva lo Sposo per bocca di Paolo circa il tempo di operare. Ma senti quello che ha detto personalmente circa la considerazione del tempo alla nuova sposa, indicando con nuove figure nuove realtà: Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura(Gv 4,35), e inoltre: La messe è molta, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe (Mt 9,37-38). Come dunque là mostrava che era venuto il tempo di mietere le messi delle anime, così qui annunzia che è venuto il tempo di potare le vigne spirituali cioè le anime o le chiese; voleva forse farci intendere con la diversità dei vocaboli, per messi il popolo dei fedeli, e per vigne le congregazioni dei santi che fanno vita comune.
5. La stagione invernale, che qui dice è passata, mi sembra riferirsi a quel tempo in cui il Signore Gesù non si mostrava più in pubblico perché i Giudei cospiravano contro di lui, volendolo mettere a morte. E per questo diceva ad alcuni: Il mio tempo non è ancora venuto, ma il vostro tempo invece è sempre pronto (Gv 7,6); e di nuovo: Andate voi a questa festa, io non ci vado. Vi andò tuttavia in seguito anche lui, però di nascosto (Gv 7,10). Da allora fino alla venuta dello Spirito Santo, quando si riscaldarono i cuori intorpiditi dei fedeli, per opera del fuoco che il Signore mandò per questo sulla terra, fu inverno. Negherai forse che fosse inverno quando Pietro sedeva accanto al fuoco, non meno gelido nel cuore che nel corpo? Faceva freddo, è detto (Gv 18,18). In realtà il grande freddo aveva stretto il cuore del rinnegatone. Né fa meraviglia, poiché da esso era stato tolto il fuoco. Fino a poco prima, infatti, era pieno di zelo, in quanto ancora vicino al fuoco, e sguainata la spada, per non perdere il fuoco, aveva tagliato l’orecchio del servo. Ma non era quello il tempo della potatura, e perciò si senti dire: Rimetti la spada al suo posto (Mt 26,52). Era, infatti, l’ora e l’impero delle tenebre (Lc 22,53), e chiunque dei discepoli avesse levato la spada, quella di ferro o quella della parola, o sarebbe perito di spada, e non avrebbe guadagnato nessuno, né portato alcun frutto, oppure sotto il timore della spada sarebbe costretto a negare, e così sarebbe egli stesso perito, secondo la parola del Signore, che aveva subito aggiunto: Tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada (Mt 26,52). Chi infatti oserebbe stare impavido davanti alla spaventosa immagine della morte altrui, mentre trepida e cade lo stesso principe degli Apostoli, che pure era stato premunito dalla parola confortatrice del suo Signore, e invitato a confortare gli altri?
6. Del resto né lui né gli altri Apostoli avevano ancora rivestito la forza venuta dall’alto; e per questo non era cosa sicura per essi uscire a lavorare nelle vigne, manovrare la zappa della lingua e potare le viti con la spada dello Spirito, purgando i tralci perché portassero maggior frutto. E poi lo stesso Signore nella passione taceva, e interrogato su molte cose non rispondeva, divenuto, secondo il Profeta, come un sordo che non ascolta e come un uomo che non sente e non risponde (Sal 37,15). Ma diceva: Se ve lo dirò non mi crederete; se poi vi interrogherò, non mi risponderete (Lc 22,67) sapendo che, il tempo della potatura non era ancora venuto, né la sua vigna avrebbe risposto alle grandi fatiche, vale a dire, non avrebbe portato alcun frutto di fede o di opere buone. Perché? Perché era inverno nel cuore dei perfidi, e certe piogge invernali di malizia avevano allagato la terra, pronte a soffocare i semi gettati dalla parola più che a farli germogliare, o a rendere vana ogni opera per la coltivazione della vigna.
7. Di quali piogge pensate voi che io ora parli? Di quelle che vediamo sparse sulla terra dalle nubi, spinte da vento di tempesta? Non è così. Ma di quelle che dalla terra fanno salire in alto nell’aria gli uomini di spirito turbolento, che levano la bocca loro fino al cielo, e la loro lingua percorre la terra come pioggia amarissima, che rende la terra palustre e sterile, inutile sia ai seminati come alle piante, non quelle visibili e corporee, date per i nostri corporei usi, delle quali Dio non si prende cura, come neanche dei buoi. Ma a chi? Certamente a quelle colture e a quelle piante che la mano di Dio ha seminato e piantato e non quella dell’uomo, che potevano germogliare e mettere radici nella fede e nella carità, e produrre frutti salutari se fossero state irrigate da piogge buone cadute a suo tempo, sono insomma le anime per le quali Cristo è morto. Guai alle nubi che lasciano cadere su di esse piogge di tal genere che fanno fango e non portano frutto!
III. Come infatti vi sono alberi buoni e alberi cattivi, che producono differenti frutti secondo la diversa natura, frutti buoni cioè gli alberi buoni e cattivi quelli cattivi, così vi sono nubi buone che lasciano cadere piogge buone, e nubi cattive che piovono piogge cattive. E vedi se per caso non volesse insinuare questa differenza di nubi e di piogge colui che diceva: Comanderò alle mie nubi di non mandarvi la pioggia (Is 5,6). Certamente vuol dire: sulla vigna. Per quale ragione pensi tu che abbia aggiunto specificando: alle mie nubi, se non perché vi sono anche delle cattive nubi che non sono sue? Via, via, crocifiggilo! (Gv 19,15). Oh, nubi violente e torbide! Oh, pioggia torrenziale, oh, torrente di iniquità, atto più a distruggere che a fecondare! Né meno cattiva e meno amara, anche se meno impetuosa, la pioggia che ne seguì: Ha salvato gli altri, non è capace di salvare se stesso. Cristo, Re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo (Mt 27,42). La ventosa loquacità dei filosofi non è una buona pioggia: essa porta più la sterilità che non la fertilità, e molto più sono cattive piogge i cattivi dogmi degli eretici, che invece di frutti producono spine e triboli. Cattive piogge anche le tradizioni dei Farisei, che vengono redarguite dal Salvatore. Anche esse sono nubi cattive. E se non pensi che io faccia ingiustizia a Mosè, poiché egli è una buona nube, non direi tuttavia che tutta la pioggia che è scesa da essa sia buona, per non contraddire colui che dice: Io diedi loro statuti non buoni, certamente per mezzo di Mosè, e leggi per le quali non potevano vivere (Ez 20,25). Per esempio quella letterale osservanza del sabato, che significava, ma non donava riposo, il rito prescritto dei sacrifici, la proibizione di mangiare carne porcina e alcune simili cose che da Mosè vengono considerate immonde, tutto questo è pioggia che scende da quella nube; ma non voglio che scenda nel mio campo o nel mio orto. Sarà stata buona a suo tempo, se verrà dopo il tempo non la ritengo più buona. Ogni pioggia, anche se leggera e che cada leggermente, se è fuori tempo diventa molesta.
8. Dunque, fino a che queste acque pestilenziali hanno occupato la terra e l’hanno dominata, non c’è stato tempo adatto per la coltura delle vigne, né la sposa si sentì invitare alla loro potatura. Ma prosciugandosi le acque apparve la terra asciutta, e comparvero in essa i fiori, indicando che il tempo della potatura era venuto. Quando accadde questo? Quando, pensi, se non quando rifiorì la carne di Cristo nella risurrezione? E questi è il primo e il massimo fiore che apparve sulla nostra terra: Cristo è infatti la primizia. Egli, dico, fiore del campo e giglio delle valli (Cant 2,1). Gesù era creduto figlio di Giuseppe da Nazareth, che significa fiore. Questo è il fiore che apparve per primo, ma non fu il solo. Infatti molti corpi di santi, che erano morti, risorsero ugualmente, e questi come altrettanti splendidi fiori apparvero contemporaneamente nella nostra terra. Vennero nella città santa e apparvero a molti (Mt 27,53). Furono anche fiori i primi che credettero del popolo, primizie dei santi. Fiori i loro miracoli, che come fiori producevano il frutto della fede. Poiché una volta passata un poco quella pioggia dell’infedeltà, e dopo che almeno in parte cessò la e l’acqua si fu ritirata, seguì una pioggia abbondante mandata da Dio alla sua eredità, e cominciarono a spuntare i fiori. Il Signore elargì il suo bene e la nostra terra produsse i suoi fiori, talmente che in un solo giorno tremila e in un altro cinquemila del popolo abbracciarono la fede; tanto crebbe celermente il numero dei fiori, cioè la moltitudine dei credenti. Né riuscì il gelo della malizia ad avere il sopravvento sui fiori che sbocciavano, né compromettere, come capita, il frutto della vita che promettevano.
9. Poiché, essendo tutti quelli che avevano creduto investiti di una forza dall’alto, sorsero tra di essi degli uomini che si dimostrarono forti nella fede, disprezzando le minacce dei malvagi. Ebbero a soffrire molte contraddizioni, ma non vennero meno, né cessarono di compiere e di annunziare le opere di Dio. Secondo, infatti, quanto è detto nel Salmo, in senso però spirituale: Seminarono campi e piantarono vigne, e ne raccolsero frutti abbondanti (Sal 106, 37). Con il passar del tempo la tempesta si calmò, e tornata la pace sulla terra crebbero le vigne, si propagarono e dilatarono e si moltiplicarono oltre misura. E allora la sposa viene invitata a recarsi alle vigne, non per piantare, ma per potare quello che era già piantato. Ed era opportuno che fosse così, perché questo lavoro richiedeva un tempo di pace. E quando mai si sarebbe potuto compiere in tempo di persecuzione? Del resto prendere in mano spade a due tagli, compiere la vendetta tra i popoli e punire le genti, stringere in catene i loro capi e i loro nobili in ceppi di ferro, per eseguire su di essi il giudizio già scritto questo infatti significa potare le vigne queste cose dico, si possono fare appena in tempo di pace. E di questo basta.
IV. 10. Il sermone poteva finire qui se avessi prima ammonito ognuno di voi, come sôno solito fare, riguardo alla propria vigna. Chi infatti ha tagliato via da sé così radicalmente ogni cosa superflua che non ci sia più nulla in lui che abbia bisogno di potatura? Credetemi, anche le cose stroncate ripullulano, e quelle allontanate ritornano, si riaccendono le spente, e le sopite si risvegliano di nuovo. È poca cosa, dunque, l’aver potato una volta; bisogna potare spesso, anzi possibilmente sempre, perché sempre, se sei sincero, trovi qualche cosa da potare. Per quanto progresso tu abbia fatto fino a che resti in questo corpo, sbagli se pensi che i vizi siano morti, e non piuttosto mortificati. Che tu lo voglia o no, nei tuoi confini abita il Gebuseo: può essere soggiogato, ma non sterminato. So, dice l’Apostolo, che non abita in me il bene (Rm 7,18). È poca cosa se non confessa che c’è anche in lui il male. Dice: Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me (Rm 7,19-20). Dunque, o tu osi crederti migliore dell’Apostolo, perché è lui che parla così di sé, oppure devi ammettere con lui che anche tu non sei privo di vizi. La virtù tiene il mezzo tra i vizi, e quindi ha bisogno di una accurata potatura, non solo, ma di una circoncisione. Altrimenti c’è da temere che stretta tutt’intorno e rosa dai vizi, mentre tu non te ne accorgi essa languisca poco a poco, e se quelli aumentano venga soffocata. In tanto grande pericolo è necessario osservare diligentemente, e appena appariranno le teste dei vizi che rinascono, subito con pronta severità troncarle. Non può la virtù crescere di pari passo con i vizi. Dunque, perché essa prosperi non si permetta ad essi di ripullulare. Togli le cose superflue e nascono quelle salutari. Va ad aumentare l’utile quanto sottrai alla cupidigia. Applichiamoci alla potatura. Sia potata la cupidigia, e sarà rinforzata la virtù.
11. Per noi, fratelli, è sempre tempo adatto alla potatura, come sempre è tempo di lavoro. Sapete di quale inverno io parli, quel timore che non c’è nella carità, che pur essendo per tutti inizio della sapienza non perfeziona nessuno, perché sopravvenendo la carità lo scaccia come l’estate fuga l’inverno. Estate davvero è la carità, che se già è venuta, anzi perché è venuta come è giusto che io pensi di voi ha necessariamente prosciugato ogni pioggia invernale, vale a dire ogni lacrima di ansietà che prima spremeva l’amaro ricordo del peccato e il timore del giudizio. Dunque, lo dico senza esitare, e se non di tutti voi certamente di molti, questa pioggia è cessata e se n’è andata, già compaiono i fiori, segno di una pioggia più soave. Anche l’estate ha le sue piogge soavi e feconde. Che cosa più dolce delle lacrime della carità? Piange infatti la carità, ma per amore, non per tristezza: piange per il desiderio, piange con chi piange. Di tale pioggia non dubito vengano irrorati con abbondanza gli atti della vostra obbedienza, che lieto considero non resi tetri dalla mormorazione, non semioscuri dalla tristezza, ma giocondi e floridi per un certo spirituale gaudio. Essi appaiono come se sempre portaste fiori nelle mani.
12. Dunque, se l’inverno è passato, la pioggia è cessata e se n’è andata, se nuovamente sono apparsi i fiori nella nostra terra e un certo tepore primaverile di grazia spirituale indica venuto il tempo della potatura, che resta se non che ci applichiamo tutti a questo lavoro così santo, così necessario? Scrutiamo, secondo il Profeta, le nostre vie (Lam 3,40) e i nostri sentimenti, e ognuno pensi di aver fatto progresso non per il fatto di non aver trovato nulla in sé di reprensibile, ma quando avrà disapprovato ciò che di male ha trovato. Allora non ti sei scrutato invano se hai avvertito che avevi ancora bisogno di esaminarti; e ogni volta che la tua ricerca non ti ha ingannato, sempre penserai di ripeterla. Se poi fai sempre questo quando occorre, lo fai sempre. Ricordati, dunque, che sempre ti sarà necessario il divino aiuto e la misericordia dello Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LIX
I. Il motivo per cui lo Sposo dice: nella nostra terra. II. La voce o il gemito della tortora, quando probabilmente si è fatta sentire. III. Perché si parla di una tortora soltanto; la castità della tortora. IV. Udendo la voce e vedendo il fiore, cioè attraverso i segni, la fede si rafforza.
I. 1. La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra (Cant 2,12). Non posso ormai più dissimularlo: ecco, colui che è dal cielo parla della terra, con tanta degnazione, tanto amichevolmente, come uno della terra. È questi lo Sposo, il quale avendo premesso che i fiori erano apparsi sopra la terra aggiunse: nostra; ed ora ancora dice: La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. Dunque, ci sarà una ragione per un modo di parlare così inconsueto, per non dire indegno di Dio? Mai, come penso, si è parlato così del cielo, in nessun altro luogo si è parlato così della terra. Considera, pertanto, quanta soavità ci sia nel fatto che il Dio del cielo dica: nella nostra terra. Abitanti del mondo e figli degli uomini(Sal 48,3) udite: Grandi cose ha fatto il Signore per noi (Sal 125,3). Molta relazione egli ha con la terra, molta con la sposa che si è compiaciuto scegliersi dalla terra. Nella terra, dice, nostra. Questa parola non sa di principato, ma di consorzio, di familiarità. Questo lo dice come Sposo, non come Signore. E che? È il creatore e si considera consorte? Parla l’amore, che non conosce padrone. È infatti questo un carme d’amore, e non era opportuno fosse composto da altre parole che da quelle d’amore. Ama anche Dio, e non ne ha il motivo fuori di sé, ma è egli stesso il motivo per cui ama. E tanto più fortemente in quanto non tanto ha amore, ma egli stesso è amore. Ora, quelli che ama li considera amici, non servi. Infine, da maestro si fa amico, né chiamerebbe i discepoli amici se non lo fossero in realtà.
2. Vedi come anche la maestà cede all’amore? È così fratelli. L’amore non sospetta nessuno, ma nemmeno lo disprezza. Guarda con uguale occhio tutti coloro che si amano perfettamente, e in se stesso contempera i grandi e i piccoli; e non solo li rende pari, ma ne fa una cosa sola. Tu forse pensi ancora che Dio faccia eccezione da questa regola dell’amore, ma chi aderisce a Dio forma con Lui un solo spirito. Perché ti stupisci di questo? Egli si è fatto come uno di noi. Ho detto poco: non come uno, ma uno di noi. Era poco essere pari agli uomini: è uomo. Perciò chiama sua la terra nostra, ma come patria, non come possedimento. E come non l’avrebbe rivendicata come sua? Di qui gli viene la sposa, di qui la sostanza del suo corpo: di qui lo Sposo stesso, di qui l’unione dei due in una sola carne. Se una sola è la carne, perché non una patria sola? Il cielo del cielo al Signore, dice, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo (Sal 113,24). Dunque, come figlio dell’uomo eredita la terra, come Signore l’assoggetta, come creatore la governa, come Sposo la comunica. Dicendo infatti: Nella nostra terra non ne rivendica la proprietà, non ne respinge la società. E questo perché lo Sposo si è degnato di usare una parola tanto benevola dicendo: Nella nostra terra.Ora vediamo il resto.
II. 3. La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. Anche questo è un segno che l’inverno è passato, ma che è ora tempo di potatura. Questo secondo la lettera, del resto la voce della tortora non è tanto dolce in sé, ma è segno di cose dolci. Questo stesso uccello se lo comperi non ha grande valore, se lo abbatti cacciando ha un altro prezzo. La sua voce somiglia più a un gemito che a un canto, e ci ricorda che il nostro è un pellegrinaggio. Ascolto volentieri la voce di quel dottore che non cerca l’applauso per sé, ma muove me al pianto. Ti mostri veramente tortora se insegni a gemere, e se vuoi essere persuasivo bisognerà che tu cerchi di ottenere questo, più che declamando, gemendo tu stesso. L’esempio, in verità, come in molte altre cose, soprattutto in questo è più efficace che la parola. Darai alla tua parola una grande forza se si vedrà che tu sei ben persuaso di ciò di cui vuoi convincere gli altri. È più valida la voce dei fatti che quella della bocca. Fa’ come parli, e non solo più facilmente ottieni la mia correzione, ma libererai te stesso da una non lieve vergogna. Non riguarderà più te se qualcuno dirà: Legano pesanti fardelli e impongono sulle spalle della gente; ma lôro non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,4). Ma non bisogna neppure che faccia paura quell’altro detto: Tu che insegni agli altri, non insegni a te stesso? (Rm 2,21).
4. La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. Fino a che gli uomini per il servizio di Dio ricevettero solamente una mercede sulla terra e solo terra, quella che scorreva latte e miele, non si riconobbero affatto pellegrini sulla terra, né come tortore gemettero al ricordo della patria; ma piuttosto, considerando come patria l’esilio, si diedero a mangiare carni grasse e a bere mosto. Per tutto quel tempo la voce della tortora non si udì sulla nostra terra. Quando poi venne fatta la promessa del Regno dei cieli, allora gli uomini compresero che non avevano quaggiù una città stabile, e cominciarono a cercare con ardore quella futura; e allora per la prima volta manifestamente risuonò nella nostra terra la voce della tortora. Quando infatti ogni anima santa cominciò a sospirare la presenza di Cristo, a sentire con molestia la dilazione del regno, e a salutare da lontano con gemiti e sospiri la patria desiderata, non ti sembra che qualunque anima sulla terra si comportasse in questo modo, imitasse la gemebonda e castissima tortora? Da allora in poi dunque la voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. E perché l’assenza di Cristo non dovrebbe strapparmi frequenti lacrime e quotidiani gemiti? Signore, davanti a te è ogni mio desiderio, e il mio gemito non ti è nascosto (Sal 37,10). Sono stremato dai lunghi lamenti, tu lo sai; ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio (Sal 6,7). E non solo per me, ma per tutti quelli che attendono la sua manifestazione (2 Tm 4,8) sono questi gemiti. E questo è quello che Gesù diceva: Possono forse piangere i figli dello sposo finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando sarà loro tolto lo sposo, e allora piangeranno (Mt 9,15). E allora si udrà la voce della tortora.
5. È così, Gesù buono: sono venuti quei giorni. Poiché la stessa creatura geme e soffre fino a oggi i dolori del parto, aspettando la rivelazione dei figli di Dio. E non solo essa, ma anche noi gemiamo in noi stessi, aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo; ben sapendo che fino a che siamo in questo corpo, siamo pellegrini lontani da te (Rm 8,19.22-23). Né sono gemiti inutili, dal momento che dal cielo vi si risponde con tanta misericordia: Per la miseria dei bisognosi e il gemito dei poveri, ora mi alzerò, dice il Signore (Sal 11,6). Vi fu anche al tempo dei Padri questa voce gemebonda, ma rara, e ciascuno aveva in sé il suo gemito. Per cui diceva un tale: Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me (Is 24,16). Ma anche chi diceva: Il mio gemito a te non è nascosto (Sal 37,10), dimostrava che era nascosto, essendo noto a Dio solo. E perciò allora non si poté dire: La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra perché il segreto di pochi non era ancora uscito a conoscenza di molti. Ma quando si gridò apertamente: Cercate le cose di lassù (Col 3,1) dove Cristo sta seduto alla destra di Dio, cominciò ad appartenere a tutti questo gemito di tortora, e per tutti vi fu un’unica ragione di gemere, perché tutti conoscevano il Signore, secondo che si legge nel Profeta: E mi conosceranno tutti, dal più piccolo al più grande, dice il Signore (Ger 31,34).
III. 6. Se poi molti sono quelli che gemono, perché se ne indica uno solo? Voce di tortora, dice; perché non «di tortore»? Forse l’Apostolo ha risolto questa difficoltà dove dice che lo. Spirito Santo chiede per i santi con gemiti inesprimibili. È così: viene detto che egli geme, perché è lui che fa i gementi. E sebbene siano molti quelli che così senti gemere, parla la voce di uno solo per le labbra di tutti. Perché non sarebbe proprio la voce di colui che la forma sulla bocca dei singoli per le loro proprie necessità? A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune (1 Cor 3,6). La voce manifesta ognuno, e lo indica presente. E senti dal Vangelo come lo Spirito Santo ha una voce: Lo Spirito, dice, spira dove vuole, e senti la sua voce, e non sai donde venga e dove vada (Gv 3,8). Anche se non lo sapeva quel maestro morto che insegnava ai morti la lettera che uccide, sappiamolo noi che, passati dalla morte alla vita per opera del vivificante Spirito, abbiamo la prova dalla nostra certa quotidiana esperienza, sotto l’influsso della sua luce, che i nostri voti e gemiti vengono da Lui e vanno a Dio, e là trovano misericordia agli occhi di Dio. Quando mai infatti Dio non ascolterebbe la voce del suo Spirito? Ora egli sa che cosa desideri lo Spirito, perché esso chiede per i santi secondo Dio.
7. Né la tortora ci fa pensare solo ai gemiti. Essa è simbolo anche di castità. Per questo fu degna di essere offerta come ostia per il parto verginale. Dice infatti così il Vangelo: Un paio di tortore o due colombini (Lc 2,24). E sebbene altrove si sia soliti designare con la colomba lo Spirito Santo, tuttavia dato che essa è un uccello libidinoso, non fu conveniente che essa venisse offerta in sacrificio al Signore, se non in quell’età che non conosce libidine. Invece, della tortora non è indicata l’età, perché se ne conosce la castità in qualsiasi età. E poi si contenta di un solo compagno; perduto il quale non ne ammette più un altro, rimproverando la molteplicità delle nozze tra gli uomini. Poiché, anche se forse la colpa per l’incontinenza è veniale, la stessa così grande incontinenza è cosa turpe. È vergognoso che nel campo dell’onestà la ragione abbia meno forza nell’uomo che la natura nell’uccello. Si può vedere la tortora nel tempo della sua vedovanza tenersi fortemente e infaticabilmente all’osservanza della sua sacra vedovanza. La vedi ovunque sola, dappertutto la senti gemere; né la vedi mai fermarsi su di un ramo verde, perché tu impari da essa ad evitare come velenose le verdeggianti voluttà. Aggiungi che la tortora sta di preferenza sui gioghi dei monti e sulle sommità degli alberi, cosa che si confà molto bene con il proposito di mantenere la pudicizia, e così’ ci insegna a disprezzare le cose della terra e ad amare quelle celesti.
8. Da queste cose si deduce che sia voce di tortora anche la predicazione della castità. Da principio non fu udita questa voce sulla terra, ma piuttosto quell’altra: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra (Gen 9,1). Inutilmente del resto sarebbe risuonata quella voce della pudicizia, quando non si era ancora parlato della patria dei risorti, nella quale gli uomini sono molto più felici senza prendere moglie o marito, ma sono come gli angeli in cielo. Poteva forse risuonare questa voce in quel tempo, quando era considerato maledetto chi era sterile in Israele, quando gli stessi Patriarchi avevano parecchie mogli, quando un fratello era obbligato per legge a dare una discendenza al fratello morto senza figli? Ma quando risuonò dalla bocca della celeste tortora la lode degli eunuchi che si sono fatti tali per il regno di Dio, e il consiglio di un’altra castissima tortora circa la verginità prese piede, allora per la prima volta si poté dire con verità che la voce della tortora si fa sentire nella nostra terra.
IV. 9. Dunque nella nostra terra apparvero i fiori e si udì la voce della tortora, e pertanto la verità si mostrò agli occhi e si fece sentire all’udito. La voce infatti si sente, il fiore si vede. Fiore è il miracolo che, come abbiamo sopra interpretato, unendosi alla voce partorisce il frutto della fede. Anche se la fede viene attraverso l’udito, dalla vista viene la conferma. Risuonò la voce, splendette il fiore, e la verità germogliò dalla terra per la confessione dei fedeli, concorrendo la parola e il miracolo insieme nella testimonianza della fede. Queste testimonianze divennero degnissime di fede, attestando il fiore alla voce e l’occhio all’orecchio. Le cose vedute confermano quelle udite, sicché la testimonianza di due, dell’orecchio dico, e dell’occhio, sia criterio di verità. Perciò il Signore diceva: Andate a dire a Giovanni parlava difatti ai suoi discepoli le cose che avete udito e visto (Lc 7,22). Non poté dimostrare loro più brevemente, né più chiaramente la certezza della fede. E veramente questa certezza si diffuse in breve a tutta la terra, e mediante questo medesimo doppio argomento. Le cose che avete udito, dice, e visto. O parola breve, ma tuttavia viva ed efficace. Certamente affermo senza dubitare ciò che ho appreso per mezzo dell’orecchio e degli occhi. Suona la tromba della salvezza, rifulgono i miracoli e il mondo crede. Presto quello che viene detto è creduto, mentre si mostra il miracolo che stupisce. È detto poi che partiti, gli Apostoli predicarono dappertutto, mentre il Signore operava con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano (Mc 16,20). Così Gesù sul monte è trasfigurato e avvolto da uno stupendo splendore, e a questo si aggiunge la testimonianza della voce venuta dall’alto. Così nel Giordano similmente c’è il segno della colomba e la voce che rende testimonianza. Così queste due cose ovunque insieme concorrono per la divina munificenza a introdurre la fede, affinché sia aperto un largo ingresso alla verità che può entrare nell’anima per le due finestre.
10. Segue: Il fico ha messo fuori i suoi primi frutti (Cant 2,13). Non mangiamone, perché non sono maturi. Dei buoni fichi hanno l’apparenza, la somiglianza, ma non il sapore; forse ne avremo bisogno un’altra volta. Del resto facilmente cadono da sé prima del tempo, come l’erba dei tetti, la quale prima che venga strappata si dissecca, il che penso sia stato detto degli ipocriti. Non senza ragione tuttavia se n’è fatta menzione nel carme nuziale. Serviranno certamente tali fichi, anche se non per mangiare, per qualche altro uso. Nelle nozze, oltre alle vivande, si preparano necessariamente molte altre cose. Io penso che su questo non si debba passar affatto oltre, e di qualunque cosa si tratti non vorrei trattarne nella fretta della fine di questo sermone; ma ne rimando l’esposizione a un tempo meno obbligato, in un altro giorno. Se si tratti di cosa necessaria lo potrete sperimentare; solo le vostre preghiere mi ottengano l’opportunità e la facoltà di dire quello che penso per la vostra edificazione, a lode e gloria dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore che é sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LX
I. Qual è il fico o quali sono i suoi frutti primaticci o quando li ha prodotti. II. Quali sono le vigne, quale il fiore, quale il suo odore e in che modo o quando li abbia prodotti. III. Che cosa siano i fichi in senso morale, chi siano i frutti primaticci e chi le vigne.
I. 1. Il fico ha messo fuori i suoi primi frutti (Cant 2,13). Questo passo dipende dai precedenti. Aveva detto che era venuto il tempo della potatura, deducendolo sia dai fiori che erano comparsi sia dalla voce della tortora che si sentiva. Lo stesso afferma dal fatto che il fico ha messo fuori i frutti primaticci, perché non solo c’è una dimostrazione del tempo nei fiori e nella voce della tortora, ma anche nel fico. Non può essere infatti che non ci sia un clima più mite quando il fico produce i suoi frutti primaticci. Il fico non ha fiori, e invece dei fiori mette fuori dei frutti che non maturano nel tempo in cui gli altri alberi fioriscono. E come i fiori appaiono e scompaiono e non sono utili a nulla, se non che sono annunziatori dei frutti che verranno dopo, così questi primi frutti nascono, ma prima di maturare cadono, e lasciano il posto a quelli che devono maturare, essendo essi stessi inadatti ad essere mangiati. E qui dunque, come ho detto, ricava una prova del tempo e un argomento per persuadere la sposa a non essere pigra nel recarsi alle vigne, perché non rimane senza effetto il lavoro fatto per tempo. Così secondo il senso letterale.
2. E quale il senso spirituale? Per fico in questo passo intendiamo il popolo: Dio infatti si prende cura degli uomini, non delle piante. Veramente fico è il popolo, fragile nella carne, piccolo per i sentimenti, umile di animo, i cui primi frutti, per fare allusione al nome, sono grossolani e terreni. La preoccupazione del popolo non è infatti di cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, ma, come dice l’Apostolo, pensare alle cose del mondo, come piacere alle mogli, o, per le mogli, come piacere ai mariti. Costoro avranno tribolazioni nella carne (1 Cor 7,28). Ma alla fine non neghiamo che essi conseguiranno i frutti della fede, se avranno fatto una buona ultima confessione, e soprattutto se avranno riscattato le opere della carne con elemosine. Dunque, i primi frutti del popolo non sono frutti più che non lo siano i frutti primaticci dei fichi. Se poi in seguito avranno fatto degni frutti di penitenza infatti non viene prima ciò che è spirituale, ma ciò che è animale si dirà loro: Quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? (Rm 6,21).
3. Io tuttavia penso che non si possa applicare questa parola a ogni popolo: ne è indicato precisamente uno. Non si dice infatti al plurale che i fichi «hanno messo fuori», ma al singolare, come di un solo fico che ha messo fuori i suoi primi frutti, e questo è il popolo dei Giudei, a mio parere. Quante cose dice il Salvatore contro questo popolo, attraverso le parabole del Vangelo! Per esempio: Un tale aveva un fico piantato nella vigna... (Lc 13,6). E altrove: Guardate il fico e tutte le piante (Lc 21,29); e a Natanaele fu detto: Quando eri sotto il fico, io ti ho visto (Gv 1,48). E di nuovo il Signore maledice il fico perché non ha trovato frutto in esso. È detto bene fico, che, sebbene sia germogliato dalla buona radice dei Patriarchi, non volle mai crescere in altezza, mai alzarsi da terra, mai rispondere alla radice con ampiezza di rami, con generosità di fiori, con ricchezza di frutti. Male corrispondi con la tua radice, o albero piccolo, tortuoso, nodoso. Poiché la radice è santa. Che cosa degno di essa appare nei tuoi rami? Il fico, è detto, ha messo fuori i suoi primi frutti. Questi non li hai tratti da una nobile radice, o razza cattiva. Ciò che vi è in essa viene dallo Spirito Santo, e perciò tutto gentile e soave. Da dove vengono questi frutti grossolani? E veramente che cosa vi fu di non grossolano in quella nazione? Non certamente le azioni, non i sentimenti né l’intelligenza; ma neppure i riti che usò nel culto di Dio. Gli atti infatti erano tutti rivolti alle guerre, gli affetti al lucro, l’intelligenza alla materialità della lettera, il culto consisteva nel sangue degli animali e degli armenti.
4. Ma dirà qualcuno: non avendo mai cessato quella nazione di produrre questi frutti, vi fu sempre tempo di potatura, perché un unico tempo è adatto alle due cose. Non è così; diciamo che, le donne»hanno partorito non quando partoriscono, ma quando hanno dato alla luce il figlio. Diciamo che già gli alberi hanno messo i fiori, non quando cominciano a fiorire, ma quando hanno finito. Così pure è stato detto che il fico ha messo fuori i suoi primi frutti, non quando ne ha prodotti alcuni, ma quando li ha messi fuori tutti, cioè alla fine della produzione di essi. Chiedi quando si è compiuto questo tempo per quel popolo? Quando uccise il Cristo, allora fu completa la sua malizia, secondo quello che egli stesso aveva predetto: Colmate la misura dei vostri padri (Mt 23,32). E perciò sulla croce, stando per rendere lo spirito: Tutto è compiuto, disse (Gv 19,30). O quale conclusione diede ai suoi primi frutti questo fico maledetto, e pertanto condannato ad essere seccato in eterno! O come sono le cose ultime peggiori delle prime! Cominciando dai frutti inutili, è giunto ai perniciosi e velenosi. O grossolano e velenoso sentimento quello di odiare un uomo che risana i corpi degli uomini e ne salva le anime! O grossolana intelligenza, proprio da buoi, da non comprendere Dio neanche nelle opere di Dio!
5. Si lamenterà forse il Giudeo, dicendo che io sono andato troppo in là nello schernirlo, perché ho chiamato bovina la sua intelligenza. Ma lega in Isaia, e sentirà che egli la dice peggio di bovina: Il bue, dice, conosce il suo padrone, e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non mi conosce, e il mio popolo non comprende (Is 1,3). Vedi, o Giudeo, che io sono meno duro con te che il tuo profeta. Io ti ho paragonato ai giumenti, egli ti ha posto sotto di loro. Sebbene il Profeta non dicesse questo in sua persona, ma in nome di Dio, che si rivela Dio anche con le sue opere: Anche se non credete a me, credete alle opere; e se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi (Gv 10,3738); ma neanche così riescono a comprendere. Non lo scacciare i demoni, non l’obbedienza degli elementi, non la ri surrezione dei morti riuscì a convincere quell’animalesca, e peggio che animalesca, incapacità di ragionare; per cui da questa non meno strana che miserabile cecità, caddero in quell’orrendo ed enormemente grosso delitto di volgere le mani sacrileghe contro il Signore della maestà. Da allora si, si poté dire che il fico aveva messo fuori i suoi primi frutti, quando cioè le osservanze legali di quel popolo cominciarono ad essere in certo modo all’estremità superiore, in modo che arrivando le nuove, secondo la vecchia profezia, le antiche venissero buttate via, non diversamente da quanto accade con i frutti primaticci che cadono, cedendo il posto ai fichi buoni. Fino a che, dice lo Sposo, il fico non cessò di produrre i suoi primi frutti, io non ti ho chiamata, o sposa, sapendo che insieme non poteva produrre fichi buoni. Ma ora, passati quelli, è tempo che io ti chiami, poiché i prossimi saranno frutti salutari, che soppianteranno gli inutili.
II. 6. Anche le vigne, aggiunge, in fiore hanno dato il loro profumo (Cant 2,13), che è indizio dell’avvicinarsi dei frutti. Quest’odore mette in fuga le serpi. Si dice che quando fioriscono le vigne tutti i rettili velenosi se ne vanno non potendo sopportare l’odore dei nuovi fiori. Voglio che riflettano a questo i nostri novizi, e siano pieni di fiducia, pensando quale spirito hanno ricevuto, del quale i demoni non possono sopportare le primizie; se è così del fervore novizio, che sarà della perfezione assoluta? Dal fiore si stimi il frutto, e la virtù del sapore dalla forza del profumo. Le vigne in fiore hanno dato il loro profumo. In principio fu così: alla predicazione della nuova grazia segui una vita nuova in coloro che avevano creduto, i quali, tenendo una buona condotta in mezzo ai pagani, erano in ogni luogo il buon odore di Cristo. Odore buono è la buona testimonianza. Questa procede dalle opere buone come il profumo dal fiore. E poiché di tale fiore e di tale profumo le anime fedeli, nei primordi della fede nascente, apparvero cariche, come spirituali vigne, avendo buona testimonianza anche da quelli di fuori, non senza ragione penso, sentiamo detto di esse che le vigne in fiore diedero il loro profumo. A quale scopo? Affinché da esso provocati quelli che ancora non avevano aderito alla fede, considerando le buone opere dei credenti, anch’essi glorificassero Dio, e così l’odore della vita cominciasse a condurli alla vita. Perciò non senza ragione viene detto che hanno dato odore coloro che, col loro buon nome, hanno cercato non la loro, ma l’altrui salvezza. Diversamente potevano, come fanno alcuni, stimare la pietà come un lucro, per esempio di ostentazione o di mercede. Ma questo non era dare odore, ma venderlo. Ma siccome tutto facevano nella carità, in verità non vendettero il profumo, malo diedero.
7. Se poi le vigne significano le anime, i fiori le opere, l’odore la stima, i frutti che cosa significano? Il martirio. E veramente il frutto della vite è il sangue del martire. Quando avrà dato ai suoi amici il sonno, ecco dono del Signore i figli, sua grazia il frutto del grembo (Sal 126,2-3). Quasi avrei detto frutto della vite. Perché non dire il sangue dell’uva sangue purissimo, sangue dell’innocente, sangue del giusto? Perché non il mosto rosseggiante, provato, prezioso, della vigna di Sorech, spremuto dal torchio della passione? Preziosa, infine, al cospetto del Signore la morte dei suoi santi (Sal 115,15). Questo riguardo alle vigne di cui è detto che hanno dato il loro profumo.
8. Così se preferiamo riferire questo passo ai tempi della grazia, o, se si ama meglio ritenere che riguarda i Padri poiché la vigna del Signore degli eserciti è il popolo d’Israele (Is 5,7) il senso sarà: i Profeti e i Patriarchi sentirono l’odore di Cristo che doveva nascere e morire, ma non diedero allora lo stesso odore suo, perché non esibirono nella carne colui che avevano presentito nello spirito. Non diedero il suo odore, né ne pubblicarono il segreto, aspettando che fosse rivelato a suo tempo. Chi in verità allora avrebbe capito la sapienza nascosta nel mistero, non esposta nella carne? Così le vigne allora non diedero il loro odore. Ma lo diedero in seguito, quando per successive generazioni diedero al mondo Cristo, che nasceva da loro secondo la carne, partorito da una vergine. Allora veramente dico, quelle vigne spirituali diedero il loro profumo, quando apparve la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Dio, e cominciò ad essere presente nel mondo colui che pochi avevano presentito quando era ancora assente.
Quell’uomo, per esempio, che toccando Giacobbe e sentendo il Cristo aveva detto: Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo pieno che il Signore ha benedetto (Gen 27,27), dicendo questo aveva le sue delizie che riteneva per sé, senza comunicarle ad alcuno. Ma quando venne la pienezza del tempo nel quale Dio mandò il Figlio suo fatto da donna, fatto sotto la legge per redimere coloro che erano sotto la legge (Gal 4,4-5), allora l’odore che era in lui si sparse ovunque, talmente che sentendolo dagli estremi confini della terra la Chiesa esclamò: Olio sparso è il tuo nome (Cant 1,2-3), e le giovanette corsero all’odore di quell’olio. Così questa vigna sparse il suo profumo, e in quel tempo lo sparsero anche le altre nelle quali c’era stato questo stesso profumo. Come non lo avrebbero dato coloro dai quali proveniva Cristo secondo la carne? È stato detto pertanto che le vigne diedero il loro odore, sia perché le anime fedeli spandono dappertutto una buona fama di sé, sia perché sono stati rivelati al mondo gli oracoli e le rivelazioni dei Padri, e in tutta la terra si sparse il loro profumo, a detta dell’Apostolo: Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello spirito, apparve agli Angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nellagloria (1 Tm 3,16).
III. 9. È strano però se né il fico, né queste vigne hanno qualche cosa che edifichi i costumi. Io penso che questo passo sia anche morale. Dico dunque per la grazia di Dio che è in noi, che noi abbiamo fichi e vigne. I fichi che nei costumi sono più dolci, le vigne poi che nello spirito sono più ferventi. Chiunque tra di noi si comporta con spirito comunitario e sociale, e non solo vive tra i fratelli senza discordie, ma si mette a disposizione di tutti con molta dolcezza, in ogni prestazione di carità, come non direi che egli è indicato molto convenientemente dal fico? Bisogna tuttavia che questo metta fuori prima i suoi primi frutti e lasci cadere, vale a dire il timore del giudizio che la perfetta carità caccia fuori, e l’amarezza dei peccati che deve anch’essa sparire mediante una vera confessione e l’infusione della grazia, e un frequente spargimento di lacrime e le altre cose, come frutti primaticci che precedono i frutti soavi, che voi potete da voi stessi immaginare.
10. Per aggiungere ancora qualche cosa del genere che mi viene in mente, vedete come anche la scienza, la profezia, le lingue e simili possano essere considerate come primi frutti. Queste cose infatti, come quelli, verranno meno per lasciare il posto a cose migliori, dicendo l’Apostolo che anche la scienza svanirà, e le profezie scompariranno e il dono delle lingue cesserà. La fede stessa sarà soppiantata dall’intelligenza, e la visione succederà alla speranza. Come può infatti uno sperare quello che vede? Sola non viene meno la carità, ma quella con cui si ama Dio con tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze, questa non la potrei mettere con i primi frutti, né direi che appartiene al fico ma alle vigne. Coloro che sono vigne si presentano più severi che dolci, animati da uno spirito veemente, zelanti per la disciplina, austeri correttori dei vizi, ai quali si adattano molto bene quelle parole: Non odio forse, Signore, quelli che ti odiano, e non detesto i tuoi nemici? (Sal 138,21). E ancora: Mi divora lo zelo della tua casa (Sal 68,10). E a me quelli sembrano primeggiare nell’amore del prossimo, questi nell’amore di Dio. Ma fa piacere riposarsi sotto questa vite e questo fico, dove fa ombra l’amore di Dio e del prossimo. Tengo l’una e l’altro quando amo te, Signore Gesù, che sei mio prossimo perché sei uomo e hai usato con me misericordia, e nello stesso tempo sei sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LXI
I. Applicazioni della espressione che dice: «La mia colomba nelle fessure della roccia»; e quali sono le fessure della roccia. II. La casa dell’uomo sapiente ha le sue fondamenta su questa roccia; quanto è sicura questa abitazione. III. Dorso del Signore sono le ferite di Cristo, cioè le fessure della roccia; in esse abita la colomba.
I. 1. Sorgi, amica mia, mia sposa, e vieni (Cant 2,13). Dimostra lo Sposo il suo grande amore ripetendo parole d’amore. Questa ripetizione infatti è espressione d’affetto; e nuovamente sollecita la diletta al lavoro delle vigne, mostrando la sua sollecitudine per la salvezza delle anime. Poiché già abbiamo detto che per vigne si intendono le anime. Non è il caso di soffermarci inutilmente su ciò che è stato già detto. Andiamo avanti. In nessun luogo tuttavia, come ricordo, di tutto questo lavoro, aveva ancora nominato espressamente la sposa, se non adesso mentre si va alle vigne, quando ci si avvicina al vino della carità. Quando questa verrà e sarà perfetta compirà lo spirituale connubio; e saranno due, non in una sola carne, ma in un solo spirito, secondo il detto dell’Apostolo: Chi aderisce a Dio forma un solo spirito (1 Cor 6,17).
2. Segue: Mia colomba, nelle fessure della roccia, nelle aperture della maceria, mostrami il tuo volto, fammi sentire la tua voce (Cant 2,14). Ama e continua con le espressioni amorose. La chiama nuovamente con fare carezzevole, la dice sua, affermando che gli appartiene; e quello che essa era solita chiedere con insistenza a lui, ora viceversa è lui a chiedere di vederla e di parlarle. Si comporta da Sposo, ma come Sposo verecondo ha vergogna del luogo pubblico, e stabilisce di godere delle sue delizie in luogo appartato, cioè nelle fenditure della roccia e nelle aperture della maceria. Pensa dunque che lo Sposo dica così: «Non temere, amica mia, quasi che questi lavori delle vigne ai quali ti esortiamo impediscano o interrompano l’esercizio dell’amore. Vi sarà qualche modo per cui poter realizzare quello che parimenti desideriamo. Ecco, le vigne hanno delle macerie, e queste degli angoli bene adatti per noi». Questo secondo il gioco della lettera. Perché non chiamarlo gioco? Che cosa ha di serio questa stesura della lettera? Quello che suona all’esterno non è neppure degno del nostro ascolto, se al di dentro lo Spirito non aiuta la debolezza della nostra intelligenza. Non restiamo dunque fuori, perché non sembri che stiamo a descrivere i lenocini di turpi amori, che non sia mai, e offrite pudiche orecchie al discorso che stiamo facendo sull’amore; e quando pensate agli amanti stessi non vi immaginate un uomo e una donna, ma il Verbo e l’anima. E se dirò Cristo e la Chiesa è la stessa cosa, sennonché con il nome di Chiesa viene designata non una sola anima, ma l’unità, o piuttosto l’umanità di molte anime. E neppure per «fessure della roccia» o «aperture della maceria» intendete dei nascondigli simili a quelli degli operatori di iniquità, perché non vi sia alcun sospetto di opere delle tenebre.
3. Un altro ha così commentato questo passo, chiamando «fessure della pietra» le piaghe di Cristo. Giusto davvero. Cristo è infatti la pietra. Buone fessure, che provano la resurrezione di Cristo e la sua divinità. Signore mio, dice Tommaso, e Dio mio! (Gv 20,28). Da dove riportiamo questo oracolo se non dalle fenditure della pietra? In queste il passero ha trovato per sé una casa, e la tortora il nido dove deporre i suoi piccoli(Sal 83,4); in queste la colomba si trova al sicuro e guarda senza paura lo sparviero che vola all’intorno. E perciò dice: Mia colomba nelle fessure della roccia. Voce della colomba: Mi solleva sulla rupe (Sal 26, 6); e ancora: I miei piedi ha stabilito sulla roccia (Sal 39,3).
II. L’uomo saggio costruisce la sua casa sopra la roccia, perché così non teme né la furia dei venti, né il pericolo delle inondazioni. Che cosa non c’è di buono nella roccia? Sulla roccia innalzato, sulla roccia sicuro, sulla roccia sto saldo. Sicuro dal nemico, forte dalla caduta, e questo perché innalzato da terra. Tutto ciò infatti che è terreno tentenna ed è caduco. La nostra vita sia in cielo, e non avremo più paura né di cadere, né di essere buttati giù. Nei cieli è la roccia, in essa stabilità e sicurezza. Le rocce sono rifugio per gli iraci (Sal 103,18). E veramente dove vi può essere sicuro e stabile riposo per gli infermi se non nelle piaghe del Salvatore? Tanto più sicuro là abito, quanto più egli è potente nel salvare. Freme il mondo, preme il corpo, tende insidie al diavolo; non cado; sono infatti fondato sulla roccia. Ho commesso un grave peccato, si turberà la coscienza, ma non si abbatterà, perché mi ricorderò delle piaghe del Signore. Infatti Egli è stato trafitto per i nostri delitti (Is 53,5). Chi è talmente affetto da male mortale che non possa essere salvato dalla morte di Cristo? Se dunque mi verrà alla mente una medicina così potente ed efficace, nessuna malattia, per quanto maligna, mi farà paura.
4. È perciò chiaro che ha sbagliato colui che ha detto: la mia iniquità è troppo grande perché io meriti il perdono (Gen 4,13). Sennonché egli non era delle membra di Cristo, né lo riguardavano i meriti di Cristo, in modo da poter dire suo quello che era di lui, come membra del capo. Io invece con fiducia prendo per me dalle viscere del Signore quanto mi manca, perché abbondano in misericordia, né mancano le fenditure per cui possano scorrere fino a me. Hanno forato le sue mani e i suoi piedi, hanno squarciato il fianco con la lancia, e attraverso queste fessure io posso succhiare il miele della pietra e l’olio del durissimo sasso, cioè gustare e vedere com’è soave il Signore. Egli nutriva pensieri di pace e io non lo sapevo. Chi infatti conosce i sentimenti del Signore, o chi fu suo consigliere? (Ger 29,11). Ma il chiodo penetrando, fu per me come una chiave che mi ha aperto perché io vedessi la volontà del Signore. Come non avrei potuto vedere, attraverso quella ferita? Grida il chiodo, grida la piaga che veramente in Cristo c’è Dio che riconcilia a sé il mondo. Il ferro trapassò la sua anima, e si avvicinò al suo cuore (Sal 104,18) perché ormai non possa più non compatire alle mie debolezze. È aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo, appare quel grande sacramento della pietà, appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visitò dall’alto un sole che sorge (Lc 1,78). Che cosa appare attraverso le piaghe, se non le viscere? In che cosa poteva risplendere più chiaro che Tu, o Signore, sei soave e mite e di grande misericordia (Sal 85, 5) che nelle tue piaghe? Nessuno infatti ha una compassione più grande di colui che dà la sua vita per gli schiavi e i condannati.
5. Il mio merito, pertanto, è la misericordia del Signore. Non sono privo di meriti fino a che egli non lo è di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte, anche i miei meriti sono molti. Che importa se ho coscienza di molti delitti? Dove abbondarono i delitti, sovrabbondò anche la grazia (Rm 5,20). E se la misericordia del Signore è da sempre e dura in eterno (Sal 102,17), anch’io canterò in eterno le misericordie del Signore (Sal 88,1). Si tratta di giustizie mie? Signore, ricorderò che tu solo sei giusto (Sal 70,16). Ma la tua giustizia è anche mia in quanto tu ti sei fatte per me giustizia per opera di Dio. Ho forse da temere che una sola giustizia non basti per entrambi? Non é essa un mantello corto, che secondo il Profeta non sia sufficiente a coprire due. La tua giustizia dura in eterno (Sal 118,142). Che cosa è più lungo dell’eternità? Coprirà abbondantemente te e me una giustizia larga ed eterna. E in me copre la moltitudine dei peccati; in te poi, o Signore, che cosa nasconde, se non tesori di pietà e ricchezze di bontà? Queste nelle fenditure della roccia sono riposte per me. Quanto è grande la moltitudine della tua dolcezza in esse (2 Cor 15) coperte tuttavia per quelli che periscono! Perché, infatti, dare le cose sante ai cani, e le perle ai porci? A noi invece le ha svelate Dio per mezzo del suo spirito (1 Cor 2,10) e per l’apertura delle piaghe ci ha introdotti nel santuario. Quale grande dolcezza in ciò, quale pienezza di grazia, quale perfezione di virtù!
6. Andrò per me a quella dispensa così ben fornita, e, ascoltando il monito del Profeta, lascerò la città e andrò ad abitare sulla roccia. Sarò come colomba che fa il nido in cima all’apertura della fenditura, affinché con Mosè posto nella spaccatura della roccia, passando il Signore, meriti almeno di vedere il suo dorso. Poiché chi potrà veder la sua faccia da fermo, cioè lo splendore dell’immutabile, se non colui che meritò di essere introdotto non solo nel santo, ma nel santo dei santi?
III. Del resto non è cosa da poco contemplare il dorso del Signore. Questo disdegni pure Erode; io tanto meno lo disdegno quanto più il Signore si mostrò a Erode degnò di disprezzo. Ha qualche cosa il dorso del Signore, che è bello a vedersi. Chi sa se si volti il Signore, e perdoni, e lasci dietro a sé una benedizione? Sarà quando mostrerà la sua faccia, e saremo salvi. Ma frattanto ci prevenga con dolci benedizioni, quelle che è solito lasciare dietro a sé. Per ora ci mostri il dorso della sua degnazione, riservandosi di mostrarci più tardi nella gloria la faccia della sua dignità. Sublime nel regno, ma soave sulla croce. In questa visione mi prevenga, in quell’ultima mi riempirà. Mi riempirai di gioia alla tua presenza (Sal 15,11). Entrambe le visioni sono salutari, entrambe soavi; ma una nella sublimità, l’altra nell’umiltà, una nello splendore, l’altra nel pallore.
7. E il suo dorso nel pallore dell’oro (Sal 76,14). Come non impallidisce nella morte? Ma è meglio l’oro pallido che l’ottone lucente e ciò che è stolto di Dio è più sapiente degli uomini (1 Cor 1,25). Oro è il Verbo, oro è la sapienza. Quest’oro ha scolorito se stesso nascondendo la forma di Dio e mostrandosi con la forma di schiavo. Ha scolorito anche la Chiesa che dice: Non badate al fatto che sono scura, perché mi ha scolorita il sole (Cant 1,5). Dunque anche il suo dorso è di oro pallido, perché non si vergognò dell’oscurità della croce, non ebbe orrore dell’ustione della passione, non rifuggì dal livore delle piaghe. Anzi si compiace in esse e brama che le sue ultime siano simili a queste! Perciò in fine si sente dire: Mia colomba nelle fessure della roccia, perché medita con tutta devozione le piaghe di Cristo, e con costante contemplazione abita in esse. Di qui la pazienza nel martire, di qui la sua grande fiducia nell’Altissimo. Non ha nulla da temere il martire che leva il suo volto esangue e livido verso di lui, dalle cui lividure è stato sanato, imitandone la gloriosa morte, veramente nel pallore dell’oro. Che ha da temere, mentre gli viene detto dal Signore: Mostrami il tuo volto? Per quale ragione? A mio parere vuole piuttosto farsi vedere lui. È così: vuole essere veduto, non vedere. Che cosa infatti c’è che egli non veda? Non c’è bisogno che uno si mostri dal momento che egli vede tutto, anche se uno volesse nascondersi. Vuole dunque essere veduto, vuole il duce benigno, che il volto e gli occhi del devoto soldato si levino alle sue piaghe, per sollevare così l’animo suo e con il suo esempio renderlo più forte nel sopportare.
8. Poiché guardando le piaghe di lui non sentirà le sue. Ecco il martire tripudiante e trionfante, sebbene abbia tutto il corpo lacero, e mentre il ferro gli penetra i fianchi non solo con fortezza ma con ardore vede ribollire il sacro sangue dalla sua carne. Dov’è allora l’anima del martire? È al sicuro, cioè nella pietra, nelle viscere di Gesù, che con le ferite aperte invita ad entrarvi. Se l’anima del martire fosse nelle sue proprie viscere, certamente sentirebbe il ferro che le lacera, e non sopporterebbe il dolore e soccomberebbe rinnegando. Ma abitando nella pietra, che meraviglia c’è se è duro come la pietra? Ma non fa neppure meraviglia se, assente in qualche modo dal corpo, l’anima non sente i dolori del corpo. Questo è effetto non di insensibilità, ma di amore. Il senso viene sottomesso, non perso. Non manca il dolore, ma viene disprezzato. Dunque, dalla pietra deriva la fortezza del martire, da essa il martire ottiene di essere forte nel bere il calice del Signore. E come è splendido questo calice inebriante! Splendido dico, e giocondo, non meno a Cristo che guarda quanto al soldato trionfante. Il gaudio infatti del Signore è la nostra fortezza (2 Esd 8,10). Come non godrà alla voce di una fortissima confessione? E la cerca anche con desiderio: Risuoni, dice, la tua voce alle mie orecchie (Cant 2,14). Né tarderà a dare il contraccambio, secondo la sua promessa: non appena uno lo avrà confessato davanti agli uomini, lo riconoscerà anche lui davanti al Padre suo. Interrompiamo il sermone; non può finire ora perché non rispetteremmo i limiti se volessimo abbracciare in questo solo sermone quanto ci rimane da dire su questo capitolo. Quello che resta, dunque, lo riserviamo al principio del prossimo sermone, perché della nostra parola e della nostra misura goda lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LXII
I. Che cosa è la «maceria», o quali le sue aperture nelle quali dimora la colomba. II. L’anima si fa queste aperture nella «maceria» degli angeli e si scava la roccia, cioè Cristo, sull’esempio di Paolo e di Davide. III. I due generi della contemplazione della maestà divina; chi è che viene schiacciato dalla visione della gloria e chi no. IV. La Chiesa abita nella roccia nei fedeli perfetti, nella «maceria» nei meno perfetti, in terra in una fossa a causa degli infermi. A chi dice: «Mostrami il tuo volto, risuoni la tua voce ecc.».
I. 1. Mia colomba nelle fenditure della roccia, nelle aperture della maceria. La colomba ha trovato rifugio non solo nelle fenditure della roccia, ma anche negli anfratti della maceria. Che se per «maceria» intendiamo non una congerie di pietre, ma la comunione dei santi, vediamo se per aperture della maceria abbia voluto intendere luoghi lasciati vuoti dagli angeli che sono decaduti a causa della superbia, e che devono essere occupati dagli uomini, come rovine da restaurarsi con pietre vive. Per questo dice l’Apostolo Paolo: Stringendovi a lui pietra viva, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale (1 Pt 2,4-5). Né penso sia fuori luogo se diciamo che la custodia degli angeli tiene il posto della maceria nella vigna del Signore, che è la Chiesa dei predestinati, dicendo san Paolo: Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza? (Eb 1,14). E il Profeta: L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva (Sal 33,8). E se è così starà bene quel senso, perché due cose consoleranno la Chiesa nel tempo del suo pellegrinaggio: riguardo al passato, la memoria della passione di Cristo, e riguardo al futuro il fatto che pensa e ha fiducia di essere ammessa nell’assemblea dei Santi. Essa considererà queste due cose quasi fosse dotata di occhi davanti e di dietro, con insaziabile desiderio; e la vista delle due cose, molto piacevole, le serve di rifugio nei mali e nel dolore. Piena consolazione quando non solo sa cosa debba aspettarsi, ma anche da chi lo aspetta. Attesa senza dubbi, che è garantita dalla morte di Cristo. Come può aver dubbi per la grandezza del premio, quando considera la dignità del prezzo? Con quale gioia guarda con la mente le fenditure per le quali è scaturito il prezzo del sangue sacrosanto! Con quale gioia passa per gli anfratti della maceria, vede le stanze e i posti che sono molti e diversi nella casa del Padre, nei quali deve collocare i suoi figli secondo la diversità dei loro meriti! E per ora, unica cosa che può fare, riposa in essi con la sola memoria, rivestendo già con l’animo il celeste abitacolo che viene di lassù. Avverrà poi che abiterà le rovine quando abiterà con il corpo e con la mente le aperture della maceria; quando illustrerà con la sua universale presenza quei domicili vuoti che gli antichi abitatori hanno abbandonato, né vi apparirà più anfratto alcuno nella celeste maceria, che godrà anch’essa di essere reintegrata e ritornata perfetta.
II 2. Oppure, se meglio ti garba, diremo che queste caverne non vengono trovate, ma fatte dalle menti studiose e pie. In che modo? Chiedi. Con il pensiero e il desiderio. Cede infatti come una materia fragile la pia maceria al desiderio dell’anima, cede alla pura contemplazione, cede alla frequente orazione. L’orazione del giusto, infatti, penetra i cieli(Eccli 35,21). Non le altezze di questa aria materiale, non con l’aiuto delle ali, come gli uccelli che fendono l’aria volando, o perforerà come una acuta spada la volta solida ed eccelsa del firmamento; ma si tratta dei cieli santi, vivi, razionali, che narrano la gloria di Dio, i quali, mossi da pietà in nostro favore si inclinano volentieri ai nostri voti, e come aprendoci il seno al contatto dei sentimenti della nostra devozione, ci ricevono nelle loro viscere ogni volta che bussiamo con degna intenzione alla loro porta. A chi bussa, infatti, verrà aperto (Mt 7,8). Ognuno di noi, pertanto, potrà, anche nel tempo della nostra vita mortale, scavarsi un’apertura in qualsiasi parte vorrà della celeste maceria: e ora visitare i Patriarchi, ora salutare i Profeti, ora mescolarsi al senato degli Apostoli, ora inserirsi ai cori dei Martiri; esaminare passando con tutto l’ardore della mente le condizioni e le mansioni delle beate Virtù, dal minimo degli Angeli fino ai Cherubini e Serafini, quanto comporterà la sua devozione. Da quelli che più lo colpiranno secondo l’azione dello Spirito che agisce come vuole, se si fermerà e busserà subito gli sarà aperto, e fattasi come una caverna nei monti, o piuttosto nelle menti sante, mentre esse si piegano per fargli posto mosse dalla pietà, potrà riposarsi un poco presso di loro. Ogni anima che fa in questo modo ha un volto e una voce che piace a Dio. Volto per la purità, voce per la confessione. La confessione infatti e la bellezza sono davanti a Lui (Sal 95,6). Perciò viene detta colei che è così: Mostrami il tuo volto, risuoni nelle mie orecchie la tua voce. Voce è l’ammirazione nell’animo del contemplante, voce è pure il ringraziamento. Si compiace molto di queste caverne Iddio, dalle quali risuona la voce del ringraziamento, la voce di ammirazione e di lode.
3. Felice la mente che si applica a scavarsi un posto di frequente in questa maceria, ma più felice quella che lo scaverà nella pietra! Si può infatti scavare anche nella pietra, ma per questo ci vuole la punta di una mente più pura e una intenzione più forte, e anche dei meriti più grandi. E chi mai è all’altezza di questi compiti? (2 Cor 2,16). Certo colui che disse: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio; questo era in principio presso Dio (Gv 1,1-2). Non ti sembra che si sia immerso negli stessi penetrali del Verbo, e dall’intimo del suo petto abbia scavato il midollo sacrosanto della intima sua sapienza? Che cosa dire di colui che parlava tra i perfetti la sapienza nascosta nel mistero che nessuno dei principi di questo mondo conobbe. E dopo aver con pia curiosità trapassato il primo e il secondo cielo, non ha forse questo pio scrutatore spinto questa sua curiosità fino al terzo? Ma questa sapienza non l’ha tenuta celata a noi, parlandone fedelmente ai fedeli con le parole che poté. Ma ascoltò parole ineffabili che non poté ripetere agli uomini, potendole usare solo nel colloquio tra sé e Dio. Pensa dunque che Dio consoli la sollecita carità di Paolo, e gli dica: perché ti preoccupi perché l’umana intelligenza non comprende i tuoi concetti?Risuoni la tua voce alle mie orecchie. Vale a dire: «Se quello che provi non riesci a rivelarlo ai mortali, consolati, perché la tua voce può essere gradita alle divine orecchie». Vedi come la santa anima ora ha per noi una sobria carità, ora una carità estatica per Dio. Vedi anche a riguardo del santo Davide, che non sia lui stesso l’uomo che parla a Dio come se si trattasse di un altro: Poiché il pensiero dell’uomo ti darà gloria, e il resto del pensiero ti farà festa (Sal 75,11). Dunque, poiché con la parola e l’esempio del Profeta il suo pensiero profetico poteva esser conosciuto, subito il Profeta ne faceva una pubblica confessione, e ne traeva materia per lodare il Signore tra il popolo, riservando il resto del pensiero a sé e a Dio, facendo festa con lui nella letizia e nell’esultanza (Sal 44,16). Questo volle significarci con il citato versetto. Di tutto quello, cioè, che quel suo pensiero avido di scrutare riusciva a scavare dal segreto della sapienza, ne impartiva la parte che poteva per la salvezza dei popoli mediante una sollecita predicazione; il resto, che la gente non poteva comprendere, lo impiegava con festoso giubilo nelle divine lodi. Vedi come la santa contemplazione utilizza tutto, e tutto quello che non può essere impiegato per l’edificazione dei popoli può diventare molto bene gioconda e bella lode aDio (Sal 146,1).
III. 4. Stando così le cose, ne deriva che vi sono due generi di contemplazione: uno circa lo stato, la felicità e la gloria della città celeste, che cosa faccia o come sia il riposo di quella immensa moltitudine di celesti cittadini, l’altro circa la stessa maestà del Re, la sua eternità, la sua divinità. Il primo nella maceria, l’altro nella roccia. Ma quest’ultima specie di contemplazione, quanto è più difficile da scavarsi, altrettanto quello che scavi è più dolce e saporoso. Né temere la minaccia della Scrittura per coloro che scrutano la maestà. Porta solo un occhio puro e semplice; non sarai oppresso dalla gloria, ma vi sarai ammesso, a meno che non cerchi la gloria di Dio, ma la tua. Diversamente uno viene oppresso dalla sua propria gloria, non da quella di Dio, mentre tendendo a questa sua gloria non gli lascia alzare la testa a quella di Dio, in quanto resa pesante dalla cupidigia. Liberiamoci da questa e scaviamo nella Pietra nella quale sono nascosti i tesori della sapienza e della scienza. Se ancora dubiti, ascolta la stessa Pietra: Quelli che per me operano non peccheranno (Eccli 24,30). Chi mi darà ali come di colomba, perché possa volare e riposarmi? (Sal 54,7). Là trova riposo il mansueto e il semplice, mentre invece chi ha l’inganno nel cuore viene schiacciato, come il superbo e colui che è avido di vanagloria. La Chiesa è colomba, e perciò riposa. Colomba perché innocente, perché geme. Colomba, dico, che nella mansuetudine accoglie la parola seminata in lei. E riposa nel Verbo, cioè nella Pietra, poiché la pietra è il Verbo. La Chiesa è, dunque, nelle fenditure della roccia, attraverso le quali guarda dentro e vede la gloria del suo Sposo; né tuttavia viene oppressa da questa gloria, perché non la usurpa per sé. Non viene schiacciata perché non è scrutatrice della maestà, ma della volontà. Poiché, per quanto riguarda la maestà, ogni tanto osa fissare in essa lo sguardo, ma come per ammirare, non per scrutare. E se talvolta capita di venire rapiti in estasi nella contemplazione di essa, è questo l’effetto del dito di Dio che eleva l’uomo, non temerità dell’uomo che cerca di invadere insolentemente i segreti di Dio. L’Apostolo, infatti, quando ricorda di essere stato rapito, quasi si scusa di aver osato tanto; chi altro mai dei mortali presumerebbe con propri sforzi di intricarsi con importuna contemplazione e orrenda investigazione della divina maestà e irrompere nei divini arcani? Gli scrutatori, pertanto, della maestà, penso si possano dire quelli che irrompono, non quelli che sono rapiti in essa, ma irrompono in essa. Costoro, si, vengono schiacciati dalla gloria.
5. È, dunque, cosa da temere lo scrutare la maestà; ma scrutare la volontà è cosa sicura e pia. Perchè non dovrei insistere con somma diligenza nello scrutare il mistero della gloria della volontà alla quale so di dovermi sottomettere in tutto? Soave gloria, che procede dalla contemplazione della soavità di lui, e dalla vista delle ricchezze della sua bontà e della sua grande misericordia. Infine abbiamo visto questa gloria, gloria come dell’Unigenito del Padre (Gv 1,14). È, infatti, tutto benignità e veramente paterno quello che apparve della gloria in questa parte. Non mi opprimerà questa gloria, anche se fisso lo sguardo in essa con tutte le forze. Io piuttosto mi imprimerò in essa. Infatti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore (2 Cor 3,18). Siamo trasformati quando siamo conformati. Non certo nella gloria della maestà, ma presuma modestamente l’uomo la conformità con la volontà di Dio. La mia gloria è questa, se giungerò a udire di me: «Ho trovato un uomo secondo il mio cuore». Cuore dello Sposo, cuore del Padre suo. Quale? Dice: Siate misericordiosi, come il vostro Padre è misericordioso (Lc 6,36). Questa è la forma che desidera vedere mentre dice alla Chiesa: Mostrami il tuo volto, forma di pietà e di mansuetudine. Questo volto leva con tutta fiducia alla Pietra, alla quale assomiglia. Accostatevi a Lui e sarete raggianti, e i vostri volti non saranno confusi (Sal 33,6). Come potrà l’umile essere confuso dall’umile, la santa dal pio, la modesta dal mansueto? Non avrà troppa paura della purità della Pietra il volto puro della sposa, non più che la virtù avrà da temere dalla virtù e la luce dalla luce.
IV. 6. Ma siccome per il momento la Chiesa non è ancora in grado da ogni parte di accedere a forare la pietra non è infatti di tutti quelli che sono nella Chiesa esaminare i segni della divina volontà, o apprendere da se stessi le profondità di Dio perciò viene detto che abita non solo nelle fenditure della pietra, ma anche nelle buche della maceria. Dunque, nei perfetti che ardiscono scavare e penetrare con una coscienza pura e cön l’acume dell’intelligenza gli arcani della sapienza, abita nelle fenditure della roccia. Per il rimanente abita negli anfratti della maceria, affinché coloro che, o non possono da se stessi scavare nella pietra, o non ardiscono farlo, scavino nella maceria, contenti di contemplare almeno la gloria dei santi. Se a qualcuno neppure questo è possibile, a questi propone Gesù crocifisso, perché anch’egli senza sua fatica abiti nelle fenditure della Pietra per scavare le quali non ha faticato. I Giudei hanno fatto questo lavoro, ed egli entrerà nel lavoro degli infedeli per essere fedele. Né vi è da temere che incontri una ripulsa, perché è stato chiamato per entrare: Entra tra le rocce, dice Isaia, nasconditi nella fossa di fronte al timore che desta il Signore, allo splendore della sua maestà (Is 2,10). All’anima ancora inferma e inerte che, come confessa quel tale nel Vangelo, non ha la forza per scavare e si vergogna di mendicare, viene mostrata una fossa scavata nella terra dove stia nascosta, fino a che guarisca e progredisca, e possa poi anch’essa da sé scavarsi dei buchi nella pietra per i quali penetrare nell’intimo del Verbo, mediante il vigore e la purezza dell’anima.
7. E se per terra scavata intendiamo quella di cui è detto: Hanno forato le mie mani e i miei piedi (Sal 21,17), non c’è da dubitare che l’anima ferita che dimorerà in essa, acquisterà presto la salute. Che cosa vi è infatti di più efficace per curare le ferite della coscienza e purificare la punta della mente, quanto l’accurata meditazione delle piaghe di Cristo? Tuttavia fino a che sia completamente purgata e risanata, non vedo come le possa convenire quello che è detto: Mostrami il tuo volto, risuoni nelle mie orecchie la tua voce. Come del resto oserebbe mostrare il suo volto e levare la sua voce colei alla quale si dice di starsene nascosta? Nasconditi in una buca della terra (Is 2,10). Perché? Perché il tuo volto non è bello né degno di essere veduto. Non sarà degno di essere veduto fino a che non sarà in grado di vedere. Quando poi per il soggiorno nella fossa di terra avrà progredito nel sanare l’occhio interiore in modo da poter anch’essa contemplare a faccia scoperta la gloria di Dio, allora essa potrà ormai dire con fiducia quello che vedrà, divenuta gradita quanto alla voce e al volto. È necessariamente gradito il volto che può fissare lo splendore di Dio. Non sarebbe infatti in grado di farlo se non fosse esso stesso splendente e puro, trasformato cioè in quella stessa immagine di splendore che contempla. Diversamente con la stessa dissomiglianza si tirerebbe indietro come folgorato da insolito fulgore. Dunque, quando l’anima pura potrà intuire la pura verità, allora lo Sposo bramerà vedere il suo volto, e per conseguenza udire la sua voce.
8. Quanto infatti gli piaccia la predicazione della verità fatta con purezza di mente, lo mostra subito dopo dicendo: Perché la tua voce è soave. E dimostra che non gli piace la voce se gli dispiace la faccia, soggiungendo subito: E il tuo volto è leggiadro (Cant 2,14). Qual è l’interno decoro del volto se non la purità? In molti questa piacque senza la voce della predicazione; in nessuno invece piacque la voce senza il volto leggiadro. Agli impuri la verità non si mostra, non si dona la sapienza. Che cosa dicono, dunque, se non videro? Noi parliamo di quel che sappiamo, e testimoniamo quello che abbiamo veduto, dice (Gv 3,11). Va’ dunque tu, e testimonia, se lo sai, quello che non hai veduto, e parla di cose che ignori. Chiedi chi io chiamo impuro? Colui che va in cerca di lodi umane, che non predica gratuitamente il Vangelo, che evangelizza per mangiare, chi fa della pietà un mercato, chi non bada al frutto, ma a quello che gli si dà. Tali sono gli impuri. E quelli che non sono in grado dì vedere la verità a causa della loro impurità, hanno tuttavia modi di predicarla. Perché agite così in fretta, perché non aspettate la luce? Perché presumete di compiere l’opera della luce prima della luce? Invano vi alzate prima della luce (Sal 126,2). Luce è la purità, luce è la carità, che non cerca il proprio interesse. Questa preceda, e il piede della lingua non si poserà sul mal sicuro. Con occhio superbo non si vede la verità, questa si manifesta a chi è schietto. La verità non trova difficoltà per manifestarsi al cuore mondo, né per essere predicata da esso. Ma al peccatore dice Dio: perché vai ripetendo i miei decreti, e hai sempre in bocca la mia alleanza? (Sal 49,16). Molti, trascurando la purità, hanno cercato di parlare prima di vedere, e o errarono gravemente, non sapendo di che cosa parlassero o che cosa affermassero, o si resero vergognosamente vili, insegnando agli altri ciò che essi non avevano imparato. Da questo doppio male ci preservi sempre per le vostre preghiere lo Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LXIII
I. La vigna che le volpi distruggono. II. Soltanto il sapiente ha la vigna, la vite, il palmizio, il vino; quali sono le volpi che la distruggono e come sono catturate. III. I frutti della vigna; i novizi sono i fiori; che cosa questi fiori devono temere.
I. 1. Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne perché la nostra vigna è in fiore (Cant 2,15). Si vede che non si è andati inutilmente alle vigne, poiché si sono trovate le volpi che le guastano. Questo dice la lettera. Che cosa ci fa intendere lo spirito? Anzitutto dobbiamo rifiutare assolutamente in questo commento il senso usuale e comune della lettera, come inadatto e insulso e assolutamente indegno di essere inteso nella Scrittura, così santa, così autentica. A meno che uno sia talmente insensato e stolto di animo da stimare gran cosa l’aver appreso da essa, come i figli di questo secolo, ad aver cura dei terreni possedimenti, a custodire e difendere le vigne dall’invasione di bestie, perché non si abbia a perdere il frutto del vino, nel quale è la lussuria, e vada nello stesso tempo sprecato il lavoro e la spesa. Grande danno, per cui leggiamo con tanto amore e venerazione il Sacro Libro, per essere edotti da esso a custodire le vigne dalle volpi, affinché nel coltivarle non si svuotino le nostre borse, se saremo stati pigri nella loro custodia. Voi non siete talmente rozzi, né talmente privi di grazia spirituale per avere tali carnali sentimenti. Dunque, cerchiamo per queste cose un senso spirituale. Ritroveremo saggiamente intese e in senso degno sia le vigne fiorite, sia le volpi che le saccheggiano, e un più degno lavoro e più fruttuoso nel catturarle o allontanarle. Dubitate forse voi che si debba essere molto più vigilanti nel preservare le menti che nel difendere i raccolti, e che si debba essere molto più attenti per tener lontane dalle anime le spirituali nequizie che non nel catturare le astute piccole volpi per difendere i raccolti?
2. Ma ora tocca a me dimostrare che cosa siano sia queste viti che queste volpi spirituali. Sarà vostro interesse che ciascuno provveda alla sua propria vigna, quando ascoltando le mie parole avvertirà in che cosa e da che cosa debba soprattutto guardarsi. Per l’uomo sapiente è una vigna la sua vita, la sua mente, la sua coscienza. Il sapiente, invero, non lascerà in sé nulla di incolto o di deserto. Non così lo stolto: tutte le cose troverai presso di lui trascurate, tutte abbandonate, incolte e sporche. Non c’è vigna per lo stolto. Come potrebbe essere tale dove nulla è piantato, nulla appare in qualche modo lavorato? La vita dello stolto è tutta una selva di triboli e spine; che razza di vigna sarebbe questa? Anche se lo è stata non lo è più ora, ridotta com’è in desolazione. Dov’è la vite della virtù? Dove il grappolo delle opere buone? Dove il vino della spirituale letizia? Sono passato per il campo dell’uomo pigro, dice, e per la vigna di un uomo insensato: ecco, ovunque erano cresciute le ortiche e il terreno era coperto di spine, e la maceria intorno era rovinata (Pr 14,30-31). Senti come il sapiente canzona lo stolto perché ha ridotto, trascurandola, in non vigna la sua primitiva vigna, cioè i beni di natura e i doni di grazia che aveva forse ricevuto per il lavacro di rigenerazione, come appunto una vigna piantata da Dio, e non dall’uomo. Infine, non ci può essere vigna dove non c’è vita. Poiché quella che vive lo stolto la riterrei piuttosto morte che vita. Come infatti si può conciliare la vita con la sterilità? Una pianta secca e che non dà più frutto non viene forse giudicata morta? E anche i sarmenti sono morti. Uccise con la grandine le loro vigne (Sal 77,47), dimostrando prive di vita quelle che erano condannate alla sterilità. Così lo stolto, per il fatto che vive inutilmente, pur vivendo è morto.
II. 3. Solo, pertanto, il sapiente ha veramente, o piuttosto, è veramente vigna. Egli è una pianta che produce frutto nella casa di Dio, e per questo pianta vivente. Infatti, la sapienza stessa per la quale vien detto ed è sapiente è albero della vita per chi la possiede. Come non sarebbe vivo colui che la possiede? Vive, ma di fede. E se l’anima del giusto è sede della sapienza (Rm 1,17), davvero è sapiente colui che è giusto. Costui, dunque, sia che lo chiami giusto, sia sapiente, non vive mai senza vigna, perché sempre vive. Per lui la vigna è come la vita. E buona è la vigna del giusto; anzi, buona vigna il giusto, per il quale la virtù è come vite, le sue azioni tralci, e per il quale il vino è la testimonianza della coscienza, a cui la lingua serve come torchio di espressione. La nostra gloria è questa, dice, la testimonianza della nostra coscienza (2 Cor 1,12). Vedi come nel sapiente nulla è trascurato? Le parole, il pensiero, la condotta e tutto quello che lo riguarda, non è tutto campo coltivato di Dio, casa di Dio e vigna del Signore degli eserciti? E che cosa per lui può andare a male di lui stesso, quando le sue foglie non cadranno mai?(Sal 1,3).
4. Del resto, a una tale vigna non mancheranno mai infestazioni o insidie. Davvero dove sono molti beni, molti sono quelli che ne mangiano(Eccli 5,10). Il sapiente sarà sollecito nel preservare la sua vigna non meno che nel coltivarla, né permetterà che la divorino le volpi. Pessima volpe è l’occulto detrattore, ma non meno cattivo è il blando adulatore. Il sapiente si guarderà da costoro. Si adopererà per quanto è in lui a prendere quelli che così agiscono, ma a prenderli con i benefici e i servizi, con salutari ammonimenti e orazioni per loro a Dio. Non cesserà così di accumulare sul capo del maldicente carboni ardenti, e così sulla testa dell’adulatore, fino a che non riesca a togliere, se è possibile, dal cuore di quello l’invidia, e da questo la simulazione, mettendo così in pratica il comando dello Sposo che dice: Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne. Non ti sembra forse preso colui che, soffuso di rossore, in quanto si vergogna del suo giudizio, è testimonio della confusione e pentimento propri, sia che odiasse un uomo degnissimo, sia che amasse solo con la lingua e a parole colui dal quale ha avuto prova di essere amato con le opere e in verità? Preso davvero, e preso per il Signore, secondo che ha detto chiaramente: Prendeteci. Oh! Potessi io prendere così tutti quelli che mi avversano senza motivo, per acquistarli, o restituirli a Cristo! Così, così siano confu si e coperti di ignominia quelli che attentano alla mia vita, retrocedano e siano-umiliati quelli che tramano la mia sventura (Sal 34,4), in quanto sia anch’io trovato obbediente allo sposo, e prenda anch’io le volpi, non per me, ma per lui. Ma ritorni il sermone al suo principio, perché la serie delle spiegazioni proceda secondo il suo ordine.
5. Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne.
III. Questo è un passo morale, e secondo la disciplina morale abbiamo già mostrato che queste vigne spirituali non sono altro che gli uomini spirituali, dei quali essendo tutte le cose interiori coltivate, e tutte germoglino e facciano frutto, producendo spirito salutare, come fu detto del Regno di Dio, così di queste vigne ugualmente del Signore degli eserciti, possiamo dire che sono dentro di noi. Si dice poi nel Vangelo che il regno sarà dato a un popolo che gli farà produrre frutti. Questi sono quelli che Paolo enumera dicendo: Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, continenza, castità (Gal 5,22-23). Questi frutti sono i nostri profitti. Questi sono accetti allo Sposo, perché di noi Egli ha cura. Ma degli arbusti si cura Iddio? Il Dio-Uomo ama gli uomini e non gli alberi, e i nostri profitti li considera frutti suoi. Osserva con diligenza il loro tempo; si rallegra quando appaiono, ed è sollecito perché non vadano perduti per noi una volta apparsi, anzi, perché non vadano perduti per lui: si considera, infatti, come uno di noi. Perciò provvede a che siano catturate per sé le piccole volpi che tendono insidie per portarsi via esse i novelli frutti. Prendeteci, dice, le volpi piccoline che guastano le vigne. E quasi uno gli dicesse: «Ti preoccupi troppo presto, non è ancora venuto il tempo dei frutti», «Non è così risponde già la nostra vigna è in fiore. Dopo i fiori non tardano i frutti: appena quelli cadono, spuntano questi e si fanno subito vedere».
6. Questa parabola riguarda questo nostro tempo. Vedete questi novizi? Sono da poco venuti, da poco si sono convertiti. Non possiamo dire di essi che la nostra vigna ha fiorito; fiorisce infatti ora. Per il momento, quello che vedete apparire in essi è un fiore, il tempo dei frutti non è ancora venuto. È un fiore la nuova vita, fiore il tenore recente di una condotta più morigerata, hanno messo una faccia disciplinata e una compostezza in tutto il corpo. Fanno piacere, lo confesso, queste cose che colpiscono l’occhio; è più trascurato l’esterno culto del corpo e degli abiti, la parola è più rara, il volto più ilare, lo sguardo più modesto, l’incesso più grave. Ma poiché hanno cominciato ad essere così da poco, per la loro stessa novità sono da ritenersi fiori e speranza di frutti più che non già frutti. Per voi, figlioli, non abbiamo timore dell’astuzia delle volpi, che insidiano più i frutti che non i fiori. Il vostro pericolo viene da altrove. Non temo che mi vengano rubati i fiori, ma che vengano bruciati, bruciati dal freddo. La tramontana mi è sospetta, e i freddi del mattino che sono soliti rovinare i fiori venuti fuori anzitempo, compromettendo il frutto. Dunque, dalla tramontana verrà il vostro male. Di fronte al suo gelo chi resiste? (Sal 147,17). Questo freddo, una volta che ha pervaso un’anima, per sua incuria, come capita, e perché lo spirito sonnecchia, e in seguito non impedendolo alcuno, è pervenuto al suo intimo, ed è disceso in fondo al cuore e alla mente, e scossi i sentimenti avrà occupato le vie del consiglio, perturbato il lume del giudizio, condizionando la libertà di spirito, allora subito, come suole accadere nei febbricitanti, interviene una certa rigidezza dell’anima, il vigore si allenta, le forze sembrano illanguidirsi, l’austerità comincia a incutere terrore, il timore della povertà reclama, l’animo si stringe, viene sottratta la grazia, la vita sembra interminabile, la ragione si assopisce, lo spirito si spegne, diminuisce il fervore novizio, si fa più grave una fastidiosa tiepidezza, si raffredda l’amore fraterno, le passioni fanno sentire le loro lusinghe, svanisce la sicurezza, richiama l’abitudine. Che più? Si dissimula la legge, si rinunzia al dovere, si abbandona quello che è lecito, si lascia il timore del Signore. Infine, si dà mano all’impudenza: si ardisce fare quel temerario, quel vergognoso, quel salto assai turpe e pieno di ignominia e confusione dall’alto nell’abisso, dal palazzo nel letamaio, dalla reggia nella cloaca, dal cielo nella fogna, dal chiostro al secolo, dal paradiso all’inferno. Non appartiene a questo tempo dimostrare quale sia il principio e l’origine di questa peste, con quale arte si possa evitare, con quale virtù superare. Ora continuiamo quello che abbiamo cominciato.
7. Il discorso si può ritorcere ai più provetti e forti, alla vigna che già è fiorita, e che, anche se non ha da temere per i fiori a causa del freddo, i suoi frutti però non sono al sicuro dalle volpi. Si deve dire ben chiaro che cosa siano in senso spirituale queste volpi, perché si dicono piccole, perché sia comandato soprattutto di prenderle e di non scacciarle o ucciderle; si deve anche accennare ai diversi generi di queste bestie per maggior conoscenza e cautela di chi ascolta, non certo in questo sermone, per non renderlo noioso, e l’alacrità della nostra devozione si mantenga sempre nella grazia e nella confessione della gloria del grande Sposo della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LXIV
I. I diversi tipi di volpi, cioè di sottili tentazioni; ne indica quattro. II. Perché si comanda di catturare le volpi piuttosto che scacciarle, e perché sono dette piccole. III. Gli eretici sono le volpi, e che cosa significhi catturarli o con quali mezzi lo sposo ci comanda di catturarli.
I. 1. Eccomi alla mia promessa: Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne; poiché la nostra vigna è in fiore (Cant 2,15). Le volpi sono le tentazioni. E chi sarà coronato se non chi avrà bene combattuto? O come combatteranno se non c’è chi li contrasti? Tu dunque, accingendoti al servizio di Dio, sta in timore e prepara l’anima tua alla tentazione, certo che tutti quelli che vogliono piamente vivere in Cristo subiranno persecuzione. Ora, le tentazioni sono di diversa specie, secondo le diversità dei tempi. Quando noi siamo agli inizi, come a teneri fiori di novella piantagione incombe l’evidente pericolo delle brinate, di cui abbiamo parlato nel sermone precedente e abbiamo avvertito i principianti di stare in guardia da questa peste. Riguardo ai proficienti, le forze avversarie non ardiscono opporsi apertamente ai loro sentimenti e propositi più santi, ma di solito tendono insidie di nascosto, quasi piccole volpi astute, sotto le apparenze di virtù, ma in realtà vizi. Quanti, per esempio, ho visto che erano entrati nella via della vita, progredivano di bene in meglio, e poi, ahimè, mentre camminavano bene e con passo sicuro progredendo nei sentieri della giustizia, li ha veduti in malo modo soppiantati dall’inganno di queste volpi, e piangere troppo tardi per i frutti delle virtù in se stessi soffocati!
2. Ho visto un uomo che procedeva molto bene; ed ecco un pensiero; non fu forse una piccola volpe? «A quanti, fratelli, parenti e conoscenti, se fossi al mio paese potrei comunicare il bene di cui godo qui solo! Mi vogliono bene, e facilmente si lasceranno persuadere: Perché questo spreco? (Mt 26,8). Vado là, salvo molti di loro, me con loro. Né ho da temere per il cambiamento di luogo. Infatti, mentre faccio del bene, che importa dove lo faccio, dal momento che comunque sarà più abbondante dove il mio soggiorno è più fruttuoso?». In breve, se ne va, e il misero perisce, non come un esule tornato in patria, ma come un cane tornato al vomito. E l’infelice perdé se stesso, senza guadagnare nessuno dei suoi. Ecco una piccola volpe, vale a dire quella speranza ingannatrice che ebbe di guadagnare i suoi. Anche tu puoi da te stesso trovare in te stesso molte altre simili a questa, se stai bene attento.
3. Vuoi che te ne mostri ancora una? Te ne mostrerò anche una terza e una quarta, se ti troverò pronto a prenderle qualora le trovi nella vigna. Ogni tanto a un tale che fa buoni progressi, quando gli capita di sentirsi irrorato con maggior profusione dalla grazia celeste, viene il desiderio di predicare, non ai parenti e ai vicini, secondo ciò che è scritto: Subito, senza dar ascolto alla carne e al sangue (Gal 1,16), ma quasi fosse cosa più pura, più fruttuosa e coraggio sa, qua e là ad estranei, e a tutti. Con cautela tuttavia; egli teme in verità di incorrere nella maledizione del Profeta se nasconde al popolo quel frumento che ha ricevuto in segreto, e di agire contro il Vangelo se ciò che ha udito nell’orecchio non lo va a predicare sopra i tetti. È una volpe, e più nociva di quella di prima, quanto più occultamente si presenta. Ma io te la prendo. Per primo Mosè dice: Non attaccherai all’aratro il primogenito del bue (Dt 15,19). Paolo, interpretando questo passo dice: Non un neofito, perché non accada che gonfiatosi di superbia cada nella condanna del diavolo (1 Tm 3,6). E di nuovo: Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio come Aronne (Eb 5,4); e ancora lui: Come predicheranno, se non sono mandati? (Rm 10,15). E sappiamo che l’ufficio del monaco non è di insegnare, ma di piangere. Da questi passi messi insieme mi faccio una rete e catturo la volpe, perché non rovini la vigna. Da questo detto appare chiaro e certo che al monaco predicare pubblicamente né conviene, né è utile al novizio, né è lecito a chi non ne ha avuto il mandato. Ora, agire contrariamente a queste tre cose, quale danno porta alla coscienza! Dunque, qualsiasi cosa di questo genere venga suggerita all’animo, sia che si tratti di un tuo pensiero, sia che sia suggestione del maligno, riconosci in essa la piccola volpe, doè un male sotto le apparenze di bene.
4. Ma vedine un’altra. Quanti dai monasteri, dove vivevano fervorosamente, sono passati alla solitudine dell’eremo, e poi o l’eremo li ha vomitati perché divenuti tiepidi, o li ha conservati, contro la legge dell’eremo, non solo rilassati, ma dissoluti; e così ci si è accorti che c’era stata una piccola volpe a causare un così grave danno alla vigna, cioè alla vita e alla coscienza di quegli uomini. Pensava, uno di questi tali, che se si fosse appartato a vivere in solitudine, avrebbe ricavato frutti molto più abbondanti, lui che nella vita comune aveva sperimentato tanta grazia spirituale. E il suo pensiero gli parve buono; ma il risultato dimostrò che quel suo pensiero era stato una volpe distruttrice.
5. Che è quello che tante volte inquieta così gravemente anche noi in questa casa, parlo dell’astinenza clamorosa e superstiziosa di alcuni con la quale si rendono molesti a tutti e tutti a se stessi? Non è forse questa stessa così generale discordia e lo sconquasso della coscienza di quei tali una rovina di questa grande vigna piantata dalla destra del Signore, vale a dire dell’unione e unanimità di tutti voi? Guai all’uomo per il quale viene lo scandalo! (Mt 18,7). Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli... (Mt 18,6). È duro quello che segue. Quanto merita cose assai dure chi scandalizza una così grave e santa moltitudine! Chiunque sia quel tale subirà un giudizio durissimo. Ma di questo tratteremo altrove.
II. 6. Adesso invece badiamo a quello che dice lo Sposo riguardo a quei piccoli e astuti animali che rovinano le vigne. Piccoli, dirai, non per la malizia, ma per la loro sottigliezza. È questo, infatti, un genere astuto di animali, molto pronto a recar danno di nascosto; e a me sembra adattissimo a designare certi vizi sottilissimi camuffati da virtù, come quelli di cui ho fatto qualche cenno in breve, a mo’ di esempi. Né possono nuocere diversamente se non in quanto si presentano bugiardamente come virtù, prendendone l’apparenza. Sono pertanto o vani pensieri degli uomini, o suggestioni prodotte dagli Angeli cattivi, angeli di Satana, che si trasfigurano in Angeli di luce, che preparano le loro saette nella faretra, cioè di nascosto, per colpire nel buio i retti di cuore (Sal 10,2). Perciò penso che per questo siano dette volpi piccole, perché mentre gli altri vizi si presentano con una certa vistosa mole, questa specie non si può facilmente conoscere a causa della sua sottigliezza, e perciò difficilmente si può guardarsene, tranne dai perfetti ed esercitati, e coloro che hanno gli occhi del cuore illuminati per discernere il bene dal male, e massimamente per discernere gli spiriti, i quali possono dire con l’Apostolo: «Non ignoriamo le astuzie di Satana, né le sue macchinazioni». E vedi se non sia per questo che lo Sposo comanda non di sterminarle, o scacciarle, o ucciderle, ma di catturarle: perché, cioè, bisogna tener d’occhio queste spirituali astute bestiole con ogni vigilanza e cautela, esaminarle, e così prenderle, cioè comprenderle nella loro astuzia. Perciò quando appare l’imbroglio, quando si scopre la frode, quando si convince la falsità, molto bene allora si può dire presa una piccola volpe che danneggia la vigna. Infine, diciamo che un uomo è preso in parola, come trovi nel Vangelo che: I Giudei si radunarono per decidere di prendere Gesù in parola (Mt 22,15).
7. Così dunque lo Sposo ordina che siano prese le piccole volpi che devastano le vigne, che cioè siano sorprese, convinte, svelate. Solo questa specie di bestie maligne ha questo di proprio, che, una volta conosciute, non nuocciono più, così che essere conosciute per esse equivale ad essere vinte. Chi mai infatti, se non un pazzo, avendo scoperto il laccio, a occhi aperti vi mette il piede? È sufficiente perciò che siano prese, dato che sono così: cioè che siano scoperte ed esposte alla luce, perché per esse apparire è come perire. Non così gli altri vizi: vengono allo scoperto, allo scoperto danneggiano, irretiscono quelli che ben li conoscono, vincono chi oppone resistenza, in quanto agiscono con la forza, non con l’inganno. Perciò contro queste bestie che attaccano apertamente non occorre investigare, ma è necessario usare subito il freno. Soltanto queste piccole volpi, dissimulatrici al massimo e che svelate non nuocciono più, basta portarle alla luce e prenderle nella loro astuzia: poiché hanno le tane. Questa è la ragione per cui viene dato ordine di prenderle, e perché vengono dette piccole. Oppure sono dette piccole perché, osservando con occhio vigile, tu prenda subito al primo nascere i vizi che spuntano, fino a che sono piccoli, per timore che, cresciuti, portino maggior danno e più difficilmente si possano eliminare.
III. 8. E se, secondo l’allegoria, intendiamo per vigne le chiese, per volpi le eresie o piuttosto gli eretici stessi, il senso è semplice: gli eretici vengano presi piuttosto che scacciati. Siano presi, dico, non con le armi, ma con gli argomenti, con i quali siano confutati i loro errori; essi poi, se possibile, si riconcilino alla Chiesa Cattolica, siano richiamati alla vera fede. Questa, infatti, è la volontà di colui che vuole che tutti gli uomini si salvino e pervengano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4). Questo, infine, dichiara di volere lo Sposo, che non solo ha detto: «Prendete», ma «Prendeteci le volpi». Per sé, dunque, e per la sposa sua, la Cattolica Chiesa vuole si acquistino queste volpi quando dice: «Prendetele per noi». Un uomo, pertanto, di chiesa, esercitato e dotto, se viene a disputare con un eretico, deve mirare a questo: convincere l’errante in modo da convertirlo, pensando a quanto dice l’Apostolo Giacomo: Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati (Gc 5, 20). Che se quello ricuserà di convertirsi, né è convinto dopo la prima e la seconda ammonizione, come uno che è totalmente sovvertito, secondo l’Apostolo è da evitarsi. Da questo momento è meglio, almeno come io penso, che sia scacciato o isolato, piuttosto che permettere che porti pregiudizio alle vigne.
9. E pertanto, colui che ha vinto e convinto un eretico, confutato le sue eresie, distinguendo quello che è chiaramente e palesemente vero dal verosimile, che ha dimostrato con chiari ed invincibili argomenti la falsità di certe opinioni, stringendo con evidenti prove un’intelligenza traviata che si ergeva contro la scienza di Dio, non creda di aver faticato invano. Chi ha fatto tutte queste cose ha preso una volpe, anche se non con il risultato della sua salvezza; e l’ha presa per lo Sposo e per la sposa, sebbene in altro senso. Poiché, se l’eretico non si è risollevato dal suo errore, la Chiesa tuttavia ne è risultata confermata nella fede; e certamente lo Sposo si compiace dei vantaggi della Chiesa. È infatti gioia per il Signore la nostra fortezza (Ne 8,10). E poi non considera estranei a sé i nostri profitti, lui che con tanta degnazione si associa a noi, mentre ordina di prendere le volpi non per sé, ma per noi e per lui insieme: Prendeteci, dice. Da notare quel «ci», per noi. Che parola più socievole di questa? Non ti sembra di sentire un padre di famiglia che non ha nulla esclusivamente per sé, ma tutto in comune con la moglie, i figli e i domestici? E chi parla è Dio; ma questo non lo dice come Dio, ma come Sposo.
10. Prendeteci le volpi. Vedi come parla socievolmente lui che non ha soci? Poteva dire: «Per me», ma preferì dire «per noi» facendogli piacere la nostra compagnia. O dolcezza! O grazia! O forza dell’amore! Così, dunque, il più grande di tutti si è fatto uno tra tutti? Chi ha fatto questo? L’Amore, dimentico della propria dignità, ricco di benevolenza, potente nell’affetto, efficace nel persuadere. Che cosa di più violento? L’amore trionfa di Dio. E tuttavia che cosa di meno violento? È l’Amore. Quale è questa forza così violenta per la vittoria e così vinta per la violenza? Ha annichilito se stesso perché tu sappia che fu effetto dell’amore se la sua pienezza si effuse, se la sua altezza si adeguò alla nostra piccolezza, se la sua singolarità si è associata. Con chi, o ammirabile Sposo, ha stabilito un così familiare consorzio? Prendete, dice, per noi. Per chi con te? Per la tua Chiesa radunata dai Gentili? Essa è stata raccolta da mortali, peccatori. Noi sappiamo chi essa è. Ma tu chi sei, così devoto, così ambizioso amante di questa Etiope? Certo non un altro Mosè, ma più che Mosè. Non sei tu colui che è bello tra i figli dell’uomo? (Sal 44,3). Ho detto poco: tu sei il candore della vita eterna, splendore e figura della sostanza di Dio, infine sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.
SERMONE LXV
I. I nuovi eretici, soprattutto i famosi Tolosani sono indicati dal nome delle volpi, che spergiurando tengono nascosto il nome della loro setta. II. Come queste volpi vengano prese convivendo con donne. III. Come queste volpi sono prese, se non tolgono lo scandalo quando possono.
I. 1. Vi ho tenuto già due sermoni su uno stesso argomento; ve ne faccio un terzo se non vi sono troppo noioso. Penso che sia necessario, perché per quanto riguarda la nostra vigna domestica, che siete voi, mi sembra di aver detto abbastanza nei due precedenti sermoni per mettere in guardia contro le insidie di tre specie di volpi, che sono gli adulatori, i detrattori e certi spiriti seduttori specializzati nel far passare il male sotto pretesto di bene. Ma non così nella vigna del Signore. Parlo di quella che ha riempito la terra, della quale anche noi facciamo parte: vigna molto grande piantata dalla mano del Signore, comprata con il sangue, irrigata dalla parola, propagata dalla grazia, fecondata dallo Spirito. Prendendo, dunque, più cura del proprio, ho trascurato il comune. In suo favore sono ora mosso dalla moltitudine di coloro che la devastano, dal piccolo numero dei suoi difensori, dalla difficoltà di questa difesa. La difficoltà è costituita dal fatto che i nemici operano nell’ombra. La Chiesa, fin dall’inizo, ha sempre avuto delle volpi, ma presto furono scoperte e prese. L’eretico lottava apertamente infatti, di qui, si distingueva soprattutto l’eretico, che voleva pubblicamente vincere e soccombeva. Cosî, dunque, facilmente venivano prese quelle volpi. Che importava se, posta la verità in luce, l’eretico rimanendo nelle tenebre della sua ostinazione inaridiva relegato fuori solo? Tuttavia si reputava presa la volpe, mentre era condannata l’empietà e l’empio messo fuori. Non avrebbe vinto che in apparenza, ma senza frutto. Da allora, secondo il Profeta, le sue erano mammelle asciutte e sterile il suo ventre, perché l’errore pubblicamente confutato non ripullula, e la falsità messa in luce non germoglia.
2. Ma che cosa faremo per prendere queste malignissime volpi, le quali preferiscono nuocere più che vincere, né vogliono apparire, ma strisciare nascoste? Tutti gli eretici hanno sempre avuto una sola mira: procurarsi gloria mediante la singolarità della scienza. Solo questa volpe più maligna e scaltra di tutte le altre eresie si pasce dei danni altrui, trascurando la propria gloria. Edotta, credo, dagli esempi delle antiche, che smascherate non riuscivano a fuggire, ma subito venivano prese, è guardinga nell’operare il mistero di iniquità con un nuovo genere di maleficio, tanto più licenzioso quanto più nascosto. Questi nuovi eretici si sono prescritti di star nascosti, si ostinano nel fare il male, si accordano per nascondere tranelli (Sal 63,6). «Giura, spergiura, non tradire il segreto». In altre circostanze non tollerano affatto il semplice giuramento, perché, dicono, il Vangelo dice: Non giurare, né per il cielo, né per la terra... (Mt 5,34-35). O stolti e tardi di cuore (Lc 24,25), ripieni di spirito farisaico, che sputate via un moscerino, e deglutite un cammello! Non è lecito giurare, ed è lecito spergiurare? O solo nel caso vostro sono lecite le due cose? Da quale passo del Vangelo ritrovate voi questa eccezione, voi che non ne trascurate neppure un iota, come falsamente vi gloriate? È chiaro che voi osservate scrupolosamente quanto è prescritto del giuramento, e vergognosamente ammettete lo spergiuro. O perversità! Ciò che per cautela è stato deciso, cioè di non giurare, questo lo osservano scrupolosamente come un ordine, e ciò che è sancito da immutabile legge, cioè di non spergiurare, da questo come cosa indifferente dispensano a volontà: «Per non pubblicare il mistero», dicono. Quasi non sia a gloria di Dio rivelare le cose. Invidiano forse la gloria di Dio? Ma credo piuttosto che si vergognino di rivelare certe cose, perché disonorevoli per loro. Si dice, infatti, che in segreto compiano cose nefande e oscene: e in verità il posteriore delle volpi puzza.
3. Ma taccio quelle cose che essi negherebbero; rispondano a quanto è manifesto. Badano essi di non dare ai cani le cose sante, secondo il Vangelo, e le perle ai porci? Ma è un confessare apertamente di non appartenere alla Chiesa, quando si ritiene che tutti quelli che sono nella Chiesa sono cani e porci. Senza eccezione, infatti, a tutti coloro che non appartengono alla loro setta, pensano doversi sottrarre quello che è loro, qualunque cosa sia. Del resto, anche se così pensano, non risponderanno, per non tradirsi, casa che cercano in ogni modo di evitare, ma non vi riusciranno!
II. Rispondimi, o uomo che sai più di quanto occorra, e più di quanto si può dire dai segno di insipienza. È di Dio o no il mistero che nascondi? Se è di Dio, perché non lo sveli per la sua gloria? Poiché, torna a gloria di Dio rivelare la Parola (Pr 25,2). Se no, perché hai fede in quello che non è di Dio, se non perché sei un eretico? Pertanto, o svelino il segreto di Dio a gloria di Dio; oppure neghino il mistero di Dio, e ammettano di essere eretici; o per lo meno si confessino apertamente nemici della gloria di Dio, perché non vogliono che sia manifesto quello che sanno tornare a gloria di Lui. Sta, infatti, la verità della Scrittura: Gloria dei re è celare la parola, gloria di Dio rivelare la Parola (Pr 25,2). Non vuoi tu rivelare? Non vuoi, dunque, dar gloria a Dio. Ma, forse, non ricevi questa Scrittura. È così: si professano diffusori del solo Vangelo e i soli suoi difensori. Rispondano, dunque, al Vangelo. Quello che dico nelle tenebre, dice, ditelo alla luce, e ciò che vi vien detto all’orecchio, predicatelo sopra i tetti (Mt 10,27). Ormai non è lecito tacere. Fino a quando si tiene nascosto quello che Dio ordina di manifestare? Fino a quando è nascosto il vostro Vangelo? Penso al vostro Vangelo, non quello di Paolo, perché egli sostiene che il suo non è coperto. È chiarissimo che siete sulla via della perdizione. O non accettate neanche Paolo? Da alcuni ho inteso questo. Perché tra di voi non siete tutti d’accordo, anche se tutti dissentite da noi.
4. Accettate però tutti senza eccezione, se non erro, le parole, gli scritti e le tradizioni di coloro che furono corporalmente con il Salvatore, con pari autorità del Vangelo. Forse quelli tennero coperto il loro Vangelo? Hanno forse taciuto riguardo alle infermità della carne, alla morte orrenda, alla ignominia della croce subite dal Figlio di Dio? In tutta la terra si diffuse la loro voce (Sal 18,5). Dov’è l’apostolica forma e vita di cui vi vantate? Essi gridano, voi sussurrate; essi in pubblico, voi in un angolo; essi volano come nubi, voi vi nascondete nelle tenebre e in abitacoli sotterranei. Che cosa mostrate in voi che somigli a loro? Forse il fatto che non vi portate appresso, ma convivete con donnette? Non dà uguale sospetto l’essere compagno di viaggio, e il coabitare. Del resto, chi avrebbe sospettato qualche cosa di meno onesto in coloro che risuscitavano i morti? Fa’ anche tu lo stesso, e penserò che sia un uomo la donna che dorme con te. Diversamente è cosa temeraria pretendere di imitare la condotta di coloro dei quali non possiedi la santità. Stare sempre con una donna e non avere rapporti con essa, non è forse più che risuscitare i morti? Tu non puoi ciò che è meno, e vuoi che io ti creda capace di ciò che è più difficile? Ogni giorno stai a fianco a fianco con una giovane a tavola, il tuo letto è accanto al letto di lei nella camera, i tuoi occhi si fissano nei suoi parlando, le tue mani sono vicine a quelle di lei nel lavoro, e pretendi di essere stimato continente? Sia pure che tu lo sia, ma il mio sospetto rimane. Tu mi sei di scandalo: togli la causa dello scandalo, per provarti, come ti vanti, vero zelatore del Vangelo. Non condanna forse il Vangelo colui che avrà scandalizzato uno della Chiesa? Tu scandalizzi la Chiesa, tu sei una volpe che demolisce la vigna. Aiutatemi compagni, perché sia presa, o meglio, prendetela voi per noi, o Angeli santi. È molto astuta questa volpe, coperta della sua iniquità e empietà, così piccola e sottile da ingannare facilmente gli umani sguardi. Anche i vostri? Perciò si è rivolta a voi quella parola, come amici dello Sposo: Prendeteci le volpi piccoline. Fate, dunque, quanto vi è comandato: prendeteci questa volpe così scaltra, che già da tempo inseguiamo senza risultato. Insegnate e suggerite perché venga palesata la frode. Questo significherà aver preso la volpe, perché fa più danno un falso cattolico che un vero eretico. Non appartiene all’uomo sapere che cosa ci sia nell’uomo, a meno che egli sia per questo o illuminato dallo Spirito di Dio, o edotto dall’angelica industria. Che miracolo farete perché sia smascherata questa pessima eresia, edotta a mentire non solo con la lingua, ma con la vita?
5. La recente devastazione della vigna fa vedere che c’è stata la volpe; ma non capisco con quale arte nel fingere questo astutissimo animale riesce a confondere le impronte, di modo che un uomo non può facilmente scoprire di dove entri o di dove esca. Si vede l’effetto, non apparisce l’autore: talmente riesce a dissimulare tutto con apparenze contrarie. Se tu ne chiedi la fede, nulla di più conforme a quella cristiana; se ti informi circa la condotta, nulla di più irreprensibile: e quello che dice lo prova con i fatti. Puoi vedere quell’uomo, a testimonianza della sua fede, frequentare la Chiesa, onorare i presbiteri, fare le sue offerte, fare la confessione, comunicare ai sacramenti. Chi più fedele di lui? Per quello poi che riguarda la sua vita e i suoi costumi, non disturba nessuno, non imbroglia nessuno, non passa sopra nessuno. Le sue labbra, inoltre, impallidiscono per i digiuni, non mangia ozioso il suo pane, lavora con le sue mani per sostentare la vita. Dov’è la volpe? L’avevamo presa, come ci è sfuggita dalle mani? Come è così sparita in un batter d’occhio? Insistiamo, investighiamo: la conosceremo dai suoi frutti. Quel che è certo è che il danno alla vigna prova la presenza della volpe. Le donne, lasciati i mariti, e così i mariti, abbandonate le mogli, vengono da questi nuovi eretici Tolosani. Chierici e sacerdoti, lasciate le popolazioni e le chiese, capelloni e barbuti si sono trovati presso di loro, per lo più con tessitori e tessitrici. Non è questo un grave saccheggio? Non è forse opera delle volpi? Ma forse non presso tutti si trovano così manifeste queste cose, e se vi sono non è facile provarlo. In che modo li prendiamo? Torniamo alla comunanza e convivenza con le donne: tra di loro questo si trova in tutti. Ne interrogo uno a caso: «Ehi, tu brav’uomo, chi è questa donna, e come mai è qui con te? È tua moglie?». «No – risponde – poiché questo non conviene al mio voto». «Tua figlia, dunque?». «No». «Che? Non sorella, non nipote, non qualcuna della tua parentela?». «Affatto». «E come con questa è al sicuro la tua continenza? Questo davvero non ti è lecito. La Chiesa vieta, se non lo sai, la coabitazione degli uomini con le donne a coloro che hanno fatto voto di continenza. Se non vuoi scandalizzare la Chiesa, manda via la donna. Per di più diventano credibili, da questo, anche le altre dicerie che non sono così chiare».
7. «Ma da quale passo del Vangelo mi dimostri che questo è proibito?». «Hai fatto appello al Vangelo? Al Vangelo andrai. Se obbedisci al Vangelo non dai scandalo; poiché il Vangelo proibisce di dare scandalo. E tu dai questo scandalo non allontanando costei secondo quello che stabilisce la Chiesa. Eri sospetto, ma ora manifestamente ti dimostri e disprezzatore del Vangelo e contrario alla Chiesa». Che ne pensate fratelli? Se sarà ostinato e non obbedirà al Vangelo, né si conformerà alle regole della Chiesa, che cosa avrà da tergiversare? Non vi sembra che è stata scoperta la frode, presa la volpe? Se non rimandala donna non toglierà lo scandalo; se non toglierà lo scandalo, mentre lo può fare, sarà considerato trasgressore del Vangelo. Che farà la Chiesa, se non rimuovere colui che non vuol togliere lo scandalo, per non essere essa stessa disobbediente come lui? Ha, infatti, questo mandato dal Vangelo, di non risparmiare neppure il proprio occhio che è motivo di scandalo, né la mano, né il piede, ma di cavarlo o tagliarli e buttarli via. Se, dice, non ascolterà la Chiesa ritienilo come un pagano e un pubblicano (Mt 18,17).
8. Abbiamo fatto qualche cosa? Penso di sì. Abbiamo preso la volpe, perché abbiamo scoperto l’inganno. I falsi cattolici che erano nascosti si sono rivelati veri demolitori della Chiesa Cattolica. Mentre con me prendeva i dolci cibi voglio dire il corpo e il sangue del Signore mentre nella casa di Dio camminavamo insieme, vi fu occasione per persuadere, anzi opportunità per sedurre, secondo il detto della Sapienza: Con la bocca il simulatore inganna il suo amico (Pr 11,5). Ora facilmente, secondo la sapienza di Paolo, dopo una prima e una seconda ammonizione eviterò l’uomo eretico, sapendo che un tale individuo è stato sovvertito, e pertanto devo cautamente provvedere perché non sia anche un sovvertitore. Pertanto non è poca cosa, secondo la parola del Saggio, che gli iniqui siano presi nei loro lacci, specialmente quegli iniqui che usano le insidie come loro armi. Con costoro è inutile una discussione o una difesa. Si tratta di gente rozza e vile, senza cultura e del tutto imbelle. E poi sono volpi, e volpi piccole, ma neppure in quelle cose in cui sono detti di non sentire rettamente si possono convincere, anche se si tratta di cose non tanto sottili e facilmente comprensibili, e questo specialmente quando sono donnette ignoranti e idiote, come sono tutti quelli appartenenti a questa setta con i quali ho avuto a che fare. E neppure nelle loro asserzioni ricordo di aver udito qualche cosa di nuovo o di inaudito, ma sempre cose trite e ritrite tra gli antichi eretici e dai nostri riesumate e rispolverate. C’è tuttavia da dire quali siano quelle inezie che, richiesti dai cattolici, questi eretici meno cauti nel rispondere hanno confessato, in parte perché divisi e litigando tra loro hanno manifestato gli uni degli altri, e in parte cose rivelàte da alcuni di loro ritornati alla Chiesa Cattolica. Non che io risponda a tutte non è infatti necessario ma tanto perché si sappiano. Ma questo sarà materia di un altro sermone, a lode e gloria del nome dello Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.